Il padrone della voce
San Calimero, esterno giorno 12 settembre 2013. Michael Chance, brillante controtenore inglese, specialista dei repertori rinascimentali d’Albione si esibisce per Mito insieme a Paul Beier, virtuoso di liuto e tiorba. Lo spazio della chiesa è pienissimo, malgrado siano le cinque del pomeriggio. Il pubblico è assiepato fino ai gradini dell’altare, dove una pedana rossa accoglie i due interpreti.
Chance, noto anche per lavori in teatro, memorabile nella sua performance come Apollo in Death in Venice di Britten, ultimo disco un bel Danyel: Like as the Lute Delights, da poco edito da Stradivarius, avanza a passo di carica. Ha un quaderno in mano e un paio di occhiali: apre la bocca e canta. Mirabili pagine di John Dowland, come il famosissimo Lachrymae e di Henry Purcell, tra cui Music for a While, si susseguono. Il lavoro, notevole per cesello d’analisi e potenza a un tempo, è su ogni intonazione dei testi poetici, in inglese e in latino.
Colpisce la “naturalezza” della sua presenza. Come spesso succede negli eventi in chiesa, le campane recitano il loro credo e non si interrompono. Con un garibaldino “proviamo”, attacca un’aria che parla di amori disperati e di passioni senza scampo, in chiave di melanconia. Il cantante britannico è l’opposto della retorica latina: il tenore, pletorico, che fa larghi gesti per sottolineare le emozioni, che non può portare cappelli perché la sua emissione ne sarebbe irrimediabilmente offuscata, che vive nel mito della propria ugola.
La tradizione britannica, che ha origine nella chiesa e negli oratori più che nei melodrammi e quella dei palcoscenici d’opera nazionali, usa retoriche diversissime. Nel celebre racconto I sognatori, perla delle Sette storie gotiche di Karen Blixen, Pellegrina Leoni è ossessionata dal ricordo della propria voce perduta. Ella ha infatti preso fuoco alla Scala mentre interpretava Don Giovanni. Gli anni seguenti, di fughe e cambi di identità nella frenesia di scordarsi di sé, si concludono sulle montagne, quando la cantante infine ritorna a cimentarsi con la propria ugola e ne muore. Una sintesi magata, nera, di una tradizione latina che i canzonettisti frequentano ancora oggi, con gli aggiornamenti del caso.
L’enigma della voce, il dubbio su chi sia il padrone del suono, il mistero delle creature che hanno lo strumento in loro si declina nei territori mediterranei nell’enfasi della possessione. Il fantasma magnifico di Maria Callas nella visione video della Tosca di Zeffirelli, a fianco del mirabile Scarpia di Tito Gobbi, rappresenta un esempio illustre di trance, mentre la grande interprete ricorda le proprie origini ortodosse per un rito funebre di solenne ieraticità che conclude l’uccisione del tiranno. La voce fugge, scappa, va protetta, diviene l’ossessione di chi la ospita e per questo alimenta così tanti autori neri e gotici, che continuamente insistono, su sfondi del Belpaese, a parlare del potere magnetico di questa imponderabile epifania sonora.
Michael Chance annuncia in italiano preciso: abbiamo ancora tre minuti, c’è tempo per un ultimo Dowland. Intona in diretta, brucia quasi sul tempo il suo accompagnatore, che deve sempre accordare nuovamente lo strumento. Poi chiude di colpo il suo quaderno delle arie, si inchina e corre via. Nessuna posa scenica, anzi un repertorio di insistita naturalezza nel gesto e nel movimento, sembra quasi che da lì prenda avvio la voce, acuta e morbida, che dispiega le meraviglie dell’antico repertorio britannico.