Martina Testa, editoria e nuvole

22 Maggio 2014

Martina Testa ha lavorato per molti anni come redattrice, traduttrice e direttore editoriale a Minimun Fax. Domani, venerdì 23 maggio, alle ore 22, sarà a Macao, per partecipare a InEdito Festival dell'editoria indipendente.

 

Insieme a Paolo Cognetti e Alessandro Raveggi, autore del nostro ultimo Starter dedicato a David Foster Wallace, animerà un incontro sullo scrittore americano.

 

 


 

Fare editoria in un'epoca di crisi (non solo economica) cosa vuol dire? Il problema è avvertito da tutto il settore editoriale; in questi anni hai individuato delle modalità che le case editrici dovrebbero sviluppare per far fronte alla contrazione del mercato librario e assicurarsi una ragionevole sostenibilità economica?

 

No, io non le ho individuate affatto. Ho lavorato per 14 anni in una casa editrice indipendente, minimum fax, che ha estremamente a cuore la qualità della propria proposta e dei propri prodotti: ho sempre scelto i libri con la massima cura, e con la massima cura li ho tradotti o fatti tradurre, e ho fatto in modo che tutte le fasi della lavorazione redazionale, sia quelle di cui mi sono occupata personalmente, sia quelle a cui sovrintendevo, fossero svolte con la stessa massima cura: la correzione delle bozze, le scelte grafiche, la realizzazione cartotecnica... Questo ha sempre significato fare scelte antieconomiche: per esempio, rivedere le traduzioni riga per riga con l'originale a fronte e poi sottoporre la revisione al traduttore perché accetti o rifiuti ogni singolo intervento comporta tempi e costi elevati, così come fare numerosi giri di editing e di correzione di bozze (specie se vengono fatti da dipendenti della casa editrice e non subappaltati a free-lance che lavorano per tariffe ridicole e sono costretti a tempi di consegna assurdi). Tutta questa ricerca della qualità è ancora sostenibile in un mercato editoriale così in crisi? Non lo so, forse no. Ed è sostenibile, in un mercato editoriale così in crisi, un catalogo fortemente "letterario", senza instant book, senza memoir di vip, senza manuali di cucina delle star, senza titoli dall'immediato appeal commerciale? Di nuovo, non lo so, forse no.

 

Quello di cui sono certa è che trovo inaccettabili i metodi di abbattimento dei costi che moltissimi editori stanno adottando per far fronte alla crisi, ossia la precarizzazione del lavoro e la delocalizzazione della produzione (stampare in Cina o a Taiwan costa ovviamente molto meno, ma qual è l'impatto ambientale di questa scelta? E i lavoratori di una tipografia cinese operano con gli stessi standard di sicurezza e le stesse tutele sindacali di quelli di una tipografia italiana?). E trovo altrettanto inaccettabile tentare una risposta alla crisi abbassando la qualità della proposta, tagliando gli investimenti sui titoli o le collane meno "commerciali", abdicando al ruolo culturale e politico dell'editore per ridursi a puri disseminatori di intrattenimento di massa. Tutte queste strade mi sembra che siano metodi per restare a galla nell'immediato, ma, alla lunga, rimedi peggiori del male, perché portano a una diminuzione delle risorse, delle competenze, della capacità critica, di tutto ciò che rende vitale la vita economica e culturale di un paese.

 

Qual è quindi la via giusta da seguire? Ripeto: non lo so. Sono convinta che il declino del mercato editoriale sia in parte inevitabile: si leggono meno libri, io stessa leggo meno libri di 15 anni fa, e non tanto perché ho meno soldi per comprarli, ma perché anche per una persona piuttosto colta, curiosa, aggiornata com'è il potenziale "lettore forte" la concorrenza di altre fonti di contenuti culturali e di intrattenimento è schiacciante. Al calo del consumo di letteratura io sono abbastanza rassegnata, così come a una netta contrazione di tutto il settore dell'industria editoriale: però ritengo necessario (e anche forse inevitabile) che, sia pure nel ridimensionamento generale del settore, l'editoria letteraria e di progetto sopravviva; come farà? Le tecnologie digitali permettono sicuramente una drastica riduzione dei costi di produzione e soprattutto di distribuzione, e sono molto curiosa di vedere come questo scenario si evolverà nei prossimi anni (spero davvero in maniera non monopolistica e concentrazionaria). C'è chi vede il futuro nel crowdfunding o in nuove forme di mecenatismo; entrambe mi sembrano senz'altro soluzioni destinate a svilupparsi. Invece NESSUNO, ma proprio nessuno, parla della possibilità di un sostegno pubblico al settore librario, e quando ne parlo io gli amici mi danno della stalinista; è che proprio non mi viene facile accettare l'idea che un moderno stato democratico possa salvare dal fallimento un'azienda automobilistica, una banca, una società sportiva, una compagnia aerea (tutti soggetti privati e non certo non-profit), ma non possa destinare fondi a sostegno delle case editrici.

 

Il piano editoriale di una casa editrice è uno strumento di grande importanza strategica e progettuale, a partire dalla tua esperienza, e pensando anche a chi prova a fare l'editore indipendente oggi, ci puoi raccontare quali sono secondo te i criteri migliori da adottare e a partire da quali elementi elaborarlo?

 

Secondo me non esistono criteri "migliori" in assoluto, il piano editoriale si può creare in tanti modi diversi a seconda del tipo di casa editrice. Prendiamo due editori indipendenti: Newton Compton adotta sicuramente criteri diversi da quelli di Iperborea, e non saprei dire qual è il piano editoriale fatto "meglio"; si potrebbe dire che il piano editoriale migliore è quello che fa crescere di più il fatturato annuo, e allora magari quello di Newton Compton è fatto meglio; oppure il piano editoriale migliore è quello che crea maggiore riconoscibilità e autorevolezza del marchio, e in questo senso magari è migliore il piano editoriale di Iperborea... Insomma: per me è impossibile dare una risposta valida in assoluto.

 

Il piano editoriale di minimum fax è sempre stato elaborato a partire dalle scelte di gusto degli editor, dalle loro passioni personali; che un libro fosse ritenuto importante, valido, appassionante, emozionante... "bello", diciamo, da chi ne proponeva la pubblicazione era elemento indispensabile. Poi intervenivano le considerazioni pratiche: quanto costa pubblicarlo, quali ragionevoli speranze ci sono di venderne un numero di copie sufficiente a rientrare dei costi, se è troppo simile a qualcosa che abbiamo appena fatto o che sta facendo qualcun altro, ecc. ecc. Il piano editoriale era comunque sempre frutto di una riflessione e di un dibattito collettivo (che includeva l'ufficio stampa, il direttore commerciale, la responsabile della vendita dei diritti all'estero) a partire dalla proposta appassionata di un editor. Ecco, forse questa è l'unica "regola" che mi sentirei di dare: un piano editoriale solido per me nasce dall'entusiasmo di uno e passa per lo scambio di idee fra tanti.

 

Se dovessi aprire oggi una casa editrice come ti muoveresti? Di quali strumenti ti doteresti per creare un modello di business sostenibile? Di quali professionalità non potresti fare a meno e quali obiettivi ti porresti?

 

Come è evidente dalla mia risposta alla tua prima domanda, non ho affatto le idee chiare su come si possa mandare avanti una casa editrice oggi! E in generale sono pressoché priva di spirito imprenditoriale, in me predomina lo spirito impiegatizio. Poche cose mi vengono più difficili che immaginare di "creare un modello di business".

Mi sento solo di dire che le professionalità di cui non potrei fare a meno sono 1) un editor curioso e competente, capace di parlare e scrivere almeno in un paio di lingue, con molti contatti in Italia e all'estero; 2) un redattore ossessivamente preciso e puntuale, con competenze linguistiche e grammaticali a prova di bomba; 3) un responsabile della contabilità che tenga i conti in perfetto ordine. In pratica, mi sa che è la stessa roba che serviva per mettere su una casa editrice negli anni Cinquanta; o forse negli anni Venti. (Non è un caso che la retorica renziana del nuovo e del cambiaverso su di me abbia pochissima presa.)

 

L'obiettivo che mi porrei è raggiungere il maggior numero possibile di persone fra quelle che possono essere interessate ai libri che pubblico, apprezzarli e innamorarsene, il maggior numero possibile di potenziali lettori di quel titolo. È in questa fase secondo me che si gioca la sfida dell'editoria del futuro: io sono radicalmente convinta che, per dire, un romanzo di un autore contemporaneo americano come "È il tuo giorno, Billy Lynn!" di Ben Fountain non possa "parlare" a 50 milioni di italiani, ma a 5000-10.000 di loro sì; devo trovare il modo di farglielo arrivare. È qui che mi devono aiutare le nuove tecnologie, e strategie innovative di marketing e di comunicazione.

 

Perché il sistema attuale di promozione e distribuzione e vendita (viziato dalla presenza di enormi conglomerati che pretendono di applicare strategie valide per prodotti destinati al consumo di massa a prodotti non destinati al consumo di massa; strategie valide per prodotti di intrattenimento a prodotti non di intrattenimento, ecc.), il sistema attuale, dicevo, non mi aiuta affatto a raggiungere quel fine: con il sistema attuale, quel libro incontra solo 1000 (se va bene) dei suoi potenziali 10.000 lettori. È su questo fronte che serve pensare a modelli nuovi.

 

Domanda di rito sulla tua attività di traduttrice. Negli anni hai tradotto parecchi autori di culto, David Foster Wallace, Jonathan Lethem, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Aimee Bender contribuendo a farli conoscere in Italia. Quale scrittore ti ha dato maggiori difficoltà?

 

I libri che mi hanno dato più filo da torcere durante la traduzione mi hanno anche dato molta soddisfazione, perché per me non c'è niente di più gratificante che sapere di aver portato a termine in maniera dignitosa un compito difficile. Si tratta di: "John Henry Festival" di Colson Whitehead, "Cambiare idea" di Zadie Smith, "È il tuo giorno, Billy Lynn!" di Ben Fountain. Tutti e tre questi autori mi hanno anche dato tanta soddisfazione sul piano umano, perché fra noi si è creato un rapporto di stima e in certi casi proprio di amicizia. Come editor, invece, nessuno dei tre libri mi ha dato una piena soddisfazione: hanno tutti e tre venduto molto meno delle mie aspettative.

 

Ho letto in una tua intervista che per te l'ideale è quello di sparire dentro il linguaggio e lo stile dell'autore. Ci riesci veramente? Hai sviluppato un metodo particolare o è più un obiettivo che ti prefiggi e che ti aiuta durante il lavoro?

 

Non lo so se ci riesco veramente, ci provo! Se poi uno legge tre libri di autori diversti tradotti da me e trova che la lingua sia sempre uguale, evidentemente non ci sono riuscita.

Non so se è proprio un metodo, forse è più un processo mentale istintivo. Per me funziona così: innanzitutto, capire perfettamente cosa voleva dire/fare l'autore, perché ha scelto proprio quelle parole, perché le ha disposte così (quindi capirne non solo il significato, ma anche le sfumature semantiche, il registro, il valore sonoro, le eventuali allusioni intra- o inter-testuali); poi, una volta capito il 100% di quello che l'autore ha messo in quella riga di testo, trovare il modo di riprodurre il tutto in italiano nella maniera più fedele possibile. Ovviamente qualcosa va sempre perso: magari riesci a essere fedele al registro, ma usi un 30% di parole in più e la frase si allunga e il ritmo cambia. Ma l'ideale sarebbe non aggiungere niente, non metterci nulla di mio che non sia già nel testo di partenza.

 

Per come la vedo io, una frase si può tradurre magari in 20 modi diversi, ma non sono tutti modi intercambiabili, usare l'uno o l'altro non sta alla pura sensibilità soggettiva del traduttore: ce ne sono due o tre che sono oggettivamente più corretti degli altri -- spesso perché scorrono meglio in italiano, e nella lingua di partenza quella frase è scritta in maniera piana e scorrevole; o magari al contrario perché prevedono l'uso di termini o costruzioni poco comuni, laddove anche il testo di partenza è costruito in maniera deviante dalla norma. La scelta del traduttore dovrebbe insomma essere il più possibile guidata dal testo; ovviamente l'orecchio è importantissimo, ma non si tratta di "andare a orecchio" nel senso di improvvisare, bensì di saper scegliere, fra tutte le soluzioni possibili, quella che all'orecchio (e poi al cervello) del lettore italiano fa l'effetto più simile possibile a quello che il testo originale fa all'orecchio (e al cervello) del lettore originale.

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