Dal trailer al film / Godard. Tableaux, Films, Textes
Si potrebbe dire che un trailer ha sempre davanti a sé la possibilità di scegliere tra due modalità. La prima ha a che fare con l'essere il film attraverso un montaggio narrativo che ne riporta spezzoni in modo coerente e comprensibile, e principalmente neutrale; la seconda – più rara e variamente declinata – è presentare il film, ponendosi come suo commento esterno. Sono scelte inversamente proporzionali: laddove c'è il film che parla da sé c'è meno spazio per qualcuno che parli al posto suo. Nel caso in questione riesce ad essere entrambe le cose, e vediamo perché.
Nel trailer di Le livre d'image sembra esserci tutto, tranne proprio quelle immagini che si suppone andremo a vedere. Musiche off, voci fuori campo che annunciano l'inizio delle riprese di un film (è il primo ciak dell'Odissea nel Disprezzo, per la regia di Fritz Lang nel ruolo di se stesso), soprattutto silenzi, titoli – evidentemente – di film che vanno e vengono a intermittenza, sospensioni, tracce grafiche che scompaiono per riapparire, la scritta “musique” che entra solo nell'assenza della musica, preceduta da altre scritte, altrettanto indecifrabili, in sovraimpressione. Tableaux, Films, Textes. Tutto s'interrompe all'improvviso per poi riprendere allo stesso punto. A presentificare le grandi assenti ci pensa il titolo, che interviene in senso compensativo: Le livre d'image. Che stiamo vedendo? È a lui che ricorre lo spettatore, per identificare una forma di ancoraggio in dorsale per la visione del trailer. Insomma, defezioni di audio, problemi di lettura dell'immagine. A essere sinceri, l'effetto complessivo sembra legato piuttosto a una questione di malfunzionamento del proiettore; poi, ci viene il sospetto che sia tutto legittimo: in fondo è un trailer, per di più di Jean-Luc Godard.
L'assemblaggio casuale di tagli è prassi, e qui la manipolazione è ampiamente dichiarata. A conferma di ciò, gli stessi colori di sempre, cari al regista, il blu, il rosso e il bianco lavorano il testo artificialmente, delineandolo cioè come un oggetto su cui interviene un'operazione di natura artistica, laddove invece ci saremmo aspettati anche solo il mero assemblaggio di tagli senza particolari sforzi. In altre parole è il trailer perfetto, nell'apoteosi delle sue potenzialità. Nasconde tutto, e quel poco che mostra è difettoso, complicato, incompleto, opaco; è un trailer che non solo non lascia vedere il film ma non lascia vedere neanche se stesso. Godard se lo può permettere. Risulta accattivante perché è Godard certo, ma è così che andrebbero fatti i trailer, tutti.
Capita qualche volta che queste anticipazioni possano lasciarci assorbiti in un mood di cui certi film fin dalle prime inquadrature si preoccupano di mettere in discussione il ricordo. Qui invece la proiezione si pone subito in una linea di continuità rispetto al film, sotto tutti i punti di vista (ritmo, atmosfera, stile), soprattutto perché a sua volta, non esiste linea di continuità interna al film. Sembrava un trailer e invece è il film; sembrava una manipolazione finalizzata al trailer e invece è addirittura un campione (dello stile del film), prelevato peraltro in blocco dalla pellicola (è la sua parte conclusiva). Ci troviamo di fronte a uno di quei casi rari casi in cui addebitiamo la forma del trailer a qualcosa che gli è congenito, salvo scoprire che resta fedele alla forma stessa del film, perché anche il film è un commento sul cinema fatto della stessa materia cinematografica (a cominciare dell'elenco di film che propone), qualcosa sia di interno che di esterno a se stesso.
Si diceva nel trailer, i silenzi. E se c'è qualcosa che è strano al cinema, è proprio il silenzio, da affrontare in una sala buia e gremita, l'Astra dell'Anteo, dove il film viene presentato nella sezione Fuori Concorso della 23esima edizione del Milano Film Festival, dopo aver vinto la Palma Speciale a Cannes, introdotto da Mitra Farahani, una delle produttrici, che lo definisce “un affresco” e ci invita a soffermarci sul décalage tra le immagini e le parole. Il fatto però è che tra le parole e le immagini c'è ben più di un décalage. Ci sono prima di tutto dei vuoti critici, provocatori. In assenza di trama, il film diventa un'esperienza di natura sensoriale (da qualche parte è stato detto che farà il giro dei più importanti musei come opera interattiva), che coinvolge la percezione uditiva e visiva, impedendola nell'ufficio delle sue regolari funzioni. Si ode l'insofferenza del pubblico, di fronte a un confezionamento inconsueto. È parte della visione, ne integra gli interstizi, in mancanza di un rapimento che lascia senza fiato. In rima con il trailer che l'ha preceduto, anche qui il sonoro non lineare corona una visione inceppata. Frasi già cominciate o interrotte sul più bello (proprio mentre qualcuno è in procinto di dire “ti amo”), ripetizioni, fermi immagine, ralenti, sovraesposizione, sovrapposizioni, contraddizioni (“montage interdit”). Lo sparpagliamento del senso articola una visione disturbata fatta di accostamenti di materie eterogenee che rassomiglia al risultato stridente di una ricerca della frequenza giusta della radio, o un banale zapping (come si diceva un tempo) tra programmi televisivi, che se niente dirà del singolo contenuto sicuramente molto rivelerà al contrario del mezzo in sé.
Tutte le risorse del cinema concorrono a definire il risultato finale che ci si ricompone davanti a ricordarci in definitiva tutto quello che può voler dire (o aver voluto dire) lavorare sulle immagini in senso cinematografico; quella a cui assistiamo è tutta la storia del cinema (una nuova histoire(s) du cinéma) in senso linguistico, prima ancora che in quanto repertorio di immagini, col suo trailer sul cinema tutto, inteso in senso formale. È uno spot (con un occhio di riguardo nei confronti del copywriting), un'antologia, una teoria, un saggio, talmente colto che rende utopistica qualsiasi pretesa di coglierne tutti i riferimenti. In quest'intreccio tra cinema e letteratura, si isolano immagini, frasi, musiche particolarmente care. Come esplicitamente dichiara una frase in sottotitolo che, tra le tante, viene selezionata e citata dallo stesso Godard con voce fuori campo rauca, tossente, anch'essa quindi zoppicante: “solo il frammento porta la marca dell'autenticità” (“ci vuole un'eternità per fare la storia di un giorno”, cioè la frammentazione, l'estrema sintesi). Questo è il suo manifesto. Ma nel momento in cui si depone per sempre la speranza di capire, prende piede la sensazione che stia per ricompattarsi una trama politica. Politica, come dev’essere ogni rivoluzione.