L'ultimo romanzo dello scrittore veneziano / Il geco di Tiziano Scarpa

22 Aprile 2016

Il brevetto del geco si presenta anzitutto come un romanzo delle parole. Ogni volta che nelle vicende narrate intervengono motivi divaganti, chiose apparentemente eccentriche, estrose occasioni di dilatazione del tempo del racconto, ecco che la voce narrante si ritrae e “le parole” vanno, per così dire, avanti da sole stabilendo una relazione non più mediata con il lettore, al quale si rivolgono con una intimità che rassicura e coinvolge («Allora noi parole…»). Non è il periodico aggiornamento sull’eclissi dell’autore, ma il suo tramonto assunto come esperienza essenziale nella dialettica della creazione letteraria contemporanea.

 

Tolta di mezzo l’aura dell’autore quale titolare dell’officio della scrittura («scrivere un romanzo», si taglia corto già a p. 5, «è alla portata di tutti»), si predispone qualcosa di simile a un sacerdozio universale dei lettori di fronte alle parole liberate dalla sacra pronuncia autoriale. Le parole – che assumono autonomia di atti linguistici e dinamicità performativa – forzano così il limite della rappresentazione per mettere in discussione, a un tempo, la nozione di autorialità e l’episteme stessa della scrittura letteraria. Ne risulta un nuovo atto di fede nella letteratura presentata ed esercitata ora come spazio collettivo, esercizio di esegesi sociologica dei fenomeni culturali e addirittura potenziale via di «accesso alla partecipazione democratica» proprio per la facilità di presa di parola che la caratterizza.

 

Il principio autoriale è qui minato alle fondamenta, fatto crollare su se stesso ma poi abbracciato nel suo collassare. Il brevetto del geco è anche una deposizione dell’autore. Forse una sua resurrezione.

 

 Nella complessa architettura del romanzo, che ha la sua chiave nell’ingegnosa prefazione – insieme codice di accesso, esercizio di understatement e dichiarazione di poetica –, l’autore altro non è che un prestanome (prestavoce), il “vero” narratore essendo solo in absentia: un non nato, un non terminato (si scoprirà essere una sorta di eco, di flatus vocis proveniente dalla gravidanza interrotta di uno dei personaggi). Si presenta come «L’interrotto», una figura informe e afona che parla solo grazie a un «tutore transbiografico» (dichiaratamente “lo scrittore Tiziano Scarpa”, appunto). Più che della creazione surrogata, il non-personaggio si duole tuttavia di non essere al mondo se non come figura del linguaggio. Anche il mondo che può immaginare è pur sempre un mondo fatto di parole. Egli ha nostalgia del mondo che non ha potuto conoscere e non ha altro modo di conoscerlo che attraverso le parole: «Io ho soltanto – anzi, io sono soltanto queste parole».

 

L’interrotto, il nato a metà, il non finito, ricorda una formulazione misteriosa della tradizione buddista. Nell’Udana, collezione di detti solenni del Buddha, si legge di «qualcosa che non è nato, non è prodotto, non è condizionato. Se non esistesse qualcosa di non-nato, non-divenuto, non-composto, non-creato, non vi sarebbe sentiero per andare al di là del nato, del divenuto, del composto, del creato. Ed è perché esiste un non-nato, un non-prodotto, un non-condizionato, che esiste una possibilità di liberazione per ciò che è nato, che è divenuto, che è stato prodotto e condizionato». Così, forzando il confronto, è grazie all’invenzione di quel suo personaggio “non-nato” che Scarpa può permettersi di liberarsi dell’autore che egli è, eppure di continuare a muoversi nella sua ombra, sull’umbratile profilo di un individuo raffigurato nella prosa del mondo (secondo la definizione hegeliana del genere romanzo). Per questo, insomma, può scrivere ancora un romanzo, per quanto disincarnato e centrifugo, senza cedere alle derive del postromanzo o agli equivoci delle Creative Commons.

 

 

L’episteme che viene interrogata in questo romanzo sembra perciò divenire episteme dell’epoca, in senso foucaultiano: i limiti della rappresentazione letteraria sono i limiti dicibili di un’epoca, le sue forme esauste sono le forme di tale dicibilità. In questo senso, e forse al di là delle stesse intenzioni dell’autore, Il brevetto del geco è anche un’impresa di archeologia del presente.

 

Il brevetto del geco.

 

Ma se l’orizzonte filosofico di riferimento si apre su tanta parte della riflessione novecentesca («Oggi è possibile pensare solamente entro il vuoto dell’uomo scomparso», scriveva Foucault), la radice letteraria dell’Interrotto, questa figura dell’assenza interrogante e dell’incompiutezza necessaria, affonda evidentemente nel fertile terreno beckettiano. L’Interrotto è, come L’Innommable dell’omonimo romanzo-limite dello scrittore irlandese, incorporeo e ineffabile. Ha i tratti di famiglia di quella galleria di inesistenti, incompiuti, interminati che si animano nelle parole dell’inarrivabile Trilogia: Molloy, Moran, Malone, L’Innominabile. Tuttavia, mentre il non-personaggio di Beckett è costantemente incistato nell’interrogazione di se stesso, in cerca di una paradossale plausibilità autorale («dev’esserci qualcuno, questa voce deve pur appartenere a qualcuno»), quello di Scarpa esplicita fin dalla premessa la propria insignificanza e la rinuncia alla ricerca di un senso al suo essere “qui” in forma di parole, si spoglia insomma di questo orpello esistenziale rendendosi disponibile a giocare un ruolo molto più accondiscendente all’economia del romanzo. Un beckettismo ben temperato, alla portata di ogni lettore, leggibilissimo perché sostituisce alla rivolta dello sperimentalismo l’accettazione dell’impermanenza. Non serve più la guerriglia nella giungla della lingua, da tempo anche l’ultimo giapponese dell’avanguardia si è consegnato. Scrivere ancora vuol dire assecondare le parole, scomparire nel loro flusso. Non a caso la conclusione del Brevetto del geco sembra capovolgere quella di Molloy e superare quella de L’innominabile.

 

Se in quest’ultimo “romanzo” Beckett giunge all’estrema divaricazione tra “io” e linguaggio, tanto che il soggetto parlante per “continuare” non può che affacciarsi sul silenzio, farsi silenzio:

...sono parole, non c’è che questo, bisogna continuare, è tutto quello che so, loro stanno per fermarsi, conosco la cosa li sento che mi mollano, ci sarà il silenzio, un breve momento, un buon momento, in cui esso sarà il mio, quello che dura, che non è durato, che dura tuttora, sarò io, bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo, bisogna dire delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi trovino, fino a quando esse non mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno già detto, forse m’hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuerò (Trilogia, Einaudi, Torino 1996, p. 464).

nell’explicit di Scarpa “io” si ferma a guardare con noi lettori – attraverso di noi. È uno spettro che viene risucchiato da quelle stesse parole che lo hanno esalato («…noi parole ci mettiamo in fila e diamo un corpo a chi corpo non ha, gli diamo la parola «corpo») e dunque non è più lui, ma sono le parole, rimaste da sole, gettate sulla pagina – gettate nel mondo attraverso quella letteratura che sola può dare loro corpo, carattere, giustezza, significato – a “continuare”:

 

Noi parole restiamo da sole, tantissime, dilaghiamo in una folla, ognuna di noi parla anche se sembra che stia zitta, conficcate in noi stesse, nel folto mormorio, ascoltiamo il nostro coro comiziale fatto di bisbigli, ci impastiamo nelle cose che continuano, che riprendono a sistemare le loro faccende, c’è da svegliarsi presto, rispondere a una mail, fissare una data, firmare un contratto, chiedere la carità, prendere un impegno, disdire un appuntamento, fare amicizia, implorare perdono, mandare giù bocconi amari, dire la verità, prendere posizione, spaccare, accarezzare, opporsi, accudire, pregare, demolire, insorgere, destituire, commuovere, soccorrere, intonare, entusiasmare, essere un altro po’, essere un po’ di più.

 

In Beckett una voce cerca ancora un personaggio, in Scarpa tante voci vorticano creando visioni, ormai emancipate da qualsiasi personaggio, felicemente disincarnate, gioiosamente uscite dallo stato di minorità imputabile al coriaceo espediente letterario della voce narrante.

 

La cellula tematica dell’Interrotto ritorna nel testo a intervalli irregolari con incursioni più o meno brevi – incisi, commenti, lamentazioni, critiche, domande, elucubrazioni di natura linguistica, etimologica, psicologica, morale e talora perfino metafisica (del resto in ogni tradizione mistica chi parla non è il soggetto ma la parola stessa) – sempre tra parantesi quadre. Lo “scrittore Scarpa” presta dunque la voce all’afono Interrotto permettendo alle sue parole di venire alla luce – alla pagina – ma la sua già precaria legittimazione subisce le conseguenze di una duplice destabilizzazione. Da una parte le penetrazioni dirette dell’Interrotto (coerentemente registrate nella forma dell’integrazione d’autore tra parentesi quadre, visto che il non-nato non ha parola), dall’altra le scorribande delle “parole” che nascono con raffinata abilità dalle stesse frasi del narratore surrogato. Se Scarpa non scegliesse di marcare talvolta con una lieve soluzione di continuità («E noi parole…», «Allora noi parole…») la soglia di tale de-focalizzazione, la lettura neppure percepirebbe il passaggio – e a volte infatti non lo percepisce, e capita che il lettore si ritrovi spaesato e ormai privo di punti di riferimento narratologici quando ha già percorso un bel tratto allo scoperto. 

 

 

Paesaggi, chiese, musei, ricerche scientifiche, opere d’arte, ambienti, tecniche, ricette, strumenti vengono esplorati e dilatati, con una felicità di scrittura molte volte travolgente (la straordinaria descrizione-rianimazione del vecchio tabellone della stazione di Milano, con le parole-palette che ruotano fino a comporre in caratteri alfanumerici orari e destinazioni; l’acquerello linguistico, ancora umido di sensazioni e ricordi autobiografici, dal quale emerge come un miraggio la Laguna di Venezia), talaltra con esiti di quasi ostentata pedanteria con il dichiarato obiettivo del rallentamento del racconto. Perché anche questo è il romanzo oggi (il romanzo dell’oggi): «perdersi in una pletora di particolari di poco o nessun conto, quasi che si trattasse di dedicare ininterrottamente la massima attenzione a qualsiasi cosa». Come se ogni tanto i polpastrelli ultrasensibili di quel geco della scrittura che è Scarpa allargassero sul touch screen del romanzo la superficie narrativa, come se indicassero una porzione di mondo e poi provassero a ingrandirne i confini linguistici, un pinch-to-zoom che espande la capacità di visione della scrittura, cercando ancora, dando voce a qualcos’altro, oltre i confini del mondo dell’autore, per così dire, oltre i confini del suo linguaggio.

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