Musei dell'Est (4) / La vita quotidiana nella DDR
Un’articolata esposizione permanente, che si trova non nella capitale tedesca ma in una cittadina del Brandeburgo, Lutherstadt Wittenberg, patria di Martin Lutero, porta il nome di Haus der Alltagsgeschichte (Casa della storia della quotidianità). Su quattro piani di mostra, si documentano le specificità della vita di ogni giorno dagli anni Venti alla fine degli Ottanta. Non soltanto DDR, dunque, anche se l’accento sta proprio sui decenni di vita comunista.
Realizzate un viaggio indietro nel tempo, siate curiosi, perché qui vi aspetta pura storia contemporanea. Ritrovate un pezzo della vostra infanzia o qualcosa di interessante dalla vita quotidiana di altre persone.
Così recita il sito web. Soltanto in tedesco, come tutte le iscrizioni all’interno dell’esposizione. Pochi sono i turisti stranieri che si addentrano in città e il discorso si svolge tra compatrioti, preferibilmente ostalgici. L’iniziativa nasce sulla base di un’associazione, fondata nel 1997 dall’allora borgomastro di Wittenberg, impostata sullo studio dei processi agro-sociali nei nuovi stati federali, che dall’ottobre 2000 si è trasformata in “Centro di ricerca e documentazione per la cultura quotidiana della DDR e la storia quotidiana del XX secolo”.
La ricostruzione delle realtà abitative è puntigliosa e implica attenzione anche a una serie di particolari tralasciati dai musei berlinesi: la vita erotica e la vita notturna nel socialismo, con tanto di bar e discoteche. La Direttrice, dott.ssa Christel Panzig, che mi accompagnò personalmente in occasione della mia prima visita nel 2014 ostentando con orgoglio il suo filo-sovietismo, ribadì che lo scopo primario dell’esposizione era proprio testimoniare la qualità della vita nella DDR e sottolinearne gli aspetti positivi che la Wende aveva cancellato. Una delle tante mostre temporanee era stata fieramente dedicata all’ateismo nella DDR. Mi intrattenne anche sull’amicizia tedesco-sovietica, a cui era riservata un’altra rassegna temporanea, e mi mostrò i tomi che raccoglievano le lettere scambiate, dopo la smobilitazione del 1994, tra la popolazione e il contingente militare sovietico che aveva risieduto in città. Durante una successiva e più recente visita (11 giugno 2019), questa volta guidato da un giovane addetto ai lavori, mi permisi di far notare che nella diligente documentazione mancava ogni riferimento al sistema totalitario e all’ingerenza della STASI nella vita privata. Mi fu risposto che la STASI non aveva realizzato nulla di diverso da ciò che oggi compie il Finanzamt (ufficio delle tasse) e che di conseguenza non meritava attenzione espositiva. Pur influenzata dalla marcata posizione ideologica dei responsabili l’esposizione resta curiosa anche se non va oltre l’oleografica ed emotiva ricostruzione di ambienti (Disneyland ostalgica, si diceva).
Ekaterina Kalinina distingue due forme di Ostalgie: Una nostalgia “modernista” nei gli ex territori della Germania Est e una nostalgia “stilistica” diffusa essenzialmente (ma non esclusivamente) nella ex Germania Ovest.
Al momento le “stanze” ricreate alla Casa della storia hanno poco di “modernista” (nel senso di atteggiamento consapevole e auto-ironico relativo al proprio passato), né si concentrano su un’analisi degli stili della ex DDR con il dovuto distacco e straniamento. Sono piuttosto mimetiche rivisitazioni di situazioni abitative, ampiamente corredate di manichini, che puntano a una rappresentazione idilliaca della quotidianità ma che risultano prive sia di spirito critico che di atmosfera. Si trovano anche in netta contraddizione con ciò che Jurij Lotman sosteneva già parecchi decenni fa: Un’opera d’arte, nel contesto del suo insieme naturale, convive con opere non solo di altri generi ma anche di altre epoche. Qualsiasi intérieur culturale realmente esistente noi scegliessimo, non sarà mai riempito da oggetti e opere sincroniche rispetto al momento della loro creazione. Lo scrupoloso assemblaggio creativo segnato dai decenni di appartenenza pecca, dunque, anche sul fronte metodologico.
In quasi tutti i musei che propongono la ricostruzione di un negozio di alimentari, hanno notato gli studiosi, l’assortimento di prodotti è sempre assai più ricco di quanto mai fosse stato in realtà. Il museo di Wittenberg non fa eccezione.
Un particolare che era stato altamente significativo nel determinare l’ambiente degli appartamenti socialisti era la tappezzeria. Soltanto nel museo di Wittenberg, sia detto a sua lode, in alcune stanze, e soprattutto lungo le scale o su certi pianerottoli, sono state impiantate o non sono state rimosse le vecchie carte da parati. Tocchi di autentica estetica socialista più eloquenti di tante artificiose ricostruzioni.
Il settore dedicato ai souvenir si è vistosamente ingrandito nel corso degli anni. In occasione della mia ultima visita (2019) sia la quantità che la qualità dei prodotti offerti si era adeguata al gusto turistico e aveva privilegiato l’oggettistica e il design.
Assai ricco è l’archivio che raccoglie più di 28.000 foto e migliaia di documenti originali, giornali e riviste. E qui più che mai si riapre il discorso sull’opportunità di utilizzo anche artistico di questi materiali per uscire dalla polverosa concezione, spesso faziosa, di conservazione e catalogazione ossessiva di oggetti a fronte di una loro parsimoniosa performatività.
Per questo, nella maggior parte dei casi, gli artisti che lavorano con l’archivio come paradigma, metafora o medium, sono impegnati a sovvertire i tradizionali metodi classificatori e a realizzare dei contro modelli d’archivio (anarchivi), che a volte sono ben lontani dall’essere sistemi ordinati. E proprio qui sta quella sottile linea di confine, che in alcuni casi può essere anche di tangenza, con accumuli più caotici di oggetti e immagini (Cristina Baldacci).
La cittadina che accoglie la Casa della storia è stata accuratamente restaurata dopo la Wende, come molti altri centri del Brandeburgo, e sembra voler concentrare le proprie attrattive sul proprio passato remoto più che su quello prossimo. Dal 1997 è patrimonio dell’umanità dell’Unesco: era stata risparmiata dai bombardamenti degli Alleati che avevano stretto un accordo in tal senso nonostante nella città si fosse combattuto. Il centro storico è vasto e accogliente, tutto ruota attorno alle figure dei suoi più illustri figli (Lutero, Filippo Melantone e Lucas Cranach il Vecchio), le molteplici chiese e palazzi troneggiano con eleganza e i trascorsi socialisti paiono essere relegati ai quartieri periferici e alle stanze della Casa della storia.
Di levatura considerevolmente superiore, sia per l’impianto generale che per la conduzione delle ricerche, è il Museum Utopie und Alltag, con sede a Eisenhüttenstadt, una cittadina dalla storia molto particolare di cui ho già avuto occasione di trattare su “Doppiozero”, responsabile oggi sia della collezione iniziata in loco nel 1993 (sotto la rigorosa direzione dello storico Andreas Ludwig, proseguita fino al 2012), e confluita dal 2001 nella mostra permanente, che della raccolta d’arte conservata nella cittadina di Beeskow. Il Centro di documentazione sulla cultura quotidiana della DDR conta 170.000 pezzi e lavora con uno staff di tutto rispetto alla digitalizzazione, sistematizzazione e schedatura dei materiali per arrivare a costituire un vero archivio della cultura materiale. L’archivio artistico di Beeskow conta 18.500 reperti di arte visuale: quadri, sculture, disegni, grafica, fotografia. Negli anni i responsabili hanno sviluppato collaborazioni con Università, Fondazioni, Scuole, Istituti di ricerca tedeschi e stranieri.
I loro fondi sono a disposizione di chi li volesse indagare. Le esposizioni temporanee che organizzano, alcune sono parzialmente visitabili online, affrontano problematicamente temi scottanti quali il rapporto col passato del Paese, l’amicizia con l’Unione Sovietica, la fine della guerra e la liberazione, il lavoro femminile, sfruttando i materiali delle collezioni e facendoli dialogare con la storia in termini non retorici e anti convenzionali. Come dichiara il sito web: “Nella DDR, la promessa di una società migliore era in contrasto con la realtà della vita di molte persone. Ci si era ideologicamente appropriati dell’ideale che era stato screditato come utopia di stato. A questa contraddizione è dedicato il Museo Utopia e quotidianità che illustra l’interazione tra la cultura quotidiana, l’arte, l’architettura e il sistema sociale”. Il museo di Eisenhüttenstadt organizza dei laboratori per studenti di vari livelli scolastici e incontri-dibattiti su architettura, religione, politica con testimoni oculari della storia. Entrambe le sedi pubblicano regolarmente volumi di documentazione e analisi dei fenomeni sociali, culturali, politici e di consumo della ex DDR.
L’esposizione permanente di Eisenhüttenstadt offre “un’introduzione alla politica, società e al cosiddetto ‘modus vivendi socialista’ della DDR”. Un’audio-guida si sofferma sulla storia personale di 33 oggetti appositamente scelti dalla collezione. Nessuna full immersion attraverso sedicenti esperienze “autentiche”, nessuna garanzia di illuminazioni. Semplicemente sobrie ma documentate riflessioni su momenti, idee, situazioni specifiche da consegnare alla storia. Dopo il 1958 Walter Ulbricht dichiarò “compito economico primario” il superamento della Germania federale sul fronte dei consumi: introduzione di negozi self-service e ordini postali aumentano la diffusione dei prodotti.
La realtà culturale, e contro-culturale, viene trattata con la stessa sintetica distanza emotiva.
In quello che era stato il bagno originale dell’asilo si conservano documentazioni dell’epoca, senza scadere nell’oleografica ricostruzione struggente di un habitat perduto.
I tabelloni illustrativi non si limitano a fornire dati cronologici o statistici, ma suggeriscono riflessioni concettuali. Heimat: l’idea di patria come interpretata dalla DDR, un Paese nato senza essere voluto, sorto dalla disfatta della Germania nella Seconda guerra mondiale, dalla divisione in zone del Paese e dalla guerra fredda che avrebbe regolato l’esistenza di cittadini in due sistemi ideologici opposti. Heimat per la DDR diventava non soltanto uno stato emotivo e mentale (sicurezza, appartenenza, mentalità) ma un programma politico. L’iniziale idea di utopia a cui dare il proprio contributo si era trasformata, con l’erezione del Muro di Berlino, in una costrizione definita da confini di stato. Apprezzabile è anche la sintetica riflessione sul cambio di status degli oggetti dopo il crollo del sistema, sul loro deprezzamento e conseguente rottamazione: “auto di cui si attendeva la consegna per anni offerte in cambio di ben più potenti macchine occidentali, simboli di partito prestigiosi ridotti a carabattole senza valore, restaurazione e demolizioni di edifici, la torre di Alexanderplatz, ex simbolo del socialismo, che diventa l’icona della nuova Berlino unificata”. Pensieri sui quali vale la pena di soffermarsi e che i materiali della mostra aiutano ad approfondire.
In parallelo si affronta la particolarissima storia della cittadina (nata nel 1951 come Stalinstadt), della sua acciaieria e di ciò che aveva significato per l’utopia socialista, realizzata e poi progressivamente smantellata.
Domina un’apprezzabile obiettività: non si concede nulla all’Ostalgie, non si deridono abitudini e mentalità, non si trascurano realtà scomode ma senza trasformarle in attrazione spettacolare. Si documenta, fornendo in parallelo attraverso le altre attività del centro, occasioni di approfondimento e discussione. L’edificio in cui si trova l’esposizione era nato nel 1953 come complesso infantile che prevedeva nido d’infanzia, asilo e convitto settimanale, dove i bambini restavano dal lunedì al venerdì, e ha funzionato fino al 1990. Una vetrata del 1953 di Walter Womacka, artista chiave della DDR, ne ricorda l’uso primigenio. Lungo le scale si può tuttora notare il doppio corrimano, anche a misura di bimbo.
Anche, e soprattutto, in questo caso un giro per la cittadina sarà il complemento ideale per meglio affrontare i paradossi del comunismo, anzi, a rovescio: la visita al museo costituirà il complemento ideale all’escursione per le vie del “centro storico” (sessantenne) di Eisenhüttenstadt. Oggi restaurato di fresco, ancora abitato e accogliente nella sua pur algida e geometrica armonia ingentilita dalla folta vegetazione.
Il tragitto da e per la stazione ferroviaria rivelerà il ben più misero destino dei quartieri periferici, risalenti ai decenni successivi alla fondazione, oggi abbandonati se non distrutti in seguito alla riduzione di lavoro nell’acciaieria e alle conseguenze della riunificazione.
Tante pagine di storia, concentrate in una sessantina d’anni, di esclusiva eloquenza per le quali vale la pena di prendere un treno, avvicinarsi al confine polacco e deambulare per qualche ora tra reperti di un passato in cui persone diverse affrontano, non senza fatica, una nuova esperienza quotidiana.