Labirinti

9 Giugno 2015

Il raffinato editore emiliano Franco Maria Ricci ha appena inaugurato un labirinto realizzato tra il 2004 e il 2015, a Fontanellato (in provincia di Parma). Il labirinto è fatto con piante di bambù di specie diverse. In uno spazio di 7 ettari, la struttura ospita complessi culturali per un’estensione di oltre 5.000 metri quadrati: un museo per la sua collezione d’arte di oltre 500 opere; una biblioteca (con i 1.200 libri stampati da Giambattista Bodoni, e 15.000 volumi di storia dell’arte); una casa editrice (la già nota Ricci Editore, che il proprietario ha venduto nel 2004 per finanziare il progetto e ora ha ricomprato); una sala delle feste e dei balli; la piazza di un borgo con la sua chiesa; una torre belvedere. Ricci ha scritto sul proprio sito:
 

Da sempre i Labirinti mi affascinano. Insieme ai Giardini, sono tra le fantasie più antiche dell’umanità. Il Giardino, o Eden – così bello che Adamo ed Eva, freschi di creazione, continuavano a stropicciarsi gli occhi – incarna l’innocenza e la felicità; il Labirinto è, invece, una creazione del Potere e una fonte di turbamenti. Riflette la perplessa esperienza che abbiamo della realtà. Sognai per la prima volta di costruire un Labirinto circa venti anni fa, nel periodo in cui, a più riprese, ebbi ospite, nella mia casa di campagna vicino a Parma, un amico, oltreché collaboratore importantissimo della casa editrice che avevo fondato: lo scrittore argentino Jorge Luis Borges.

 

 

Il Labirinto suscita un’inquietante attrazione sugli esseri umani, come l’abisso o il gorgo dell’acqua. È una spirale che ci cattura portandoci verso il suo centro. Intuitivamente quindi cogliamo la vera forma del labirinto, anche se di solito si è portati a pensare che esso abbia la forma squadrata di un edificio particolare. Questo probabilmente perché il labirinto è una costruzione architettonica definita, a partire da Erodoto, con certe caratteristiche: l'utilizzazione della pietra; la pianta intricata; il gran numero di ambienti comunicanti uno con l’altro ο tramite cortili; un unico muro esterno che li racchiude; la difficoltà di accedere ai vani sotterranei.

 

I testi antichi, in particolare Plinio il Vecchio, citano cinque grandi edifici-labirinto:

  1. 1) il tempio funerario a Hawara, presso il lago di Meride nel Fayum (Egitto);
  2. 2) il palazzo di Cnosso, a nord dell’Isola di Creta;
  3. 3) il palazzo di Gortyna, a sud sempre dell’Isola di Creta;
  4. 4) il palazzo nell’Isola di Lemno (del quale non si è trovata traccia, e forse stava in realtà a Samo);
  5. 5) i cunicoli, probabilmente un acquedotto, che si dipanano sotto la città etrusca di Chiusi (il cosiddetto “Labirinto di Porsenna”).

 

Il più celebre labirinto, quello che la leggenda attribuisce all’architetto cretese Dedalo, era la complessa costruzione del Palazzo di Cnosso, dove il re Minosse avrebbe rinchiuso il mitico Minotauro. Questa leggenda è avvalorata dagli scavi archeologici che mostrano una apparente assenza di un preciso progetto costruttivo per quell’immenso palazzo (grande più di 10.000 mq su più piani): un vero labirinto di corridoi e scale e che, prima della sua distruzione, aveva quasi 1300 sale comunicanti con l’esterno attraverso due soli ingressi.

 

Ma a Creta, sempre nella parte meridionale, vicino a Gortyna, c’era un altro grande palazzo, quello di Festo (risalente alla fine del XVI secolo a.C.), che presenta su un gradino della sua imponente scalinata l’incisione di un segno labirintico a forma di ghirigoro.

 

 

Nel 1908, proprio in prossimità del Palazzo, fu scoperto un altro labirinto a spirale: il cosiddetto Disco di Festo, un vero e proprio rompicapo archeologico, non ancora decifrato. C’è chi sostiene che la struttura testuale, disposta a spirale, del disco possa contenere un testo giuridico (Meriggi), altri che sia una sorta di complicato calendario. Molti studiosi connettono questo labirinto al repertorio rituale del mondo agricolo, in qualche modo legato con i periodi della semina e del raccolto e, perciò, anche con i cicli solari. Un'altra interpretazione aggancia il simbolo a percorsi iniziatici.

 

Secondo il grande filologo "eretico" Giovanni Semerano il termine “labirinto” compare per la prima volta in Erodoto e vuol dire “tomba o luogo destinato agli antenati”. Probabilmente lo storico greco dovette aver raccolto questa voce in Egitto, dove, a Hawara, vide il labirinto (sotto una sorta di piramide) che nel piano inaccessibile conservava le tombe degli antichi re (Herod., 2, 148): il tempio funerario eretto da Amenemhet III (1849-1801 ca. a.C.). A sua volta Diodoro Siculo indica l’edificio egizio descritto da Erodoto come il modello seguito da Dedalo per disegnare il Palazzo labirintico di Cnosso.

 

 La parola “labirinto” ha un’origine accadica: labirũte significa “antico” (detto dei re e delle antiche costruzioni). La voce “labúrinthos” è stata anche accostata alla voce lidia, attestata da Plutarco (M. 302 a), “lábrus”= ascia[1]. E, in effetti, un’ascia bipenne appare come effige nel Palazzo di Cnosso e sarebbe il simbolo della doppiezza del potere (creatore e distruttore) nonché della potenza di Giove Ideo e della sua folgore. A Creta i labirinti, di forme differenti, venivano riprodotti ovunque, persino sulle monete.

 

 

Il labirinto ha originariamente il significato di un ghirigoro, di un attorcigliamento. I Babilonesi disegnavano nelle tavolette lo schema del groviglio degli intestini nella forma del labirinto. Gli intestini erano denominati “ekallu” = palazzo: la grande casa dei segni caratteristici per divinare il futuro, rappresentata appunto come una specie di labirinto. Il nome “labirinto” fu quindi dato a disegni di meandri spiraliformi, come vediamo nel vaso (Oinochoe) etrusco di Tragliatella (VII sec. a.C.; custodito nel Museo Capitolino, Palazzo dei Conservatori, a Roma).

 

 

Accanto alle immagini ci sono delle scritte. Nel fregio realizzato sulla pancia del vaso c’è la riproduzione di un labirinto a sette corridoi di tipo cretese. Sopra c’è scritto: “truia”. Semerano traduce questa parola etrusca come “ciclo, giro”, rifacendosi all’accadico tajjãru (“che compie un giro”) e tajjartu (“ciclo”)[2]. Dalla spirale-labirinto escono due guerrieri a cavallo recanti entrambi uno scudo su cui compare un uccello (forse oche: messaggere tra cielo e terra), mentre solo il secondo è armato anche di lancia. A precederli è un uomo nudo danzante con lungo bastone, a cui seguono sette guerrieri armati ciascuno di tre corte lance e scudo rotondo raffigurante un cinghiale. Dietro il labirinto, molto esplicitamente, due coppie stanno facendo all’amore. L’interpretazione più accreditata è quella che collega il complesso figurativo del vaso di Tragliatella con il mito di Teseo e di Arianna. La provenienza dei fanti e dei cavalieri dal labirinto e il numero (sette) dei fanti danzanti, pari a quello degli uomini che, stando alle fonti, avrebbero partecipato alla spedizione di Teseo, riconducono alla danza della geranos che lo stesso Teseo eseguì a Delo con i suoi compagni per festeggiare il ritorno da Creta. Durante l’esecuzione i partecipanti erano uniti da una fune e i passi erano guidati da un geranoulkos che, tenendo il capo della fune, indicava la direzione della danza rievocando il filo che Arianna (il “gomitolo” è un labirinto) aveva donato a Teseo.

 

Sembrerebbe quindi che le immagini labirintiche si tengano assieme. Come ha notato Paolo Santarcangeli[3] si possono ritrovare tracce di spirali in molte culture, legate alla simbologia sessuale femminile:

A Creta e sulle altre isole, la spirale è il segno della fertilità; è perfino situato sul sesso delle figure femminili; originariamente è quindi probabilmente il simbolo del ventre femminile. Lo vediamo spesso disegnato sulle brocche per l’acqua: l’acqua è ugualmente un simbolo della fertilità.

 

 

 Forse il primo leggendario labirinto a spirale, legato all’amore per una donna, fu costruito da Poseidone nell’isola di Atlantide. Secondo Platone (Crizia, 113 D): «Poseidone, preso da passione, giacque con Clito. Così scavò tutt’intorno all’altura in cui la fanciulla abitava, formando come dei cerchi concentrici, alternativamente di mare e di terra ora più larghi ora meno larghi: due di terra e tre di mare quasi fossero circonferenze con centro nell’isola e da essa perfettamente equidistanti. In tal modo quel luogo risultava inaccessibile…». Ma in tutte le civiltà si trovano disegni di labirinti a spirale, dalle forme assai simili. Ricordiamone alcuni: il simbolo sacro degli indiani Hopi (tribù del Pueblo, Stati Uniti, studiati da Aby Warburg nel 1895); il simbolo presente nel Manas Chakra (Rajastan, India); un’incisione rupestre nella Rocky Valley (Tintagel, Cornovaglia); il simbolo su tavoletta di argilla, risalente al 1200 a.C., ritrovata nel palazzo di Nestore (Pilo di Messenia, Peloponneso); l’incisione di Padugula (India); il tracciato di pietre di St. Agnes (Isole di Scilly, Regno Unito); il simbolo ritrovato a Sibbo (Finlandia). Nella Domus de Janas di Luzzanas (Benetutti, Sardegna) c'è un'incisione molto particolare che raffigura un labirinto, che potrebbe essere stata realizzata in epoca romana e un’incisione rupestre del tutto simile è stata scoperta a Naquane, Capo di Ponte in Valcamonica (Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri).

 

 

Anche in Giappone i templi Sazaedô, possono essere considerati dei veri e propri labirinti. In queste pagode cuspidate, il percorso labirintico delle scale, che salgono e scendono intersecandosi, come la spirale di una conchiglia, modifica e turba la conoscenza e la pratica abituale dello spazio delle persone che vi entrano. Il motivo della spirale che le contraddistingue non è d’importazione buddista: la sua esistenza è precedente l’introduzione di questa religione in Giappone[4].

 

 

 Il tema della spirale, doppia o tripla, risale a quando i primi uomini tracciarono dei segni in Giappone: già nel periodo Jômon (2000-1000 a.C.) e nelle figurine “Madre-Terra” in pietra o in terra cotta del periodo Yayoi (300 a.C.-300 d.C.), sulle brocche per l’acqua. Negli antichi miti giapponesi queste figurine femminili sono delle dee della fecondità[5].

 

Nei labirinti il percorso è senza errori possibili, anche se confonde il visitatore, che perde il senso dell’orientamento. È strettamente legato al tema del Sacro, ed è stato molto utilizzato nelle tradizioni religiose. Il labirinto simboleggia un percorso interiore attraverso il quale lo spirito si può evolvere e innalzare ad un livello superiore. Il centro del labirinto, secondo Mircea Eliade, rappresenterebbe la sacralità. Il cammino tortuoso per arrivarci assumerebbe quindi una funzione di protezione del sacro nei confronti dei profani, essendone riservato l’accesso ai soli iniziati: la difesa di un luogo sacro, di un tesoro molto prosaico (fatto di denaro o di beni materiali) o spirituale (immortalità, virtù, elevazione al divino, conoscenza di sé). Se si osserva, ad esempio, il labirinto della Cattedrale di Chartres (XII sec.), si nota che non c’è una sola biforcazione. Questo perché non si voleva far perdere il pellegrino o farlo uscire, ma condurlo al centro.

 

 

In Francia, anche la Cattedrale di Reims (1275) presentava, all’ingresso, un enorme labirinto pavimentale di pregevole fattura, andato perduto. Aveva la forma ottagonale, con quattro appendici ai lati ancora in forma di ottagono, nelle quali comparivano le figure di alcuni monaci: costituivano, di fatto, quattro "tappe intermedie" nel complesso percorso del labirinto. La zona centrale presentava anch’essa la figura di un monaco. La Cattedrale di Amiens (1288) aveva inizialmente, al centro del labirinto sul pavimento, incastonata una sbarra d’oro, insieme ad un semicerchio dello stesso metallo, che dovevano simboleggiare la levata del sole sull’orizzonte. Successivamente il sole d'oro venne sostituito da un sole di rame, poi anche questo venne tolto. Oggi la placca centrale riporta una croce fatta con scettri, orientata secondo i punti cardinali, e tutto intorno ci sono le figure del vescovo fondatore Evrard e degli architetti della cattedrale. Pesantemente danneggiato durante la Rivoluzione Francese, il labirinto venne rimosso (quello che vediamo oggi è una riproduzione fedele che è stata realizzata nel XIX secolo).

 

In Italia, nel Chiostro di San Francesco dell’omonima chiesa ad Alatri (Frosinone), è stato scoperto alla fine del 1996, un affresco di circa 140 cm di diametro raffigurante lo stesso percorso labirintico, ma con il Cristo al posto del rosone centrale, risalente, forse a una data addirittura anteriore a quello della Cattedrale di Chartres, e unico nel suo genere. Sempre in Italia un altro labirinto dello stesso tipo si trova su un pilastro del portico (opera di Guidetto da Como) della Cattedrale di San Martino a Lucca (1060-1204), affiancato da un’iscrizione in latino: "Hic quem Creticus edit Daedalus est laberinthus de quo nullus vadere quivit qui fuit intus ni Theseus gratis Ariane stamine jutus" ("Questo è il labirinto costruito dal cretese Dedalo di cui nessuno è mai riuscito a trovare l'uscita se non Teseo, grazie al filo di Arianna.").

 

 

Un labirinto che viene ricondotto a questo è stato da poco (2012) restaurato nel Convento di san Francesco ad Alatri (Francia). L’affresco raffigura un labirinto costituito da undici spire, di circa 140 cm di diametro, al centro del quale è dipinta la figura di un Cristo Pantocratore (non esistono altri casi noti di raffigurazioni di un labirinto con un Cristo al centro) con il volto barbuto e un'aureola che gli circonda il capo, con indosso una tunica scura e un mantello dorato. Con la mano sinistra il Cristo regge un libro chiuso, forse il Libro della Vita, mentre con la mano destra benedicente indica l'uscita dal labirinto.

 

 

La caratteristica di questi labirinti a 11 spire sui pavimenti delle chiese è di essere “unicursali”: con una sola via da percorrere che, per quanto tortuosa possa sembrare, conduce inesorabilmente al centro. Questi percorsi volevano simboleggiare le difficoltà, le fatiche del cammino per arrivare alla Gerusalemme celeste, città di Dio, e l’unione con il Cristo, obbiettivo ultimo della fede cristiana. Il percorso in ginocchio del labirinto era quindi una sorta di sostituzione del pellegrinaggio reale in Terra Santa.

 

Il rito del pellegrinaggio simbolico tramite il labirinto, col XIII secolo andò scemando in Europa. Nel XVII secolo, molti labirinti erano stati ormai distrutti o erano rovine invase dalle erbacce con rari ricordi. I labirinti si cominciarono a trovare più spesso nei giardini o nelle ville, come giochi costruiti con cespugli e alberi ordinatamente tagliuzzati secondo la necessità.

 

Con la decadenza del Sacro, il labirinto ha perso i suoi significati più profondi (metafisici e anche erotici) per diventare un curioso e un po’ vetusto passatempo tra le frasche o lo sfondo ideale per un gioco elettronico dove il nostro eroe corre a zigzag per sfuggire all’inseguimento di variopinti mostri. “Labirinto” ha ormai, almeno architettonicamente, un significato negativo: le favelas o le bidonvilles delle città contemporanee, crescendo spontaneamente e senza un briciolo di piano urbanistico, si presentano spesso come dei veri e propri vasti luoghi dove ci si perde (e non c’è nemmeno un centro dove arrivare: si può soltanto girare a vuoto e smarrirsi). Certi mastodontici edifici, dove ci si perde non appena varcata la soglia, possono essere considerati dei labirinti dell’orrore abitativo, come il mastodontico serpentone del Corviale (architetto Mario Fiorentino e altri) o le Vele di Scampia (architetto Franz Di Salvo).

 

Eppure, guardare nuovamente al labirinto è come tornare alle origini. È ciò ha fatto l’architetto americano Frank Lloyd Wright. La sua “architettura organica” definisce le caratteristiche geometriche di un oggetto, cioè dei suoi elementi costitutivi, attraverso un processo di astrazione. Le maglie quadrangolari, esagonali e circolari dei suoi edifici condividono con altrettanti “edifici naturali”, quali le conchiglie, i cristalli e gli alveari, i parametri guida e gli schemi di crescita delle loro strutture. Nel 1938, Wright decise di trasferire parte della sua attività nel deserto dell’Arizona, sopra Phoenix, progettando un complesso architettonico delle dimensioni di un villaggio chiamato Taliesin West. Wright, a contatto con l’ambiente vergine del deserto, si impegnò in quel processo fondativo con la stessa attitudine sacrale di un antico fondatore di città. Moltissime sono le analogie con i palazzi-labirinto cretesi, soprattutto con quello di Festo: «Anche nei palazzi cretesi, l’asse principale del cortile centrale era rivolto verso la vetta di una montagna sacra… in particolare la disposizione di Taliesin West richiama Festo, dove il monte Ida sorge dietro il cortile del palazzo, che davanti si affaccia sulla valle a sud”, esattamente come avviene nel deserto dell’Arizona»[6]. Il logo di Wright e della sua Fondazione erano del resto, persino sulla carta intestata, il labirinto stilizzato.

 

 

Il labirinto è diventato un gioco. Si disegnano labirinti, soprattutto virtuali, “per gioco” appunto, imitando le visioni architettoniche disegnate dall’olandese Maurits Cornelis Escher. Perché oggi, come aveva intuito alla vigilia della tragedia della Seconda guerra mondiale un altro olandese, lo storico Johan Huizinga, nel suo libro Homo ludens, ormai quasi tutto vien preso per gioco e scherzo.

 

È curioso invece che il labirinto, nel campo delle patologie, sia associato all’equilibrio. Con la “labirintite” infatti non si riesce a stare in piedi. Il termine “labirintite” indica un disturbo dovuto all’infiammazione di una zona dell’orecchio interno chiamata labirinto, a forma appunto di spirale, con danneggiamento del sistema vestibolare, responsabile dell’equilibrio generale del corpo.

 

Umberto Eco[7] ha tracciato la storia del difficile e controverso tentativo umano di classificare la realtà tramite un dizionario o un’enciclopedia, e ha associato l’evoluzione dell’enciclopedia all’evoluzione storica del labirinto, da unicursale a multicursale a rete. Siamo ormai, potremmo dire, in un “labirinto virtuale aperto”, con più entrare e uscite dove la vera trappola è il sovraffollamento. Il suo collega e amico semiologo Roland Barthes, nell’anno accademico 1978-1979, al Collège de France di Parigi, tenne un memorabile seminario intitolato La metafora del labirinto: ricerche interdisciplinari[8], con forti accenti autobiografici: «Labirinto. Unica risonanza in me: voler raggiungere l’essere amato (che si trova al centro e non poterlo fare). Forma tipica dell’incubo, forma infantile: non poter raggiungere la propria madre; tema del bambino perduto, abbandonato. È un labirinto dal momento dell’ingresso. (…) Ci si identifica classicamente con Teseo, ma ci si può identificare con Minosse: restare chiuso, protetto (dormire); non si parla mai del labirinto come protezione». Con i suoi ospiti e studenti, Barthes giunse alla conclusione che il “Labirinto” è forse una falsa metafora, poiché la sua forma è così topica, così pregnante, che in essa la lettera ha il sopravvento sul simbolo: «il labirinto genera dei racconti, non delle immagini”. Per questo motivo il Seminario terminò non con delle conclusioni, ma con una nuova domanda: non “Cos’è un Labirinto?”, o anche “Come uscirne?», ma piuttosto “Dove comincia un Labirinto?”.

 

 

[1] Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, vol. II: Dizionari etimologici, Olschki editore, Firenze 1994, pp. 158-159.

[2] Giovanni Semerano, Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, a c. di Felicia Iarossi, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 29-36.

[3] Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti: storia di un mito e di un simbolo, Vallecchi, Firenze 1967.

[4] Martine Carton, Un labyrinthe japonais: le sazaedô. Une présentation des temples-coquillage de l'époque d'Edo, in “Ebisu”, vol. 23, 2000

[5] Pierre Lévêque, Colère, sexe, rire. Le japon des mythes anciens, Ed. Les Belles Lettres, Paris 1988

[6] Vincent Scully, Frank Lloyd Wright, il Saggiatore, Milano 1960, p. 26

[7] Umberto Eco, Dall'albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione (2007)

[8] Roland Barthes, Le préparation du roman, I et II. Notes de cours et de séminaires au Collège de France 1978-1979 et 1979-1980, Seuil, Paris 2003; trad. it. Edizioni Mimesis, Udine 2010, pp. 195-214.

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