Orta / Paesi e città

14 Ottobre 2011

 

Lake Orta, Italy, è la scritta che campeggia sulla grande rotonda di prato appena risistemata che dà accesso al paese di Orta San Giulio, provincia di Novara, un borgo “tra i più belli d’Italia”, come dicono i depliants turistici. In questo momento un operaio sta pettinando con cura il tappeto erboso all’inglese che è stato appena disteso sull’aiuola in vista della stagione estiva.

Lake Orta. In italiano lago d’Orta, cioè un luogo, come tanti in Italia, pieno di cultura, arte e paesaggio – in una parola bellezza. Bellezza antica che, fatta salva la capacità individuale di goderne in solitaria immersione, nella prassi e nelle dichiarazioni di principio degli amministratori e delle istituzioni culturali viene tradotta nei due concetti cardine di ogni discorso sui beni culturali: conservazione e valorizzazione. Sulla buona pratica del primo pesa, qui, il giogo di una rinata aggressività speculativa a cui sta tenendo testa solo l’ostinazione di un Comitato locale di cittadini; sulla virtuosità delle pratiche di valorizzazione pesano invece ben altre ipoteche.

Intanto l’idea stessa di “valorizzare” un luogo d’arte e storia come questo si presta alle più diverse interpretazioni. Ma è la parola stessa, nella sua ambiguità, che non aiuta a distinguere le due principali correnti di pensiero che la sottendono. E cioè, da un lato l’idea - dominante - di valorizzare in senso economico, cioè di sfruttare un “valore”, stabilito una volta per tutte, sul mercato del turismo. Dall’altro, idea minoritaria e marginale, quella di attribuire “nuovo valore” a quei beni, e al territorio che li ospita, a partire da pratiche culturali innovative, che rimettano in gioco la capacità di pensiero e di elaborazione dei suoi stessi abitanti.

All’ambito della valorizzazione economica appartengono tutta una serie di strategie politiche, e soprattutto un linguaggio tecnico - e una forma mentis - che ne è la traduzione immediata, da tutti percepibile.

Ma torniamo alla rotonda. La devo percorrere tutta per poter infilare la strada che porta al paese. In preda a un lieve senso di capogiro, sono colpito dall’ossessiva insistenza dei cartelli piantati in soprannumero nella gentile aiola pettinata. Ogni cartello porta la scritta “Lake Orta”, e “Lake Orta” non ti lascia finchè non hai deciso in che strada infilarti. “Lake Orta” si serve genialmente del ritornello spaziale che la rotonda innesca nei riflessi dell’automobilista, per reiterarsi alla vista allo stesso modo in cui un jingle musicale ha il potere di ritornare ossessivamente su se stesso nella tua mente.

Arrivo in paese e mi reco in un albergo dove sta per cominciare la conferenza stampa che annuncia un grande evento espositivo.

Appena prende la parola uno dei politici locali più importanti presenti mi prende di nuovo il lieve capogiro, eppure sono seduto. Il politico ha cominciato a parlare solo da qualche minuto, ed ecco che improvvisamente lancia con grande sicumera verso la sala uno di quei monosillabi inglesi tanto in voga nel linguaggio tecnicistico degli operatori turistici e culturali, BRAND. Il cui suono mi fa emergere chissà perché l’immagine di un dado d’acciaio. Mi guardo intorno, il dado è passato tra le teste e nessuno ha fatto il minimo cenno di scostarsi. Man mano che il discorso procede il mio capogiro non accenna a diminuire. Non è solo la parola “brand” adesso a magnetizzare il discorso, è tutto un impasto di termini e concetti ugualmente monosillabici ad agglutinarsi, con fatica, sotto i miei occhi. E non è soltanto questione di ignoranza secca delle cose di cui si sta parlando. C’è qualcosa di più: è l’esibizione di un’oratoria che si compiace di intrecciare due o tre concetti chiave usati come puri suoni richiamanti qualche vaga idea che, se fosse indagata, rivelerebbe tutta la sua insussistenza. È l’oratoria del ritornello. La jam session della parola-marchio. Un grammelot algido, totalmente privo di espressività. Insomma tutto un armamentario linguistico che ben si presta ad essere esibito nelle parole della politica. Una politica in generale appiattita da tempo sugli slogan, a destra come a sinistra, e che anche in quest’ambito non riesce a rompere il circuito vizioso della sequenza circolare - ancora! - turismo-cultura-turismo. Ecco il motivo del capogiro. In realtà sto ancora girando sulla rotonda. Turismo-cultura-turismo..., lake Orta... Sì perchè valorizzare, secondo costoro, signfica dare lustro al marchio-territorio, al brand, appunto, usando la cultura come carta da confezione del valore dato, che ormai risulta opaco, non si fa più leggere da una sensibilità affinata dagli studi, o dall’autodidattismo appassionato dell’amatore. Secondo quest’ottica, gli operatori culturali sono dei commessi che incartano lussuosi pacchi regalo ad uso di una politica che sa pagar bene. Innovazione? Cosa vuoi innovare, sulla confezione del pacchetto? E infatti, per fornire consulenza culturale alla politica- shopping si chiamano i creativi, mica gli artisti. E gli artisti? Ancora una volta, a loro spetta il compito di inceppare il meccanismo.

 

  

Del resto, la monosillabicità è la metafora più calzante per definire la capacità di articolazione linguistica e di pensiero di cui sono provvisti il politico in questione e tanti altri che intervengono di seguito.

 

  

Ci sono contraddizioni che sono fertili e spingono in senso creativo; che sono consapevoli mezzi per superarsi. Coltivare le contraddizioni consapevolmente è uno degli strumenti di lavoro per un artista. Ci sono contraddizioni che, invece, sono inconsapevoli e proprio per questo rivelano molto di chi, senza accorgersene, le incarna. E poi ci sono domande a cui è difficile rispondere: cos’è cultura? È l’esercizio - riconosciuto e riconoscibile - di una certa tipologia di atti verbali, o comportamentali, o performativi, che avvengono in una dimensione pubblica, e attraverso cui passa una sapienza legata alle arti, alla filosofia, o alla scienza? Sì, in un certo senso. Ma siamo sicuri che per essere “cultura” nel senso che stiamo dando a questa parola, essa debba essere “riconosciuta” e “riconoscibile”?

Riconosciuta: non necessariamente. Quanto pensiero, quanta arte, quanta poesia non sono state riconosciute dalla loro epoca? Riconoscibile: ancor meno. Quanta arte è tanto più innovativa quanto più non si dà come riconoscibile alle aspettative e alle abitudini del pubblico ad essa contemporaneo? Anzi, si potrebbe dire che le innovazioni vere in campo artistico e culturale non siano né riconosciute, né riconoscibili. Altrimenti non sarebbero innovazioni. Invece, nel nostro mondo di apparenze, questi due concetti regnano indisturbati, e trovano una traduzione sintetica ed efficace, per così dire mondana, nel concetto di “visibilità”. Una cosa riconosciuta e riconoscibile è visibile, secondo questo pensiero. Tutto il resto è invisibile, cioè inesistente. La penicillina però, prezioso farmaco riconosciuto e riconoscibile, è stato sintetizzato da qualcosa che era invisibile. Dunque, il visibile è in rapporto dialettico col suo opposto. Esiste l’oggetto e la sua ombra. Il lato nascosto della luna non è meno reale di quello che vediamo. La visibilità in senso mondano, invece, è qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’invisibile. E infatti, non c’entra niente né con l’arte né con la cultura, tuttalpiù si apparenta con la televisione, o col giornalismo da rotocalco.

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