Che cosa è reale? / I mondi di Philip K. Dick
Il mondo del cinema ha presentato alcune novità che non sono passate inosservate. A ottobre è arrivato sugli schermi italiani Blade Runner 2049 e proseguirà la programmazione della serie The Man in the High Castle, in italiano La svastica sul sole, visto il successo della prima. Non basta: la coppia Amazon–Channel 4 avvierà la realizzazione di una serie dal titolo Electric Dreams, il cui primo titolo sarà The Hood Maker, in italiano Il fabbricante di cappucci.
Queste realizzazioni hanno un denominatore comune, l’ispiratore. Si tratta di Philip K. Dick che, pur essendo morto nel 1982, ha continuato e continua ad essere presente al cinema e alla tv con le sue opere complete o con semplici frammenti. Tra le più famose: il già citato Blade Runner del 1982, tratto dal racconto Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (su cui di recente è uscito il volume a cura di Vanni Codeluppi, la cui introduzione è pubblicata su questo sito), Atto di forza del 1990 e poi del 2012, tratto dal racconto Ricordiamo per voi, Urla dallo spazio del 1995, tratto dal racconto Modello Due, Truman Show del 1998, tratto dal romanzo Tempo fuori luogo, Minority Report del 2002, tratto dal racconto Rapporto di minoranza, che poi ha generato una serie televisiva, Paycheck del 2003, tratto dal racconto Previdenza, Un oscuro scrutare del 2006, tratto dall’omonimo romanzo, Impostor del 2002, tratto dal racconto Impostore, Next del 2007, tratto dal racconto Non saremo noi, Radio Free Albemuth, tratto dall’omonimo racconto, Guardiani del destino del 2011, tratto dal racconto Squadra riparazioni.
Il mondo di Dick, che ha prodotto circa 50 romanzi e 120 racconti, è la fantascienza, quel diffuso genere popolare caratterizzato dall’essere non riproduttivo della realtà o, in termini più raffinati, non mimetico. In questo senso si può avvicinare alla fiaba che celebra un mondo non contaminato, dove le norme non sono violate, dove lo spavento è rarefatto, dove la potenza dell’uomo è modesta e secondaria. Oppure al fantastico, dove il realismo è sfaldato, le linee di riconoscibilità si rompono, e ciò che è esterno, laterale, soprannaturale si introduce nel reale. Oppure al genere fantasy, dove sono tratteggiate le linee di un mondo “altro”, organico, autosufficiente, coerente con il magico.
Nel contempo, però, la cifra della fantascienza è inconfondibile: essa è sorretta dalla visione prospettica di anticipazione, in quanto legata alla scienza e alla sua evoluzione. Di qui la felice intuizione di Giorgio Monicelli, fratello del regista, di denominare ‘fantascienza’ il filone di romanzi scientifici innovativi rispetto ai precedenti che pur non erano mancati, alcuni molto illustri, da Verne a Wells. La novità esiste, ed è l’obiettivo specifico: esplorare i confini tra leggi scientifiche e le ipotesi possibili, e soprattutto tra la spiegazione scientifica e le paure comuni ed antiche. Come osservava Sergio Solmi, i mondi possibili diventano plausibili e il loro divario si accorcia. E questo riguarda non solo quelli lontani nello spazio, ma anche quelli vicini, quelli interiori dentro di noi. La scienza, che nel passato aveva proclamato il controllo del caos, diviene oggetto di panico, crea vertigine, genera insicurezza, coltiva il desiderio del cittadino di vedersi “fuori”, smarrisce la funzione protettiva. Nascono le patologie quotidiane e la “science fiction” ne diviene microspia, metafora delle paure collettive, proiettando il futuro nel presente dove l’umanità deve fronteggiare la crisi della propria condizione. La positiva e confortante utopia si corrode per assumere colori bui e carichi di angoscia.
Per questo sarebbe riduttivo assegnare alla fantascienza un ruolo ‘preveggente’, mentre sembra piuttosto ricoprire l’incarico di segnalatore della paranoia del presente.
Relegato per anni nei confini della letteratura “bassa”, da morto Dick diviene scrittore di culto, suscitando un interesse sempre crescente. Di lui si occupano convegni, università, studiosi di letteratura inglese, vengono costruiti glossari e il cinema, come abbiamo visto, lo saccheggia con successo. Da vivo, invece, era vissuto senza grandi scatti, come ricorda Carrère nella biografia Io sono vivo, voi siete morti (vedi la recensione di L. Grazioli), confuso nella folla solitaria. Sempre “border line”, puritano, nevrotico, fragile, ipersensibile, disordinato, incline alla droga, appassionato della New Age, cultore dell’I Ching e della parapsicologia, aveva sfogato tutto ciò nella fantascienza. E vi rimarrà sempre fedele perché, come ebbe a dire, “parla di cose serie”, perché affronta le grandi domande del destino. Cosa è vero? Cosa è la realtà? Cosa è umano? Si vive manipolati o autonomi? Per affrontare questi temi, Dick spazia dalla tecnologia al potere e al controllo che esercita, dalla presenza di un ‘altro’ come replicante e doppio al rapporto tra apparenza e realtà. Non li tratta però nelle sue opere in modo settoriale o autonomo, ma incarica il lettore di isolarli, perché sempre intrecciati, interconnessi, mai autosufficienti. Non a caso a Dick è stata attribuita la qualifica di “postmoderno”, dato che la sua opera è una continua ibridazione, scomposizione e superamento dei confini del genere e dei singoli temi. La realtà che descrive è una realtà instabile, i riferimenti sono sfumati e spesso insussistenti, i mondi comunicanti e i luoghi inessenziali. Le narrazioni sono delocalizzate, senza patria, con frammenti che circolano come schegge in ordine sparso.
Prima si è parlato di tecnologia e della sua rivoluzione.
I temi non sono certo nuovi, già percorsi da Orwell, Bradbury, Huxley, per citarne solo alcuni, ma originale è la loro rielaborazione.
Il sommovimento dovuto alla tecnica ha toccato il corpo (per inciso le prime opere di Dick escono nel 1953, anno della scoperta del DNA), ha segnato profondamente l’idea della vita e della morte, ha suggerito una figura umana come spazio percorso da molecole dotate di un programma prestabilito. Nasce così la possibilità di duplicare gli esseri viventi con l’ingegneria genetica (per un paradosso dickiano il primo caso al mondo realizzato è stato una pecora!), che ha consentito innesti di organi artificiali e, a volte, ha organizzato protesi esterne che ne garantivano la vita. In questa visione, Dick vede nell’androide (la definizione di “replicante” non è sua ma del regista R. Scott) l’uomo inautentico, la macchina che vive senza vivere, la persona che si illude di godere di un’autonomia che invece manca, la creatura fittizia che cerca un’identità senza trovarla e che erra smarrita nel mondo. È il tema de Le tre stimmate per Palmer Eldritch (1965), dove l’uomo che vive su Marte, alienato e consumatore di allucinogeni, anela a vivere la vita della bambola Perky Pat, soggetto fittizio trasformato in feticcio, in cui ritrova se stesso e dissimula la propria condizione di spostato. Il gruppo dei consumatori diventa quella “comunità virtuale” di cui parla Baumann, in cui le identità possono essere indossate e spogliate continuamente.
Non solo: a Dick interessa anche il versante dell’invasività tecnologica nella relazione tra le persone. Si tratta della ricerca di dati sensibili in grado di essere utilizzati da terzi, con strumentazioni adeguate e sofisticate, e non solo dal potere. Da tutto ciò nasce la visione antiutopica, o secondo un dire moderno “distopica” cui si accennava prima, ove gli ingranaggi non si incastrano, il mondo risulta avariato, l’orizzonte non è perfetto, i problemi del presente hanno raggiunto un ipotetico estremo, che risulta negativo.
Dick non è attratto fideisticamente dalla tecnologia ed è pessimista: le macchine portano a una minore libertà, le leggi fisiche rischiano di minare le basi del vivere comune. Ma delle macchine non ci si può liberare per tornare a un mitico paradiso terrestre, occorre invece cercare di essere liberi “con” le macchine. L’innocenza incorrotta è una visione mistificata in quanto, come precisava il nostro, “tra umano e non umano non vi è differenza sull’essenza, ma nei comportamenti”. Certo, si alimenta la paura perché la potenzialità dei nuovi orizzonti crea nuove possibilità negative. Certo, questa paura si irrobustisce per la convinzione che non si può sconfiggere un mondo di intrighi e di interesse. Così nel contempo cadono le illusioni del desiderio.
Il rapporto tra corpo e tecnologia conduce a un altro versante, e più precisamente alla domanda: “Cosa è umano?”. Ci si inoltra nel territorio dell’“altro”, del doppio, in cui Dick inserisce le proprie ossessioni, la continua assenza di certezze, l’insicurezza della propria identità e struttura, un discorso complesso e articolato sui suoi “alter-ego meccanici”.
Innanzitutto gli androidi rappresentano una minaccia per l’umanità, sono perturbanti e producono spaesamento, come in Modello Due del 1952. Il racconto è popolato da robot votati inizialmente a distruggere il nemico in guerra. Però, per una disfunzione del modello tecnologico costituito da micidiali lame rotanti, assumono sembianze umane e hanno una propria volontà. Il loro ruolo è stravolto, ma non cambia il mandato di uccidere. E così la giovane Tasso, nascondendo la sua natura androide, sopprime l’ultimo sopravvissuto per ottenere segreti preziosi. La tecnologia si ritorce, gli universi sono in disfacimento, e come ripete, “cadono a pezzi”.
Capita poi che gli androidi non sappiano di essere tali, come nel racconto Impostore (1953). Durante una guerra tra umani e alieni, questi ultimi inviano sulla Terra un robot che riproduce perfettamente le sembianze e la memoria di uno scienziato. All’interno della macchina è nascosta una bomba e lo scopo è quello di far attivare l’esplosivo per distruggere un progetto segreto terrestre. Il robot però crede davvero di essere l’uomo di cui mostra le sembianze e, catturato, tenta di dimostrare la propria innocenza. Nei pressi della nave aliena, che è convinto contenga i resti del vero robot, trova la prova che è lui in realtà il robot e le parole che pronuncia innescano l’esplosione.
Gli androidi svolgono una vita normale, hanno l’illusione della libertà, ma in realtà i ruoli sono prestabiliti e congelati. Tipico in questo senso è il racconto Le formiche elettriche (1969), dove un uomo di successo, ricoverato in ospedale dopo un incidente, riceve dai medici l’incredibile notizia di essere un androide. Cerca di invertire rotta, non vuole continuare nella finzione e vuol darsi la morte. Scopre che al posto del cuore ha un rullo con un nastro i cui fori corrispondono a un segmento di realtà che gli è concesso sperimentare. Così distrugge il nastro, il meccanismo si inceppa e si autodistrugge. È una manifestazione di libertà ancora possibile, anche se a compierla è un androide che credeva di essere umano.
In sintonia con il precedente racconto è l’ultranoto romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? (1966). Quando i replicanti diventano pericolosi, la ditta costruttrice decide di ritirarli fissando una taglia sul capo. Nel frattempo si delinea il loro status drammatico in quanto, nati adulti, senza emozioni e amore, vogliono vivere con gli uomini, sono alla ricerca dell’umano. “Si è vissuto ma non si vive”, gli androidi sono “corpi non vivi, non sono”. Nel contempo Dick li ha forniti di un’anima, anche se sintetica, che li porta a un sogno, cioè a sentirsi parte dell’universo, comprendere il senso della vita. Quindi a essere uomini.
Ma non basta. L’ossessione per l’alieno, l’“altro”, ha un’ulteriore valenza. È la proiezione delle paure dell’uomo. Come nel romanzo Noi marziani (1964), dove il protagonista scappa su Marte per fuggire alle allucinazioni che lo tormentano che riguardano gli umani uguali ai robot. Su Marte però viene adibito alla manutenzione dei robot, con il risultato che le allucinazioni riprendono, implacabili perché la realtà è meccanica, disturbante e gli uomini ivi inglobati possono offrire risposte soltanto parziali a un mondo innaturale.
Non solo: è anche consapevolezza della diversità presente nel mondo, collocata in quel territorio della psiche, del sé inespresso, come osserva lo psicoanalista A. Carotenuto, che costituisce un ponte tra noi e gli altri. Questa narrazione è diffusa nel romanzo tradizionale, il quale però ha lo sguardo rivolto al passato come dimostra, ha osservato U. Eco, la sua struttura impostata sulla strategia dell’imperfetto. La fantascienza invece proietta il presente nel futuro, dove l’umanità deve confrontarsi con la crisi che la minaccia e con la destabilizzazione degli equilibri, e non può più appoggiarsi a funzioni regolatrici.
L’effetto della tecnologia si connette poi strettamente al tema del potere. Sofisticate apparecchiature gestite dai detentori del potere sono in grado di ottenere notizie riservate, manipolare informazioni, memorie, percezioni per asservire il tutto ai loro scopi. Oltretutto i mass media hanno la capacità di creare realtà illusorie, percepite invece come reali dai personaggi, delineando un mondo artificiale. È la descrizione di alcuni romanzi come Tempo fuori luogo (1958), in cui addirittura si fa vivere una persona in un set televisivo a sua insaputa; oppure Penultima verità (1964), dove un presidente della repubblica, parlando alla televisione, convince dell’esistenza di una guerra, spedisce i cittadini nei rifugi, ma la guerra è oramai finita da tempo.
Gli stessi media sono vulnerabili, come in Cronache del dopobomba (1963) che narra di un esperimento nucleare, apparentemente fallito, a causa del quale però diversi bambini sono nati con deformità di vario tipo. Quindi la scena si sposta nel futuro, le ragioni o i colpevoli del disastro sono ancora ignoti, la vita nelle varie comunità cittadine prosegue più o meno inalterata, quasi che l’accaduto non sia stato in grado di scalfire la routine. In questo scenario Dick colloca i suoi temi: le tensioni razziali, l'emergere dei poteri-psi, l'analisi del fenomeno religioso. Neanche un evento sconvolgente è stato in grado di dissuadere l'americano medio dal ripetere le proprie abitudini più quotidiane. L'umanità è già folle ed è inutile cercare la pazzia nelle catastrofi.
Nel mondo nasce una sorta di collasso comunicativo dove si perdono i riferimenti con uno sbandamento collettivo. Esemplare è La svastica sul sole (1962), in cui si racconta di un universo alternativo, per dirla modernamente “ucronico”, in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dalle potenze dell’Asse. Esse vagheggiano un sistema rigido dominato dall’efficientismo e dall’ordine, in cui gli umani sono esseri da manipolare, senza libertà. In realtà il tutto è un’illusione, come illusione è quella del protagonista che si convince della sconfitta dell’Asse. È tutto finzione, e alla fine sorge la domanda se non viviamo anche noi in una finzione, tormentati così da un dubbio senza risposta.
E ancora. Il rapporto con il potere è soprattutto insicurezza, paura per la propria incolumità, richiesta di protezione. Questo aspetto è trattato nel noto racconto Minority report o Rapporto di minoranza (1956). La trama, ambientata nel 2054 (anche qui non siamo così lontani), è centrata sull’attività di una Agenzia che riesce ad arrestare i cittadini senza che sia stato commesso alcun reato, grazie alle previsioni di tre sensitivi, i precog. Lo sviluppo è noto anche grazie alle trasposizioni filmiche, ma l’ispirazione dello scritto è fulminante. Come sostiene il protagonista poliziotto, “arrestando prima di un’azione violenta, la commissione del crimine è qualcosa di metafisico. Noi diciamo che sono colpevoli, loro proclamano la loro innocenza e in un certo senso lo sono. Avremo un campo di prigionia pieno di potenziali criminali”. Dick modella un sistema in cui si raggiunge la sicurezza assoluta con la pre-conoscenza dei cittadini. Per il racconto si tratta dei precog “idioti”, per gli antropologi criminali di fine Ottocento della dimensione del cranio, per i neuroscienziati della struttura interna cerebrale. Comunque sia, emerge un bisogno: individuare con certezza i colpevoli per garantire il successo-sopravvivenza del sistema. Meglio se si conosce in anticipo il colpevole, prima che agisca, senza ingaggiare processi sfinenti, sottoporsi a schermaglie processuali pretestuose, confrontarsi con i dubbi della decisione. Vengono cancellati i riti e i simboli, è superata la fase del supplizio pubblico dove la sofferenza del condannato esposta a tutti ammonisce a operare onestamente. Altrettanto superata è la fase del processo, che svolge l’analoga funzione di prevenire i reati mostrando la sorte di chi viola le regole. Non è necessario individuare il nemico: egli è già sconfitto in partenza.
Delle varie direttrici di Dick il vero collante, peraltro già menzionato, è il rapporto tra realtà e apparenza. In altri termini è la risposta alla domanda: cosa è reale?
I confini tra reale e irreale sono confusi, l’originale e la copia non si distinguono. Nasce di qui l’approccio dickiano che segnala il territorio caotico, mutevole, intraducibile che pervade la realtà, contraffacendola. Quella stabile è illusoria, è una pseudo-realtà in cui è assente un piano provvidenziale e dove nessuna garanzia di comodo è assicurata, dove l’apparenza è incoerente, la conoscenza fragile. La verità è polvere, “kipple”, che si impasta, si confonde, si sgretola come dopo un’esplosione (Dick pensava a quella atomica). E rinvia al problema della confusione delle identità, all’ambiguità tra uomo-donna, bene-male, visione oggettiva-soggettiva, vita-morte, uomo-simulacro-simulazione, per dirla con Baudrillard. Sull’ambiguità Dick ha molto insistito perché, pur conducendo alla “falsificabilità”, da intendersi non popperianamente ma come “falsaria”, essa nel contempo porta umanità nel sociale e ne garantisce la sopravvivenza.
Esemplari sono, in questa direzione, due romanzi.
Il primo è Un oscuro scrutare (1977). Il consumo di droghe è generalizzato e rende evanescenti i confini tra realtà e immaginazione. Le autorità sono immobilizzate perché distinguere è pressoché impossibile e alcuni agenti infiltrati hanno coperture tali da non sapere alla fine più chi siano. Essi devono usare le droghe per mimetizzarsi, perdono il senso della propria identità, si scindono nel doppio ruolo di osservatore e osservato in uno oscuro scrutare che “mostra un uomo all’interno di un uomo. Il che vuol dire nessun uomo del tutto”.
Il secondo, forse tra i più celebrati, è Ubik (1969), ambientato ancor più vicino a noi, nel 1992. Il protagonista Chip, alienato nel mondo del denaro, solitario in una società oppressiva, subordinato agli oggetti quotidiani, sopravvive a un attentato in cui muore il suo principale, Runciter. Costui era titolare di una società che contrastava lo spionaggio commerciale utilizzando gli Inerziali, persone in grado di combattere spie dotate di poteri paranormali. Runciter, che si faceva consigliare dalla moglie deceduta da tempo, ma rimasta ibernata in una sorta di semi vita o “animazione sospesa”, ora viene conservato a temperature bassissime, e vive anch’egli un surrogato di vita. Gradualmente compaiono sintomi di deterioramento della realtà, gli oggetti regrediscono: i videotelefoni si trasformano in vecchi apparecchi in bachelite, i moderni razzi diventano aerei a elica, le automobili tornano ai modelli degli anni Trenta. A questo punto serpeggia la convinzione che le parti si siano invertite e Chip si rende conto di trovarsi anch’egli in animazione sospesa. Intanto giungono messaggi da Runciter che, disperatamente, segnala di essere vivo e tenta di mettersi in contatto con lui. In un susseguirsi di colpi di scena ecco la rivelazione: nel mondo dei semivivi è in corso una lotta tra i non morti buoni e quelli malvagi. Nel frattempo, si insinua la presenza del misterioso Ubik, sostanza ubiqua presente ovunque, che viene fornito a Chips che in questo modo conosce la verità. Il finale è inatteso: al tecnico che ripristina i contatti con la moglie, Runciter dà alcune monete di mancia che hanno impresso il volto di Chips. È il segno che la realtà vera sta cambiando? Sarà opera di Ubik, che nasconde dietro di sé la macchina della realtà?
Per concludere. Il clima politico-culturale in cui vive Dick, dagli anni ‘60 agli ‘80, è quello tipico della controcultura americana, dell’opposizione al mondo esistente, dell’uscita dalle secche del capitalismo, del ritorno a una innocenza incontaminata. Dick però non vi appartiene. I suoi lavori esprimono un doppio rifiuto: da un lato l’opposizione all’America giovanile e protestataria di quegli anni, dall’altro la critica al lamento intellettuale per la smarrita purezza. Non compaiono in lui proclami per uscire dalle strettoie di un mondo che si rifiuta o vagheggiamenti per un ritorno all’innocenza incontaminata. Emergono invece diverse riflessioni miscelate tra loro: la consapevolezza della globalità fa pur sempre rimanere all’interno del sistema e non si può dimenticare che con la dissipazione non si cambia nulla. Dick non è nostalgico, né tantomeno aspira all’apocalisse. È convinto che si può essere dissenzienti pur rimanendo all’interno dei rapporti, perché è lì che si combatte il nemico. La società tecnologica del benessere può anche portare alla rovina, alienare, consumare tutto nei rapporti commerciali, far comprare la pecora elettrica, ma male ancor peggiore è il rischio di precipitare in uno stadio naturale senza etica. I personaggi di Dick non sono eroi, sono uomini comuni, instabili, un po’ egocentrici, inadeguati e pertanto alla ricerca di appoggi, essi non hanno una storia e tantomeno una ideologia, sono artigiani tecnologici. Per orientarsi nella complessità e nella confusione del mondo trovano una via di uscita: l’empatia, l’altruismo, la capacità di slanci, l’agire con sentimento, quel sentimento “che distingue l’umano e non umano” osserva Dick. Come avviene ne La svastica sul sole, quando il mite seppur importante funzionario Tagomi rifiuta di firmare il foglio che porterà al trasferimento di un ebreo dalla sua autorità giapponese a quella tedesca, salvandogli così la vita.
Come accennato prima, Dick viene talora indicato come autore della postmodernità. In effetti sua è la consapevolezza nell’assenza di fondamenti ultimi ed immutabili, cui si unisce la riflessione critica su una modernità stravolta dalla omologazione e dal potere dei media. Di quel pensiero gli manca però il cinico disincanto, l’inclinazione anticapitalistica. Egli accetta le regole del consumo, dota i suoi personaggi di ribellioni improvvise e di imprevedibili gesti di solidarietà, esprime il bisogno di una salvezza. Nella sostanza si tratta di prendersi cura dell’altro, di sforzarsi affinché “tutti gli uomini diventino fratelli”, come ricorda il verso di Schiller citato in Noi Marziani. Dick erra tra filosofie e religioni, cerca qualche radice, anche se rimane convinto che, comunque, le sue sono sempre “penultime verità”.