Su “Girls” e “American Bitch” / Scrittori misogini e groupie femministe

I.


Girls è giunta a conclusione, si direbbe in coerenza con il resto della serie, con un calare smorzato. Le vicende aperte e quelle chiuse rimangono esterne al momento finale, che strascica e chiude l’ultima giovinezza, rimasta per tutta la serie di un certo tipo, cioè comunque sempre cool, economicamente instabile (ma a quanto ne sappiamo incredibilmente equilibrista) e spregiudicata nelle azioni, ma sempre pronta a deliberare sulle norme di condotta. Come Hannah, la protagonista, ci ricorda in una delle prime puntate dell’ultima stagione, abbiamo a che fare con un prodotto seriale che opina su qualsiasi argomento. I personaggi esprimono pareri a piede libero – e questo non è male, significa visibilità e articolazione di questioni che non potrebbero altrimenti venire a rappresentazione. Ma mettere in scena un problema significa articolarlo il modo soddisfacente?

 

Alcuni di questi problemi sembrano essere più centrali rispetto agli altri, come se rappresentassero cioè una sorta di fuoco dell’orbita di Girls. In alcune puntate chiunque si accorgerebbe dei marchi pedissequi che suggeriscono: «Guardate che questa cosa è davvero molto molto importante per noi!». Così noi ci diciamo, come spettatrici e spettatori: va bene, vediamo cosa c’è di così importante qui. Il terzo episodio dell’ultima stagione, che s'intitola American Bitch, è proprio una di queste occasioni, e per almeno due buone ragioni.

 

Innanzitutto si tratta di un cortometraggio che chiunque, digiuno del resto del telefilm, avrebbe gli strumenti per comprendere. Tuttavia, per il consumatore abituale American Bitch risalta rispetto agli altri episodi perché richiede un approccio differente. In secondo luogo, tutto l’episodio ci sottopone un discorso di secondo livello rispetto ai temi cari alla serie, una meta-riflessione: non solo l’episodio affronta gli argomenti abitualmente messi in scena, ma anche la prospettiva dalla quale vengono considerati. L’approccio ci viene letteralmente spiegato dai fotogrammi in cui il quadro alla parete riproduce la scena inquadrata e viene incluso a sua volta nell’inquadratura che si fa a matriosca: abbiamo capito che c’è da fare attenzione.

 

Di cosa ci vuole parlare questo American Bitch? Di scrittura, di esperienza e di autenticità dell’esperienza, di violenza sessuale esercitata dal genere maschile sul genere femminile e, perciò, di femminismo. Non stiamo leggendo fra le righe: questi temi sono tutti citati esplicitamente nel copione.

Sullo sfondo di questi presupposti emergono tuttavia due problemi. Innanzitutto l’episodio mette molta carne al fuoco, si atteggia cioè ad avere opinioni forti, vorrebbe prendere delle posizioni rispetto ad alcune questioni etiche e politiche, sia pure attraverso un prodotto che si vuole pop – posizioni che rimangono, purtroppo, ambigue. Secondariamente, nutriamo molti dubbi riguardo al rapporto che più o meno surrettiziamente viene articolato fra prodotto culturale, inteso in generale (messo a tema esplicitamente nella forma: opera narrativa), e la sua fruizione, fra esperienza individuale e dimensione etico-politica.

 

II.


Cominciamo dalla seconda domanda: che cosa ci viene raccontato su scrittura, prodotto culturale, fruizione dello stesso, norme che regolano la nostra vita più o meno in comune (con rispettiva realizzazione individuale) e conflitto politico? Abbiamo uno scrittore affermato (il fittizio Chuck Palmer) viene accusato via Tumblr di aver forzato una giovane donna a praticargli una fellatio (accusa cui ne sono seguite altre, a cascata). Hannah, protagonista dell’episodio e aspirante scrittrice, pubblica un pezzo sul caso e per questa ragione viene invitata dallo scrittore nel suo appartamento.

Dopo i convenevoli (le accuse e un'osservazione azzeccata sul fatto che Palmer si inscena e impone come scrittore di successo e riconosciuto), si arriva rapidamente al cuore della faccenda. Lui le fa notare: non ti sei informata, forse io non ho esercitato violenza proprio verso nessuno, tu sei troppo sveglia per perderti dietro a questi particolari superficiali, non hai colto il centro del problema. Il che vorrebbe dire che sì, c’è una questione che potrebbe essere etica e politica, ci sono giovani donne molestate sessualmente e c’è una pratica giornalistica bottom-up dotata di dubbio accertamento delle fonti. Ma tu e io, cara Hannah – suggerisce l’accusato –, siamo scrittori e siamo intelligenti (la riconosce, o forse la lusinga, come scrittrice di talento e giovane donna dotata di intelletto), noi non dobbiamo fermarci a questo. Noi dobbiamo arrivare al nucleo autentico della questione, che se viene trattato soltanto così, come un fatto di cronaca, rimane imbavagliato.

 

 

Spettatrici e spettatori si chiedono, legittimamente, quale sarà mai questo “nucleo autentico” adombrato dalla chiacchiera. A turno, prima lui e poi lei, si raccontano le rispettive storie. Lui raffazzona qualcosa su una giovinezza sessualmente costretta e infelice, lei confessa di un docente di inglese e scrittura creativa che si profonde in attenzioni troppo fisiche e troppo poco limitate all’ambito della scrittura, aggiungendo quanto l’episodio sia stato formante per la sua esistenza. Lui risponde che questa è una grey area, una zona indeterminata, dove non è chiaro decidere che posizione assume chi. Lei commenta, accortamente, che c’è un desiderio di essere riconosciuta da qualcuno che ti dice brava, sei di talento; ma anche che l’obolo da pagare per tutto questo è l’ingresso nella zona grigia delle attenzioni sessuali non richieste, non consensuali, non piacevoli. E allora, cosa fare?

La risposta è che boh, non si sa. Perché la questione c'è, e non è solo etica, ma anche politica: perché una classe di persone dovrebbe pagare un prezzo così alto per essere riconosciuta come ciò che desidera d’essere riconosciuta? Considerando soprattutto il potere che coloro i quali sono supposti riconoscere possono, a questo punto, esercitare. Eppure, arrivati a questo punto, ci accorgiamo che i due cominciano a cambiare atteggiamento uno verso l’altra, perché si sono comunicati autenticamente le reciproche esperienze individuali. Comincia a emergere una certa retorica dell'autenticità e a prendere corpo una soluzione estetica al problema.

 

 

Il dialogo procede. Lui non ammette esattamente il proprio errore – non ho esattamente fatto quello che tu mi accusi di aver fatto – però riconosce di non aver ascoltato la storia individuale delle donne con cui ha dormito (con quanto consenso e in quale zona grigia non ci è dato sapere) e aggiunge che quello che non ha fatto con loro può farlo con lei, riscattandosi. Perciò le chiede: dimmi chi sei, raccontami chi sei, confessami la tua storia. Lei, dapprima sollevata, poi compiaciuta e appagata, attacca a raccontare di se stessa – ironia del caso, l’impressione è quella di uno small talk fra colleghi incastrati in ascensore che per caso o per finta si trovano simpatici. Come a dire: la questione non sarebbe più la violenza, né la disparità di potere, né un sistema di diseguaglianze e marginalizzazione, bensì l’autenticità della nostra vera, profonda storia individuale. Ogni individuo è il racconto di se stesso e il resto è tutto sommato secondario. Qui cominciamo già a percepire, forse, come spettatrici e spettatori, una certa delusione. Sarebbe questo tutto quello che c’è da dire sull’argomento?

Non è ancora tutto. L’acme del nostro disincanto di pubblico si raggiunge poco dopo, nella camera da letto di lui, quando i due si mettono a parlare – ormai complici, ormai aperti e reciprocamente onesti, ormai scrittore-che-riconosce e scrittrice-riconosciuta – di un romanzo di Philip Roth, Quando lei era buona. Lei asserisce: in fin dei conti non mi interessa che sia uno sporco misogino, perché è uno scrittore così bravo. Si realizza così l’ultimo passo nel climax della retorica estetizzante dell’autenticità. Qui American Bitch sembra suggerire che sì, d’accordo, ci sono tutte queste cose importanti in merito alle quali dobbiamo mostrare di avere un’opinione, che esiste la questione della molestia, e quella del potere, e della visibilità, del riconoscimento e del prezzo da pagare per ottenerla – ma alla fine cosa vale tutto questo davanti a una comunicazione autentica? Alla mia storia? Alla mia vera esperienza individuale? E soprattutto cosa vale davanti a quello che chiamiamo letteratura, la cui funzione è a quanto pare limitata a farci godere esteticamente di questo bel racconto che siamo? La serie risponde: un bel niente.

 


Se questa risposta particolare, in American Bitch, fosse la cifra generale di Girls, allora avremmo a che fare solo con una sorta di riscatto estetico di ciò che viene denunciato. La rappresentazione naturalistica, distaccata, a tratti ironica della serie non esprimerebbe più un gusto per la contraddizione, ma una distanza sterile. Però che cosa sarebbe d’altro questa ironia, a tratti amara, tutta carica di paradossi, se non la risposta al fatto che qualcosa non va? Se qui si colloca l’intelligenza della serie, ritroviamo anche l’inciampo della puntata. L'episodio American Bitch, in fin dei conti, sembra dirci che l’unica soluzione possibile è dare vita a un prodotto culturale (sia esso narrativo o audiovisivo poco conta), che accortamente dimette ogni pretesa, esclusa quella di raccontarci la nostra storia, per darci quel poco di conforto che ci occorre per tirare avanti (“Voglio fare ridere la gente delle cose brutte”, dice Hannah).

Dispiace sottolineare tutto questo a proposito di una serie con parecchi momenti riusciti, ma la risposta alla questione del legame fra letteratura e sfera socio-politica si risolve unicamente in favore di una non meglio specificata “autenticità” – autenticità che finisce per porre a distanza qualsiasi attrito e fastidio, e assicura il riscatto nel compiacimento estetizzante. Il mondo si divide fra messinscena e contraddizione, senza che fra i due piani vi sia mediazione: possiamo solo godere di essere stati autentici e di esserci raccontati. Arrivati a questo limite, chiedersi che fine ha fatto e che posto ha (o che potrebbe o dovrebbe avere) tutto il resto, ci sembra non solo legittimo ma, come speriamo sia chiaro, piuttosto necessario.

 

 

III.


Non che si voglia invitare qui a una risoluzione univoca della zona grigia, sia chiaro. La serie di Dunham è stata una boccata di aria fresca nel panorama statunitense quanto a schiettezza e intelligente ambivalenza nel trattare temi scomodi, raramente mostrati sul piccolo schermo e da una prospettiva femminile, e soprattutto solitamente tagliati con l'accetta nel dibattito liberal. Una serie in cui ambivalenza non faceva rima con relativismo quanto piuttosto con dialettica, una comprensione profonda della complessità di alcune questioni, difficili da risolvere con slogan politically correct. Nel corso delle sei stagioni di una serie che ha fatto della rappresentazione del disagio la sua bandiera e cifra autoriale, abbiamo visto i personaggi alle prese con questioni spinose come il sesso non consensuale, il lavoro, la droga, l'aborto: tutti argomenti scottanti sempre trattati con acume, malinconia, partecipe (e mai cinica) comicità. La lente attraverso cui queste vicende erano narrate era quella di uno dei personaggi meno empatici della storia della televisione: l'egocentrica, inadeguata, meschina e lamentosa Hannah Horvath. Se il tasso di insopportabilità dei suoi personaggi è stato ciò che ha fatto allontanare molti spettatori, lo zoccolo duro (non certo minoritario) trovava invece liberatorio vedere rappresentate le vicende di individui sgradevoli, fallibili, talvolta gretti e calcolatori, spesso condannati a commettere gli stessi errori. L'insistenza di Dunham nel riproporli sembrava riuscire nella difficile impresa (condivisa in parte da alcuni registi dell'Indiewood) di comprenderli, compatirli, amarli, pur senza assolverli, senza concedere sconti morali a nessuno. Un precario equilibrio che American Bitch, nella sua volontà di fungere da nucleo e riassunto dell'intera operazione sembra far pendere invece sul piano del non giudicare, in nome di una malintesa redenzione estetica, la cui problematicità è già riconosciuta dal discorso benjaminiano.

Forse la forma del cortometraggio non si addice a una trattazione del tema femminista che fa da fil rouge a tutta la serie: per capire la psicologia di personaggi sgradevoli e francamente insopportabili è necessario frequentarli un po' più a lungo che non riassumerli in poche battute apodittiche riguardo a una questione sociale e politica (o “morale” nel senso più alto del termine). Si tratta di entrare nella loro esperienza, immedesimarsi, per cogliere cosa, nella loro esperienza individuale e “autentica”, esca da questa per farsi patrimonio e riflessione universale, relatable per uno spettatore potenzialmente lontano dalle vite hipster newyorkesi dei sopracitati. Perché persino nella fiction “l’esperienza personale” e il vissuto privato rischiano di diventare una gabbia (nemmeno tanto dorata), in primis per lo sguardo femminile, da sempre ri-confinato nella “stanza tutta per sé” di woolfiana memoria, il famoso sguardo del subalterno che non può ambire a dire nulla di universale, sempre costretto nei confini angusti della situatezza, sempre circostanziato da condizioni esistenziali che invece non sembrano toccare neanche lontanamente lo sguardo e la voce di quelli (maschi bianchi eterosessuali) che  hanno potuto parlare di tutto e per tutti.

Così anche l'esperienza di molestie vissuta da Hannah a scuola di cui parla a Palmer diventa infatti una sorta di autorità contro la quale non si può dire niente se non “mi dispiace”, come fa anche lui: l'intero portato politico e sociale della questione patriarcale viene ridotto al vittimismo su cui si è appiattito nel mainstream il nuovo (post-) femminsimo, come dimostrano certi movimenti dell'ultim'ora e la questione del femminicidio, che invocano per lo più punizioni maggiori e preventive contro la violenza domestica, in totale ignoranza e disinteresse del discorso di classe a cui si lega e al sistema che crea le condizioni per la subordinazione femminile (in particolare nel nostro Paese).

 

 

Da una voce attenta alla discriminazione capillare delle donne anche nel campo della rappresentazione, delude non poco vedere Hannah e Palmer concordare sul fatto che a spingerci a leggere Philip Roth dovrebbe essere il suo genio letterario, anche se “è un misogino che sminuisce le donne”. È proprio qui che casca l'asino e che Dunham fallisce, smascherandosi e rinunciando programmaticamente al compito di essere “la voce della sua generazione” che Hannah si era autoassegnata all'inizio della prima stagione. È qui che l'ingenuità estetica del culto del genio, della riduzione della letteratura (e della fiction in generale) alla mimesi del reale, dell’autentico rivela anche la loro portata politicamente disastrosa. Non dovremmo leggere Roth anche se è un porco misogino, Hannah, bensì proprio per questo. Non occorre citare lo Stoß heideggeriano, l'estetica di Adorno o anche solo la catarsi aristotelica per sapere che l'esperienza estetica (non solo o non necessariamente artistica, visto che stiamo parlando di un prodotto culturale di massa, e comprendere se si tratti di arte sarebbe contrario ai nostri fini in questa sede) ha e deve avere anche la funzione di offrire un laboratorio sociale per affrontare e riflettere su quei temi che ci provocano sconcerto morale.

 

La questione dei limiti etici della letteratura è nuovamente in auge di questi tempi nel dibattito culturale italiano. Lo si deve all’ultimo romanzo di Walter Siti intitolato non a caso Bruciare tutto e all'infelice recensione che ne ha fatto su Repubblica la filosofa Michela Marzano. Nel romanzo, Siti racconta con toni particolarmente scabrosi e scandalosi (scandalistici?) di un prete divorato dalla sua ossessione pedofila. Con buona pace di Palmer, che dichiara: “non lasciare che la politica determini cosa leggi e con chi scopi” (e di Hannah, che asserisce convinta: “questa me la tatuo”), ha ragione Marzano: la letteratura, e la cultura in generale, sono anche una questione morale. Proprio per questo non possiamo lasciarla in mano ai moralisti.

Pedofili e sexual harrasser, come lo stesso Palmer dunhamiano, sono diventati un bersaglio troppo facile per chi pensa di avere a cuore le questioni di genere, di essere sensibile alle tematiche femministe e della discriminazione sessuale. Un nuovo lupo cattivo, un mostro da sbattere in prima pagina, un bersaglio bipartisan che assicura coscienza pulita a chiunque lo additi. Non si tratta di sbattere il mostro in prima pagina, ma di cosa si ha da opporre al problema di violenza che si denuncia. Ecco: il genio artistico, l'autenticità, la poetica autoriale come redenzione da ogni male ci paiono un po' poco.


L'intimità e il mutuo rispetto che si creano tra Hannah e Palmer si basano sul presupposto sbagliato, quello che proprio perché stanno condividendo con l'altro esperienze autentiche e private, la questione dello squilibrio di potere, impugnato da Hannah nella conversazione, sparisca. Così, quando Palmer ne approfitta per tirare fuori il membro e appoggiarlo sulla coscia di Hannah (più con l'intento di dimostrare l'ingenuità, la cattiva coscienza, e il velleitarismo moralistico della stessa che non per via del suo irreprimibile impulso sessuale da lui menzionato), sembra di rivedere il finale di Nymphomaniac. E non è un caso se anche nella scena finale, in cui una lunga fila di donne entra in casa di Palmer proprio mentre Hannah, turbata e sconvolta dopo aver dovuto assistere al momento più assurdo dell'intero incontro, quello in cui la figlia di Palmer suona il flauto traverso sotto lo sguardo adorante del padre, ricorda un altro film di Von Trier, regista fra i più ambigui in tema di etica sessuale e in odore di non troppo velata misoginia. Nella risoluzione estetica della grey area a cui assiste Hannah, segnalata non a caso dall'unica scena che si allontana dal rigoroso realismo della serie, troviamo quella dittatura dell'immagine, il limite costitutivo dell'art pour l'art: se in American Bitch la processione silenziosa vorrebbe indicare l'appartenenza di Hannah al suo genere, ricondurre a una bigger picture l'esperienza “autentica” e disturbante appena vissuta, in un film come Antichrist la discesa nella valle di centinaia di donne senza volto sembra invece rappresentare in un'immagine la minaccia del femminile agli occhi terrorizzati del maschio. Lo stesso significante che vorrebbe avere un significato opposto. Un'immagine dialettica, o forse piuttosto la dimostrazione che senza la volontà di decodificare le immagini, di riflettere sulla finzione e sul suo ruolo politico e sociale, la superiorità morale lascia il tempo che trova?

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