This person does not exist / Chi ci salverà, chi si salverà da Mark Caltagirone?

4 Giugno 2019

Si perdoni qui l'approccio smaccatamente autobiografico, tanto più deprecabile quanto più in voga e scontato al tempo dell'ego; ma debbo confessare che anche stavolta sono stato ispirato da questo frammento di Elemire Zolla: “Da un'epoca si travalica in un'altra quando le idee, i sentimenti, le immagini ossessive o consolatrici più diffuse incominciano ad appassire (...) Che cosa sta per sostituirsi, in tali momenti, agli antichi dei, alle vecchie costumanze? Per saperlo – così suona l'impegnativo incoraggiamento – bisognerà visitare i luoghi meno raccomandabili, gente che si sarebbe tentati di scartare come prossima alla follia”. Appunto.

Sempre per non mettere le mani avanti, aggiungo un minimo sindacale d'imbarazzo nell'esordire su Doppiozero recando in dono la vicenda di Pamelona Prati, già starlette ultrasessantenne del Bagaglino televisivo, che esclusa dai circuiti del glamour, e aggravata da ulteriori tristi problematiche, come si dice a proposito di fragilità psicologiche e faccende economiche, per rientrare nel giro ha voluto e/o dovuto inventarsi un matrimonio fasullo con una persona, Mark Caltagirone, quello da cui qui si cercherebbe scampo, ma che non esiste proprio. Però in fondo sì.

Tale scelta pseudo-nuziale le ha comportato in effetti una mole considerevole di articoli, copertine, esclusive, interviste e comparsate nelle reti televisive, specie Mediaset. Ma dopo che il giochetto è stato scoperto da Dagospia, anche dolori, malori, lacrime, confessioni e rotture, tutto vissuto adeguatamente coram populo, là dove la rete e i social network s'incrociano con la tv in un mefitico, enigmatico interscambio.

 

Oleodotti, figli e infarti: il mondo di Mark

 

L'idea di base, temeraria come un esperimento sociale, è che questo inedito interscambio abbia prodotto qualcosa, uno spazio grigiastro, una comunità mezza vera e mezza falsa, una dimensione che non esiste, ma ha effetti sulla realtà. Proprio ciò che vanno cercando i politici di questo tempo e in prospettiva il potere. 

Ciò che colpisce e atterrisce – ma per fortuna fa anche un po' ridere – è la meticolosa cura con cui, a partire dai cognomi, vedi la dinastia editorial-palazzinara dei Caltagirone, vengono costruiti i personaggi inesistenti destinati a interagire con quelli veri.

Il mondo di Mark, ma anche il modo in cui la sua non-esistenza è venuta scandalosamente allo scoperto, consente in effetti di osservare il laboratorio nel quale prendono vita creature che sono e insieme appaiono un po' facsimili, un po' fantasmi, un po' prototipi, un po' ologrammi, comunque dotati di vita propria. Dai loro falsi profili social si dipartono per entrare a far parte della vita, alla conquista dei cervelli altrui, tra normalità ed emotività, tran tran e colpi di scena, secondo un modulo per cui ogni scambio che ottengono con la gente reale (foto, like, faccette, commenti, chat con terzi) diventa una prova della loro esistenza.

 

 

Anche se non si vede, il Mark di Pamela è bello, vive fra l'Italia, la Costa Azzurra e l'America, possedendo una magnifica villa a Miami. Anche se non è parente dei veri Caltagirone, è nello stesso giro, costruisce centri commerciali in Cina e oleodotti in Libia. Ha ottenuto riconoscimenti in Albania. È ovviamente pieno di soldi, regala costosi braccialetti, in un empito racconta di aver baciato l'imminente anello nuziale, come Salvini il crocifisso del rosario, scrive altre romantiche e appassionate dichiarazioni. È un modello d'innamorato.

Sempre sui social e sulle “indiscrezioni” fatte filtrare dopo i primi sospetti le finte nozze, ovviamente celebrate da un cardinale di Santa Romana Chiesa, vengono accreditate con finte partecipazioni, finte liste d'invitati, finti contratti con finti wedding planner, finti tulipani pervenuti dall'Olanda, finta cerimonia di addio al nubilato tenutasi in Egitto, ma forse era una Spa nei pressi di Formello. Con Pamelona, Mark aveva già – e qui la cosa presentava margini d'ambiguità – figli in affidamento: numero due orfanelli italo-spagnoli, ciascuno dotato di autonomo profilo Facebook con congrua dotazione di foto fasulle e veritieri interscambi. Uno dei bambini è Sebastian, ama il calcio, è laziale, “un principino biondo” secondo un'idealtipica descrizione di passaggio. Mentre la bambina si chiama Rebecca e vuole fare la ballerina; ripresa dall'alto in tutù, risulterà poi la figliola di un avvocato sardo, a tratti spacciato – come del resto un altro signore presente in ottenebrato video con un berrettino rosso – come il vero Mark Caltagirone. Che in altri profili, attenzione, nel frattempo si era sdoppiato in “Marc” e triplicato in “Marck” Caltagirone e appariva in foto, ora rubate, ora pixelate, ora pubblicate senza che si vedesse il volto, anche se poi si è scoperto che il torso, fasciato da un abito grigio, apparteneva a Gianni Sperti, che non c'entra nulla, pur risultando celebratissimo coprotagonista del programma “Uomini e donne” di Maria De Filippi. 

E insomma. A un dato momento, sulla spinta meritoria di Dagospia, si comincia dunque a rinfacciare a Pamela che il suo sposo non esiste. E infatti: perché non si fa vedere? Perché nel frattempo, risponde lei addolorata, ha avuto un infarto. E così anche la malattia, con il suo sinistro gravame, entra nella storia, dove tutto tocca il cuore e al tempo stesso ogni certezza si arrampica sui vetri, rinviando la verità a data da destinarsi con finta riprovazione e spontaneo, generale sollievo degli addetti ai lavori.

 

 

Da Pirandello a Lele Mora

 

Debbo ahimè proseguire con l'ego, per assumermi la responsabilità di un punto di partenza dal quale ora che sono in pensione, libero cioè dalle incombenze della cronaca militante, ha preso il via il mio smodato lavoro di voyeur pedinatore e osservatore ficcanaso.

Anche in questo caso provo a tenerla alta e a riscattare l'imminente caduta chiedendo se queste folate d'irrealtà, questi prolungati cortocircuiti tra verosimile e bugiarderia non facciano squillare campanellini più propriamente artistici: a parte la figura di Elena Ferrante, che di recente ha anche firmato l'appello a favore dell'insegnamento della storia, mi è venuto in testa Pirandello e l'inconciliabilità dei punti di vista in “La signora Frola e il suo genero Ponza”; come pure qualche spunto di impostura borgesiana tipo l'inverosimile Tom Castro; per non dire i personaggi immaginari, ma fin troppo impressivi, di diversi film, dall'illusoria diva di “S1mOne” all'invisibile gangster Keyser Söze di “I soliti sospetti”.    

 

 

Per tenerla bassa, d'altra parte, portando in giro il mio “Invano: il potere in Italia da De Gasperi a questi qua” (Feltrinelli), mi capita di presentarmi come un giornalista politico la cui parabola professionale ha fatto in tempo a delinearsi “da Aldo Moro a Lele Mora”. Le implicazioni di quest'ultimo nella rotolata giù per la china della vita pubblica nazionale emersero nella torbida stagione del tardo-berlusconismo, per via del ruolo esercitato all'interno dei grandi scandali sessuali. Ma per chi avesse avuto la perversa passione di agganciare le vicende del potere con le delizie della cronaca rosa e giudiziaria, già nel 2007, dalle parti dell'affaire Vallettopoli, fu possibile seguire le res gestae di Lele Mora riscontrandovi quanto bastava a intuire, oltre a una certa puzza di bruciato foriera di prossimi e sicuri incendi, un indispensabile salto di fantasia nel suo ufficio di agente di spettacolo, mercante di umane ambizioni, demiurgico burattinaio, abilissimo a spedire chiunque in tv (e talune sciagurate, purtroppo per lui e per loro, nelle feste del bunga bunga).    

 

 

Tuttora il suo personaggio mostra una sua impudente grandezza, figlia del tempo e dei suoi tratti equamente distribuiti fra il gossip, il corporeo e il religioso, per cui durante la reclusione perse qualcosa come 40 chili, così come ebbe una potente e forse anche comprensibile crocca mistica. L'anno scorso, richiesto alla radio di esplicitare il proprio coinvolgimento nel rapporto con Fabrizio Corona, se l'è cavata dichiarandosi orgogliosamente cittadino di “Bombolandia”. Di recente è stato pizzicato in un campo rom che trafficava con una partita di champagne di sospetta derivazione. Ma prima che ci si perda definitivamente, l'impressione è che le avventure di Mark e Pamela nel cyber-spazio non sarebbero potute avvenire senza il magistero primigenio di Mora cui si può almeno in parte far risalire l'incrocio non solo fra gossip e potere, ma anche di quanto accade nei pressi del binomio, fra il cielo e la terra dei famosi, e quindi on line, dentro la rete, ma anche in prossimità del piccolo schermo.

 

 

Caccia, pesca e dopamina

 

Il punto è che il modello di Lele, quel suo costruire personaggi per darli in pasto alla tv secondo parti prestabilite, non solo ha fatto scuola, come scrivono i giornalisti, ma si è pure evoluto là dove nell'ultimo e acceleratissimo decennio la tecnologia della persuasione ha anch'essa fatto – per usare un'altra tipica espressione – passi da gigante. 

Con il che si è lieti di annunciare, con il consueto scrupolo degno di miglior causa, che l'idea delle finte nozze di Pamelona con l'inopinato Mark Caltagirone è il frutto di una nuova generazione di agenti di spettacolo che potrebbero idealmente definirsi le “nipotine” di Mora. Si tratta di due giovani donne, a nome Eliana Michelazzo e Pamela Pericciolo, già “corteggiatrici” di “Uomini e donne”, passate convenientemente dall'altra parte del broadcasting alla guida di un'agenzia battezzata “Aicos Management”. Con le adeguate credenziali e a un prezzo che (ancora) non è dato sapere la coppia Aicos, che sarebbe la marca delle evolute sigarette a freddo, si è messa a disposizione della Prati con la piena e sperimentata consapevolezza che la partita dell'oggi – e oggi è già domani – si gioca tutta sull'antico rapporto fra predatori e allocchi, come pure su quello che la natura stabilisce tra pescatori e pescato.

Sono in effetti i social media campi venatori e di pesca per eccellenza, densi come appaiono a occhio nudo di solitudini e vanità da solleticare, e quindi di richiami, lusinghe, gabbie, trappole, esche e reti a strascico.

 

 

Un giornalista esperto, fra i primi in Italia a indagare con brio e intelligenza sui meccanismi psicologici della Rete, Gianluca Nicoletti, ha spiegato bene che alcuni sentimenti comuni sono provocati dalla deprivazione sensoriale, uno stato indotto in chi condivide un ambiente artefatto e costruito dal pc. 

Chi passa ore e ore in quella realtà immersiva si procura, in altre parole, effetti simili a quelli che stimola la dopamina, fondamentale neurotrasmettitore dell'umore e dell'emotività. Ogni volta che si riceve un "Mi piace", o un retweet, o un complimento, un'attenzione, una foto dedicata, l'organismo rilascia una piccola scarica di dopamina, con il risultato che alla lunga si crea un fenomeno di dipendenza. “Così il nostro bisogno di social-gratificazione cresce nel tempo – conclude Nicoletti – esattamente come accade a un cocainomane, o come convenzionalmente accade in una fascinazione amorosa”. Che tanto più in pubblico vive di trasporti, rimbalzi, gelosie, amnesie, ambiguità e tradimenti. 

 

 

La centralità di Barbara D'Urso

 

La Gazzetta Ufficiale dei dibattiti social è costituita da quei rotocalchi che in un tempo ormai abbastanza lontano si liquidavano “da parrucchieri”. Non saprei dire quando esattamente siano entrati nelle mazzette dei giornalisti politici (i più scrupolosi). Ma a occhio e croce direi che anche in questo caso è accaduto all'apice dell'età berlusconiana, a partire dalla sua seconda vittoria alle politiche del 2001, quando Sua Emittenza, il Signore di Arcore, una volta assurto a Palazzo Chigi ha sentito la necessità di imporre un modello estetico di comando regale, affidandolo a quel genere di dispositivi di consacrazione mediatica. Come avviene nelle dinastie titolate, i vari “Chi”, “Novella 2000”, “Eva 3000”, “Diva e donna” e “Dipiù” ci hanno dato dentro con i berlusconidi, arrivando spassosamente anche molto in là, tipo l'intervista al cugino prete del Cavaliere, parroco a Lomazzo, provincia di Como, pure raffigurato con oggetti sacri.    

Nel frattempo il gossip (vulgo: pettegolezzo) andava configurandosi come un indispensabile specchio entro cui prendeva luogo e corpo una specie di nuova, composita ma in fondo omogenea aristocrazia fatta di Vip dello spettacolo, dello sport e della politica e sorvegliata dai medesimi rotocalchi e dai primi siti gossipivori con modalità che – vedi l'indiscreto Dagospia con i suoi vistosi Cafonal – ricordavano un po' il sistema carcerario del Panopticon.

 

 

Come succede non di rado ai giornalisti, temo di essere insieme pedante e impreciso. Per quanto possa fare schifo, questo vivere in pubblico e sotto il fuoco dei media offrendosi ai dardi della più varia malevolenza rispondeva comunque all'annullamento dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. E se la “vetrinizzazione sociale”, come definita da valenti studiosi come Vanni Codeluppi, si affermava senza trovare ostacoli, e se il concetto di gossip diveniva oggetto di seri studi politologici, è pure vero che in molti ambiti, fra cui quello del potere, l'antico contegno e anzi direi la vergogna stessa andava a farsi benedire. Per cui si spiega come al giorno d'oggi Barbara D'Urso, che nella storia di Mark Caltagirone ha inzuppato il pane a più non posso, si è naturalmente sostituita a Bruno Vespa nel ruolo mediatico-cerimoniale del potere; e nelle interviste che vanno in onda a “Domenica live” ecco che i leader, i presidenti e i ministri dell'alleanza nazional-populista le danno del tu (“Senti, Barbara...”), benevolmente ricambiati, e dopo si fanno anche la foto abbracciati in vita, e al momento dello scatto, soffusa di lux perpetua, lei guarda in camera piegando le labbra in una specie di bacio di legittimazione. Amen.      

 

 

Fantasmi truffaldini

 

Ha proclamato Barbara D'Urso in una delle tante trasmissione dedicate alla saga: “Ci sono tante donne che sono fidanzate con persone che non esistono”. E ancora: “Ho tante amiche che sono convinte di avere un fidanzato solo perché ci parlano su Facebook”. E può anche darsi. 

Da anni la rete ha aggravato il peso dell'intimità e al tempo stesso dilatato a dismisura le possibilità di condivisione. In un'atmosfera euforica e sdolcinata, ma anche dolorosa e talvolta non priva di un retrogusto cospirativo  – ah, l'eredità del melodramma! – il regime del trash ha ben concimato il terreno per la fioritura di fake che sui social e sulle piattaforme di dating operano a mezza via tra la menzogna social e la vera truffa sentimentale; per cui in effetti molte poverette ammettono di aver avuto palpitazioni e intrattenuto relazioni – pure con scambio di porno domestico – con persone che nel migliore dei casi operano alla tastiera sotto mentite spoglie (richiestissimi gli uomini in uniforme militare). L'equivalente dei raggiri economici, tipo l'ex ministro del Tesoro dello stato africano che ha messo da parte un ricco tesoro, ma siccome non può attingervi, ha incaricato un intermediario, di norma un parente prossimo, di spillare qualche centinaio di euro a qualche gonzo per sbloccarlo – donde il bengodi, la cuccagna e l'eldorado.

 

 

Da quel che è dato capire, il principale bacino d'utenza nell'ambito della manipolazione sentimentale, il nucleo incandescente di questa umanità di predoni e predati, sembra comunque composto da un certo numero di morti e morte “di fama”, come con sprezzante efficacia li ha designati Dagospia: aspiranti e reduci del Grande Fratello, naufraghi e renitenti alla leva delle isole dei famosi, corteggiatrici e tronisti dei programmi di Maria De Filippi, detta “la Sanguinaria”, e altri ambiziosi cercatori di fortuna provenienti dalle discoteche, scuole di ballo, palestre, centri estetici, di benessere e di ricostruzione delle unghie, compagnie di biker e – attenzione! – gruppi politici sparsi e lampeggianti per l'Italia profonda della periferia. Ognuno di essi con i suoi spregiudicati agenti 2.0 ai quali si affianca un milieu fatto di blogger raccattati, improbabili influencer, social media manager di serie C1, spin doctor pizza & fichi, ma che di sicuro sono in grado di inventarsi profili e sanno benissimo come nutrirli di balle per aumentarne l'attività e generare vere e proprie comitive che possono sempre servire, allargandosi e attivandosi per esempio in vista di momenti caldi ed elezioni. A riprova dell'accelerata contiguità o forse ormai dell'avvenuta osmosi tra vita vissuta, gossip, ricerca di popolarità, perdita di tempo e post-militanza politica all'ombra dei social.  

 

 

E Silvia Sbrigoli prometteva le “Zigulì”

 

Forse è perché alla fine uno si illude di aver capito e al tempo stesso brancola nel buio. Ma certo, pur con le peggiori intenzioni, sono rimasto sorpreso quando ho preso atto che una certa Silvia Sbrigoli prometteva le caramelle “Zigulì” a Sebastian Caltagirone. E che c'era un altro tipo, Ivan Lazio, che si dava da fare intorno al futuro e brizzolato meta-sposo di Pamelona; o quando mi sono reso conto che pronubo un tale Stefano Codispoti, la vicenda aveva preso una strana piega calabrese. S'era in effetti materializzata da quelle parti, luogo d'origine dell'agente Perricciolo, una deputata di Fratelli d'Italia che veniva indicata come la precedente fidanzata dell'inesistente Mark, con evidenze di sintomatica uniformità. Così come aveva preso a tambureggiare contro di lei una esponente del Pd, pure calabrese, non si capiva se in nome della trasparenza, della verità o di che altro. 

 

 

In ogni caso, per ovvie ragioni, la prudenza nel giudizio era sorella della diffidenza, per cui mi appariva tutto vero, nel senso che ogni post lasciava una reale traccia in rete, ma nel contempo anche tutto falso; o meglio, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Più esattamente: la sarabanda in espansione sembrava riassumere tenendoli insieme, come ha scritto Andrea Minuz sul Foglio del sabato, brandelli di palinsesto, oltre che idee e sotto-idee televisive: “Chi l'ha visto?” (che poi ha dedicato una puntata a Mark), “Mi manda Lubrano”, “C'è posta per te”.

A tutte le ore, siti e televisioni presentavano impossibili trame, inutili colpi di scena, assurde peripezie e vacui inghippi annegandoli in un mare magnum di chiacchiere con la partecipazione di “analisti” per lo più sconosciuti, ma di bella presenza ed elementare linguaggio, Giovanni Ciacci, Georgette Polizzi...     

Con temerario rimando storico aggiungerei che la quantità e qualità di bizzarri testimoni ricordava un po' il circo che quasi settant'anni orsono si trascinò appresso, nei memoriali per la stampa e dentro le aule giudiziarie, il caso Montesi: l'ex soubrette Giobbengiò, la scrittrice Caramello, “Giovanna la Rossa”, una misteriosa signora soprannominata “la Dromedaria” e il preteso agente del Cominform Piero Pierotti. Ma a parziale compensazione comparivano nella saga caltagironesca anche due cani, a nome Oscar e Benito, entrambi tuttavia enigmaticamente recanti in foto una medaglietta con la croce celtica.

 

 

Epifania della famiglia Coppi e di Giò Inolem

 

Debbo ripetermi, lo so bene. I processi di reciproco accreditamento social si moltiplicavano con ritmi inusitati gonfiandosi e sollecitando reazioni in un gioco di scambi, specchi, rifrazioni e rimbalzelli sempre più arduo da seguire, anche perché a getto continuo confluivano novità hard: potenziali aggressioni con l'acido, per dire, e relative azioni legali (l'avvocato di Cagliari presentava denuncia perché fatto passare come Mark Caltagirone). 

A un dato momento, con lieto sgomento, ho realizzato che con sfacciata precisione e ribalda sicurezza le due agenti avevano da tempo dato vita e immesso in rete un'intero nucleo parentale inesistente il cui cognome, Coppi, evocava un grande ciclista, ma soprattutto un celebre avvocato.

Ben 10 (dieci) anni era durata la relazione che la Michelazzo sosteneva di aver avuto con tale Simone Coppi, incontrato, no, anzi visto in realtà una sola volta, a Fontana di Trevi, anche se la certificazione del legame era delegata alla foto di un tatuaggio, con tanto di date e svolazzi grafico-epidermici. 

Oltre a Simone, che esercitava la professione di magistrato e come tale aveva avuto a che ridire con un ex corteggiatore tradito dalla fidanzata, esisteva molto in teoria anche Davide Lorenzo Coppi, di cui si veniva a sapere che possedeva un imponente acquario di pesci tropicali a capo del letto e che era impegnato a sostenere come volontario i bambini di Haiti colpiti dal terremoto. Quindi c'era anche il cugino Danny Coppi, presumibilmente Daniele; e dulcis in fundo Hellen, pure Coppi e presumibilmente niente.

In tale grazioso contesto apparve l'ennesimo fake, dal nome invero piuttosto sbrigativo di Giò Inolem. Non ci voleva molto a capire che se il nome poteva essere un'abbreviazione di Giorgia, il cognome era indubitabilmente Meloni alla rovescia. E qui, come si dice all'estenuato pubblico, mi avvierei alla conclusione.

 

 

Verso la minoranza assoluta

 

Posto che quasi certamente Giorgia Meloni nemmeno lo sa, debbo confessare di aver guardato ogni volta con sospetto al numero mostruoso e sempre crescente di follower che gli odierni politici vantano su Facebook, Twitter e Instagram.

È uno scetticismo antico e ben radicato che di sicuro ha a che fare, oltre che con le debolezze umane, con l'anagrafe professionale: l'eccessiva proliferazione del tesseramento dei partiti nella Prima Repubblica e la smodata sopravvalutazione dei dati nei sondaggi preelettorali nella Seconda. Per cui mi pare di poter concludere che nella Terza, questa di oggi, è del tutto inverosimile che Salvini, Di Maio, Zingaretti, Meloni e compagnia cantante abbiano milioni e milioni e milioni e milioni di seguaci, moltissimi dei quali intervengono quasi sempre a loro sostegno.

Neanche a farlo apposta, proprio nelle settimane dell'affare Caltagirone sono cominciate a venire fuori le prime spontanee e timide verifiche sulla reale entità della partecipazione alla vita di questi politici perennemente on line. Sono calcoli ancora imperfetti, a campione e artigianali, seppure di buon senso, ma tempo verrà per più puntuali e scientifiche rilevazioni.

Da quel poco che si capisce, gli odierni campioni dei social hanno di gran lunga oltrepassato l'improntitudine dei signori delle tessere democristiani (che comunque se le pagavano) e la spudoratezza demoscopica di Berlusconi, che si gloriava di percentuali pazzesche, per cui era quasi inutile fare le elezioni e votare (d'altra parte il Cavaliere era anche il proprietario di agenzie di raccolta dati, quando non acquistava a caro prezzo quei cialtroneschi numeri a suo vantaggio). 

 

 

E insomma, per farla breve: il sospetto è che oltre il 65 per cento dei follower, comprendendo nella categoria le simpatiche figure dei troll e degli haters, sono fasulli – e tanto più fasulli in quanto non costano nulla. Si dice a Roma, a proposito di chi si fa bello: quattrini e santità, metà della metà. 

A occhio, la perfida rima trova conferma e sviluppo nella tecnologia della rete. Sempre in singolare coincidenza con le vicissitudini di Pamelona e le sue agenti (con cui ha litigato) si è potuto leggere che on line esistono e funzionano da tempo, attraverso calcoli neurali, dei veri e propri generatori di figure perfettamente realistiche, ma immaginarie. Cioè uno fa click e viene fuori un volto, ma perfetto – posso garantire che l'esperienza vale la pena. C'è anche da dire che a scanso di equivoci, chi ha inventato e messo a punto il modello ha avuto la simpatica idea di intitolare il sito: “This person does not exist”. Più facile, rapido e meno costoso della clonazione. 

Ho pensato dunque: con questo sistema, da Mark in poi, la conquista del 51, ma forse anche del 101 per cento è a portata di mano. Poi, con più calma, mi è venuto il dubbio che anche in quel caso ci si potrà consolare – guarda te! – con Machiavelli: “Perché si trova questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro”.

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