Le vite di Mercurio

22 Settembre 2023

Ci sono diversi punti di contatto tra le prose di Alberto Savinio, raccolte in Vite di Mercurio e introdotte da Silvio Perrella per le Edizioni Spartaco, e quelle di Paolo Lagazzi sotto il titolo di I volti di Hermes (Moretti & Vitali), entrambe di recente pubblicazione. In primo luogo un titolo plurale dovuto allo stesso dio, greco e romano, che del transito rapido e multiforme fa una delle sue caratteristiche peculiari; e poi l’incontro, mediato ma pure diretto, dei due autori con il nume più amato. Nella divagante riflessione Delle cose notturne, datata 1920 e apertura del libretto, Savinio sostiene che il sonno, riducendo l’uomo alla passività, lo scioglie dai suoi tratti individuali e dalla volizione, sospende il tempo; lo precipita insomma “fuor dalla sua ragione”. Irrompono allora “gli intrighi e gli stupori” del sogno, l’anima si apre alla divinazione: siamo nell’atmosfera alata e vagabonda di Mercurio (per altro non ancora citato). Ma in Vita di fantasmi, la cui prima parola è appunto “Notte”, il narratore scorge il dio nella propria camera, seduto con il mento in mano secondo l’iconografia tipica del malinconico, con una carta geografica alle spalle sul muro, dove sta pure uno specchio che riflette un’acqua immobile.

D’altro canto in Introduzione a una vita di Mercurio, scritta in francese e inserita da Breton nell’Antologia dello humor nero, la città di Parigi si risveglia in onore di Mercurio con i suoi convogli della metropolitana, i clacson e le sirene delle fabbriche, le luci e i fili elettrici, con tutta la popolazione che salta dalle finestre in pigiama e si schianta sulle strade. E del resto Lagazzi, sulla sorta di Isidoro di Siviglia, accorda ad Hermes i caratteri più contrastanti tra loro, perché “la stoffa della sua anima è intessuta nell’aporia”, appunto come nel sogno, è “l’incarnazione di tutto ciò che fa della vita una cosa doppia.”

Uno dei paradossi in fondo è la sopravvivenza stessa di Mercurio nell’età contemporanea: “Tu mi credevi ormai rinchiuso nei tubetti dei termometri! […] ridotto all’impotenza in questo mondo di fumose esaltazioni! sussidio igenico contro la lue celtica e altri simili malanni!” Savinio avverte il miracolo dell’incontro con la statua parlante del suo dio, sulle rive dell’Alfeo, che gli dà appuntamento nella città del nord (la Parigi già citata), proprio perché sente profondamente la fuga del divino, e utilizza l’ironia verso questa presenza assente. Ironico e serio insieme è anche Mercurio, rinvenuto da Savinio nell’occhio lucente d’un gallo da pollaio, quando afferma che tra le sue prerogative “quella cui tengo soprattutto è di guida delle strade e delle vie […] Conoscere la meta e indicarne la strada altrui, è la cosa più utile e assieme più nobile che possiamo fare, perché dall’ignorare la meta e la via che vi conduce nascono tutti i mali quaggiù”. Tali bagliori hanno investito Lagazzi fin dall’infanzia – momento della vita simile al sogno – con gli incanti del Natale, del circo di cui il padre era appassionato, dei prestigiatori come Sitta e Bustelli che lo spingono a darsi, insieme al fratello, ai giochi d’illusione cari al mobile e imprevedibile dio degli inganni.

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Il brivido dell’incontro con Hermes, che va colto con un po’ d’attenzione anche in certi inciampi e doni del quotidiano, lo si può provare tra le pagine degli autori, maestri o compagni di strada, a cui Lagazzi dedica la terza sezione del suo composito e divagante libro; sono molti ma un posto privilegiato lo occupano i poeti, in quanto i versi, a partire dalle figure retoriche, intrinsecamente creano effetti “fluttuanti tra il qui e l’altrove”, avvicinandosi così alla magia. E volendo ulteriormente circoscrivere si focalizza la poesia giapponese, sintesi dell’atteggiamento zen che fa corrispondere il vuoto alla forma e viceversa, e tra i diversi esempi italiani, ad Attilio Bertolucci per cui Lagazzi si è molto speso anche in virtù di un legame personale.

Piace citare del maestro di Casarola Lasciami sanguinare, in cui il poeta osserva sgomento la ferita procuratasi con una caduta in montagna e ugualmente invita a non soccorrerlo, attendendo al desco di casa con i figli. Lagazzi evidenzia qui il nesso tra il sangue versato e l’amore domestico da esso propiziato; si potrebbe aggiungere quella dimensione effusiva, anche narcisistica del puer, ricordata da Hillman, che l’autore mette tra parentesi, concentrandosi sul polo positivo, addirittura sulla forza terapeutica, appartenente al dio. La sottolineatura della leggerezza di Bertolucci, intesa come grazia illuminante che sta insieme al dolore, e al contempo lo trascende, risulta quanto mai opportuna per evitare scivolamenti nella vuota irresponsabilità o nella superficialità postmoderna, facendo così giustizia della virtù imposta da Calvino, autore mercuriale per eccellenza. Leggerezza che, come si capisce ad apertura e chiusura delle Lezioni americane, va in parallelo, o per intreccio, con la molteplicità: “la leggerezza del mondo consiste anzitutto nella sua natura polimorfa, variegata, metamorfica, proteiforme, plurale; a sua volta la molteplicità è leggera perché schiude all’esperienza spazi, prospettive, punti d’osservazione, vie di scorrimento, materiali, volumi, linee e colori praticamente infiniti”.

Quest’ultima citazione di Lagazzi è di buon viatico per slittare allo stile di scrittura, chiudendo con la proposta di critica avanzata insieme a Giancarlo Pontiggia in margine al varo della collana di Moretti e Vitali chiamata appunto I volti di Hermes. Il dio alato infatti contempla non solo le differenze, come amante dell’altro e dell’altrove, ma pure le accosta, le mette in dialogo creando dei nodi e infine un tessuto, un testo appunto. Consegue il rifiuto di ogni atteggiamento settario e, in ambito critico, settoriale e ideologico (che, per la verità, all’altezza del nuovo millennio pare già ampiamente scomparsa), a favore di un approccio giocoso, immaginoso e fluido, che coincide con la scrittura: “la critica è scrittura oppure non è nulla”. Affermazione piuttosto ardita per un adepto del dio che apre tutte le porte e che rischia di incoraggiare, proprio oggi, cumuli narrativi e scintillii verbali sotto cui troppo spesso si cela soltanto una minuscola monetina d’acquisizione conoscitiva, a scapito magari di una mano meno brillante ma guidata da un rigore che va ancora cercando spiegazioni e azzarda giudizi. Ma tant’è, quando le capacità scrittorie sono evidenti, come nel caso del Savinio sublime saggista e dello stesso Lagazzi, il lettore non può che gustare l’inscindibile impasto di quello che un tempo si diceva forma e contenuto, alzandosi soddisfatto dal gradevole e sostanzioso banchetto.

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