Alcune sfumature dell’India-Fabindia

18 Giugno 2015

Alla festa di compleanno del mio amico Hari al Park Hyatt di Chennai ci saranno almeno una trentina di persine. Una stangona del Quebec che si spaccia per francese canta delle cover anni ’80. Un buffet di spiedini gira tra i tavoli e fuori, tra le piscine del cortile e una grande statua di Ganesh, si fuma, si beve e si chiacchiera.

 

È qui che scopro una via di mezzo tra l’India moralizzatrice del Modismo contraria alle effusioni in pubblico e quella militante dei kiss-mob dove i ventenni si baciano spudoratamente per affermare il proprio diritto a poterlo fare in pubblico. È l’India del ceto medio che sta scoprendo un nuovo rapporto con il proprio corpo e con la sessualità. Un’interessante India privilegiata.

 

Sunil mi spiega d’un fiato tutta la trama della trilogia di Cinquanta sfumature di grigio. Ne so poco, tranne qualche articolo sul fenomeno, letto qua e là. Mi dice che no, non è un libro erotico: è letteratura. E mi spiega che il gioco di sadomasochismo finisce nel primo libro. In quelli successivi lei lo fa innamorare e si sposano. Poi ricominciano con il gioco erotico, ma solo quando vuole lei. Poi arriva uno dal passato di lui e tenta di alterare le cose.

 

Mi pare che il fatto di riuscire a parlare così liberamente di questo tema a sfondo sessuale nell’India di oggi sia già una dimostrazione di qualcosa che cambia nella conservatrice Chennai. Che si trasforma socialmente, attenzione, non politicamente. Anzi, è forse una forma di tracotanza che ci si può finalmente concedere, dopo decenni di socialismo in cui bisognava, per rispetto o per opportunismo, camuffare i propri privilegi e mantenerli più privati possibile.

 

 

Ad esempio, una coppia di amici ha invitato me e mia moglie a una festa di San Valentino intitolata: Cinquanta sfumature di rosso per celebrare, come dice l’invito che mi ha spedito Pavi: “l’uscita del film 50 sfumature di grigio, il capodanno cinese, la nostra nuova casa, San Valentino e chi più ne ha più ne metta.”

 

È un gioco innocente. E anche se non siamo andati alla festa, vedo poi delle foto postate su FB nei giorni successivi. Le solite guance rubizze dal troppo whiskey, troppo vino bianco e troppi cocktail, tutti che ridono felici, e, sullo sfondo, poster rossi con manette stilizzate. Poter scherzare di questo, qui, nell’India del fondamentalista Narendra Modi, è come i “nuovi indiani” celebrano lo zeitgeist.

 

A parte il fatto che il Tamil Nadu è un contesto molto diverso dall’Hindustan sognato da Modi, tanto che qui pochissimi parlano l’hindi ed è più utile l’inglese, se non sai il difficile Tamil, per questi trentenni che spesso hanno studiato nelle migliori università americane o inglesi la nuova India modista vuol dire un’immagine internazionale più marcata e, paradossalmente, libera anche da quell’iconografia gandhiana del welfare state, della non-violenza da film hollywoodiano, delle bonarie teste dondolanti e sorridenti a tutti i costi un po’ alla Hollywood Party di Peter Sellers.

 

L’essere inseriti nel fenomeno globale della commercializzazione di quello che presumo sia del masochismo per casalinghe è un modo efficace per sentirsi moderni a casa propria anche nel Tamil Nadu, dove gran parte della popolazione, poi, fuori, per le strade e nei villaggi, indossa ancora i bellissimi sari e per gli uomini le gonne di cotone, i dhoti (che qui chiamano lunghi), e solo gli uomini si tengono per mano.

 

Quella di cui vi parlo qui non è l’India che piace tanto ai turisti, ma piuttosto quella che chiamo l’India-Fabindia. Fabindia è un negozio di mobili e abbigliamento che si è ormai trasformato in una sorta di Ikea d’alto livello con franchising ovunque, anche a Roma. Il look Fabindia è sopravvissuto alla crisi del 2008 – sia economica che politica, in un certo senso – e continua a trasmettere quel messaggio di modernità nato alla sua fondazione, ovvero un adattamento alle esigenze contemporanee nell’aspetto e taglio sartoriale della tradizione.

 

 

Sempre a quel tavolino alla festa di compleanno al Park Hyatt, chiacchiero con Chetan, altro esempio di questa categoria. È un giovane imprenditore nel settore fotografico e dei sistemi hi-fi. Viaggia spesso anche in Italia e conosce alcune province lombarde e toscane meglio di me. Gli spiego che nella casa dove abito, il rumore dei pescherecci alle 4 del mattino, con gli smarmittamenti selvaggi dell’alba, è assordante. Difficile non svegliarsi. Mi consiglia d’istallare subito un triplo vetro isolante e mettere l’aria condizionata. “Il rumore scomparirà in un attimo,” dice con entusiasmo.

 

Gli chiedo, a parte il costo, che cosa ne sarebbe, allora, della poesia di vivere in riva al Golfo del Bengala, con un’isolamento simile tra la realtà esterna e quella interna. Mi guarda per un secondo, capendo le nostre profonde differenze, e sbotta con un sorrisetto: “Ah, la poesia in quel caso andrebbe completamente a farsi fottere!” E ride.

 

Questa è la nuova India-Fabindia delle 50 sfumature di rosso. È un’India dove Sid, seduto alla mia destra, nei weekend va a sgassare nel circuito di Formula 3 del Motor Sport Club di Chennai. È la Chennai dove Andy gioca a tennis nell’esclusivo Madras Club, prima di andare al suo lavoro in banca. Dove Hisham si alza alle 4:30 ogni mattina per andare a cavalcare al maneggio, dove Divya ha successo nel marketing a Londra, ma torna sempre qui a Natale e ritrova Annika, che sta arricchendosi a New York nelle settore delle relazioni pubbliche.

 

 

È l’India di chi è convinto di essere dov’è perché se lo merita e che chi è sotto di loro economicamente è semplicemente più pigro, incline ai vizi dell’alcol, ignorante, senza ambizioni e in generale incapace. Parlare di poveri è così “out.”

 

Un’India di privilegiati? Anche. È l’India che si nota di più, anche nell’immaginario pubblico, anche in quella televisione o quel Bollywood dove i protagonisti della narrazione cinematografica sono ora sempre gente ricca, di successo, specchietti per le allodole per le masse di 200 milioni di miserabili, molto al di sotto della povertà, gente che vive nella vera indigenza, che va a dormire affamata, anche di sogni. Ma allo sguardo di alcuni indiani, contrariamente all’interesse occidentale, non esiste solo l’India delle disgrazie umanitarie, degli stupri a Delhi, delle mogli bruciate vive nelle cucine, dei suicidi dei contadini quando il raccolto va male, o dei suicidi ricattatori fatti per indurre i datori di lavoro a dare concessioni nell’ambito di trattative sindacali.

 

Ora vi spiego: per una legge indiana, se un suicida (che sia un amante deluso o un ex dipendente, non fa differenza) lascia una nota indicando un responsabile “psicologico” del suo gesto, questi viene arrestato e spesso processato e condannato. Il suicidio (ecco, torniamo all’India vista dal basso) diventa così uno strumento postumo di vendetta per il singolo individuo, ma si può trasformare anche in una leva di ricatto collettivo da parte di un gruppo di interessi come quello di una cooperativa di lavoratori. Lo dico perché così mi è stato riferito dal figlio di un ricco proprietario di immobili che ha ricevuto questo genere di minacce. “Se non ci dai quel che chiediamo uno di noi si ammazza e lascia scritto e firmato che è stato per colpa della tua taccagneria.” Per chi riceve il ricatto la cosa appare inaccettabile, per chi lo attua è una disperazione che più estrema non può essere. In realtà, l’esistenza di questi kamikaze della povertà è il segnale dell'esacerbarsi disperato di un ulteriore scollamento sociale tra classi.

 

Ma per questi ragazzi che si ritrovano alla festa di compleanno di Hari non può esistere un costante senso di colpa verso la povertà che circonda lo sguardo. Soccombervi viene percepito oggi come rischiare la propria rovina. Si chiama il Looking away (Guardare dall’altra parte) titolo del libro denuncia di Harsh Mander appena pubblicato in India dalla Speaking Tiger. Sottotitolo: “Ineguaglianza, pregiudizio e indifferenza nella New India.” È quell’India dove Noam Chomsky ha osservato “è impressionante l’indifferenza dei settori privilegiati per la miseria degli altri.” Nella sua analisi, Mander spiega come il partito di Modi sia riuscito a vincere le elezioni pur avendo ottenuto solo due quinti dei voti. Gli altri tre quinti si sono sparpagliati inutilmente tra partiti locali degli Stati indiani o nel Congress party e altre piccole formazioni politiche.

 

È il partito degli indifferenti, e non è una citazione moraviana. Ogni piccola conquista di privilegi da parte degli abbienti va difesa con un sano atteggiamento di indifferenza, che può essere nutrito anche dal non-attaccamento di tradizione vedica.

 

Disumano? Da questa sacra apatia sono contagiati anche i ceti sociali dei ricchi stranieri, i cosiddetti “expat”, gli espatriati. Parlando con mia suocera, una signora gallese che abita qui da 40 anni, ho capito una trasformazione importante avvenuta in questa comunità. Mentre, fino a 10-15 anni fa, diplomatici, dirigenti, executive e manager stranieri spediti qui dalle multinazionali con le loro mogli o mariti si sentivano in dovere di partecipare attivamente con donazioni e con il loro tempo alle iniziative delle associazioni di volontariato, laiche o religiose che fossero, le nuove generazioni di europei, asiatici e americani che arrivano qui sono invece fortemente immuni da questa tentazione caritatevole.

 

 

È come se questi “nuovi ricchi” occidentali, coreani o giapponesi fossero già abbrutiti umanamente dal fatto di dover sopravvivere alle proprie crisi economiche, tanto da non sentirsi poi in dovere di partecipare collettivamente a soccorrere “i poveri indiani”.

 

Cioè, prima, quando gli expat venivano da quella categoria di nobili decadenti, famiglie di privilegiati da generazioni, vere caste di “old money,” c’era forse un senso di colpa o di dovere morale (corroborati da un contesto politico più socialista) nel cercare di aiutare la maggioranza che vive in stato di povertà. Ora invece i nuovi expat che sono forse più spesso persone che si sono fatte da sole, che provengono da un Occidente più modernizzato e con meno familismo e nepotismo di prima (dico “forse”), questa necessità si sente di meno. Il detto popolare romano può condensare il senso di quel che intendo: “parla col ricco impoverito, ma salvate dar povero arricchito”.

 

Così si ritrovano, questi expats di Chennai, a rosolarsi tra di loro un maialino che sono riusciti a procurarsi dal macellaio di fiducia. O a bere del Brunello di Montalcino in qualche sala d’hotel affittata dal vinaio italiano di turno che viene a cercare di conquistare un mercato di difficile penetrazione. E guardano all’iniziativa caritatevole di un Marco Materazzi (ex campione del mondo di calcio e allenatore della squadra di Chennai, i “Chennayins”), quella di visitare i quartieri poveri e invitare 20 ragazzi gratis allo stadio, come “un’idea molto anni ’90”.

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