Sul patrimonio pubblico

11 Febbraio 2015

Quali sono i motivi che hanno portato a questa situazione, come mai non siamo in grado di prenderci cura di un patrimonio così straordinario? Sono anni che il dibattito è aperto e fortissima è la contrapposizione tra chi difende a spada tratta il modello pubblico e chi invece vede nell’avvento del privato la soluzione al problema. Nel corso di questi anni, in verità, entrambi i modelli hanno mostrato profonde carenze e inadeguatezze, in particolare nella gestione del patrimonio culturale diffuso. Nell’analizzare le caratteristiche e le dimensioni del patrimonio culturale italiano è emerso in modo evidente come, grazie a una legislazione estremamente attenta al valore identitario del patrimonio, la presenza e il ruolo dei soggetti pubblici sia estremamente significativa. L’impianto istituzionale italiano in questo campo è indubbiamente all’avanguardia rispetto a tanti altri paesi: l’attenzione alla salvaguardia del patrimonio artistico e culturale ha una tradizione che parte dal Rinascimento. Nel 1936 con la legge 1089 l’Italia si è dotata di un codice che ha posto al centro la tutela e la salvaguardia di un patrimonio millenario e che ha rappresentato un punto di riferimento cruciale, sancendo il concetto di patrimonio vincolato, di pubblica godibilità sia per i beni statali che per quelli privati coperti da riconoscimento di pubblico interesse.

 

Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali rappresenta l’organizzazione statale che ha la responsabilità di gestire in modo integrato e unitario questo enorme patrimonio. La scelta di aver affidato a un’organizzazione nazionale questa responsabilità è coerente con la volontà di garantire l’unitarietà del patrimonio e la necessità di tutelare e salvaguardare il territorio. Ma non mancano le criticità. Il sistema statale presenta problemi che sono sotto gli occhi di tutti: enormi sono infatti le carenze, sia nel gestire il patrimonio diffuso che i grandi attrattori e che si manifestano nell’incapacità di censire, manutenere, far conoscere e valorizzare il nostro patrimonio. Ovviamente ci sono eccezioni e oasi di efficienza e buone pratiche, ma in generale la situazione è molto critica. La stessa Corte dei Conti, in una recente indagine svolta per verificare lo stato di manutenzione dei siti archeologici, ha evidenziato una pluralità di carenze e in particolare: «assenza di raccordo tra Direzioni generali; scarsa propensione ad interagire tra centro e sedi periferiche, con forte deficit di controllo sull’attività svolta dalle Sovrintendenze; difficoltà di spesa degli organi periferici con conseguente formazione di giacenze di cassa; mancata realizzazione della banca dati unificata, in cui far confluire i sistemi informatici riguardanti i diversi aspetti conoscitivi; ricorso frequente alla decretazione d’urgenza ad opera della Protezione civile con conseguenti gestioni commissariali per attività manutentiva di siti archeologici».

 

Pompei, crollo del 2013

 

Le difficoltà del sistema pubblico sono sicuramente aumentate con l’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha modificato il Titolo V della Costituzione italiana riservando allo Stato centrale esclusivamente la tutela del patrimonio e introducendo il concetto di potere legislativo concorrente tra Stato e Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali. Questo provvedimento, infatti, ha creato una distinzione tra tutela e valorizzazione difficile da identificare con precisione e ha incrementato la complessità del sistema attraverso il coinvolgimento delle Regioni (non sempre pronte ad assumere nuove funzioni). Il nuovo impianto istituzionale e l’approvazione del nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio entrato in vigore nel maggio del 2004 (il cosiddetto Codice Urbani) ha innescato una sorta di tsunami sul MIBAC. Nell’arco di dieci anni, infatti, il Ministero è stato coinvolto in quattro significativi e complessi processi di cambiamento organizzativo che hanno interessato sia la struttura centrale del Ministero che la struttura periferica territoriale (ed un nuova riorganizzazione è alle porte).nLa situazione a livello periferico non è certo migliore e le difficoltà che incontrano gli enti locali (comuni in primis), nella gestione del proprio patrimonio sono pari se non peggiori rispetto a ciò che avviene a livello statale.

 

In questo quadro di grande difficoltà il taglio di risorse alla cultura ha rappresentato un ulteriore elemento di criticità che rischia di dare il colpo di grazia ad un sistema al limite del collasso. Secondo il Rapporto Federculture 2013, nel corso degli ultimi cinque anni il settore, a seguito della crisi, ha subìto un taglio di circa 1,3 miliardi di euro di risorse! In termini percentuali l’Italia spende solo lo 0,11% del suo PIL in cultura (25,4 euro per abitante), la Francia investe lo 0,24% (pari a 63,7 euro per abitante) e la Grecia lo 0,26% (50,7 euro per abitante). In particolare il MIBAC, nel corso degli ultimi dieci anni, ha perso il 27% delle risorse. In termini percentuali lo stanziamento per la cultura è pari allo 0,20% del bilancio dello Stato (nel 2003 era pari allo 0,35%). Anche a livello locale i tagli sono stati molto rilevanti; sempre secondo il rapporto Federculture, tra il 2008 ed il 2011 si è verificato un taglio del 27% delle spese per cultura da parte delle Province e del 13,3% da parte dei Comuni. Questo continuo ridimensionamento ha reso possibile la diminuzione delle spese correnti attraverso il blocco del turnover. Il personale del MIBAC è passato dalle 21.242 unità del 2009 alle 19.545 del 2011. Il blocco delle assunzioni ha impedito il passaggio di competenze e ha comportato un progressivo invecchiamento del personale (oggi l’età media è superiore ai 57 anni). I tagli, però, hanno colpito soprattutto le spese in conto capitale che nel periodo 2005-2009 sono calate del 65%. Il programma ordinario dei lavori pubblici finalizzato all’attività di tutela del patrimonio culturale che nel 2004 era pari a 201,1 milioni di euro si è ridimensionato del 76% e nel 2013 è pari a circa 47,6 milioni di euro! Le risorse programmate per gli interventi urgenti di tutela, nel 2013, sono calate del 58% rispetto al 2008. In pratica, le risorse impiegate per la manutenzione del nostro patrimonio sono quasi inesistenti.

 

Domus Aurea, crollo del 2010

 

Il progressivo arretramento dello Stato, unito al continuo cambiamento organizzativo, al blocco del turnover e ai pesanti tagli hanno creato un cocktail micidiale che ha impattato in modo molto negativo sull’intero apparato pubblico deputato alla gestione del patrimonio culturale ed ha favorito comportamenti difensivi. I funzionari delle sovrintendenze di fronte all’attacco concentrico hanno trovato nelle norme e nel rispetto formale il rifugio e l’arma di difesa per non soccombere. In questo quadro estremamente complesso e critico l’attenzione nei confronti del patrimonio diffuso e cosiddetto minore, per forza di cose, è molto limitato ed è difficile immaginare in prospettiva un’inversione di tendenza. Le difficoltà mostrate dal sistema pubblico nel tutelare e gestire il patrimonio culturale italiano rappresentano un fattore che alimenta la richiesta di un forte ricorso all’ingresso dei privati nella gestione dei beni culturali. Il modello privatistico viene da più parti considerato come la risposta più efficace di fronte alle inadeguatezze del sistema pubblico. Il ricorso al mercato viene proposto come la ricetta in grado di spazzare via l’inefficienza, la lentezza e la scarsa propensione all’innovazione che caratterizza il modello burocratico accentrato del ministero dei beni e delle attività culturali e degli enti pubblici che hanno la responsabilità del patrimonio.

 

Queste sollecitazioni hanno in parte trovato accoglimento attraverso una serie di importanti provvedimenti legislativi che hanno conferito ai soggetti pubblici la possibilità di esternalizzare, attraverso bandi pubblici, le cosiddette attività accessorie. Il codice Urbani e la riforma del titolo V della Costituzione, attraverso l’enfatizzazione della distinzione tra tutela e valorizzazione, hanno ulteriormente ampliato gli spazi per includere i privati nella gestione del patrimonio culturale. Questo processo di inclusione ha portato alla definizione di una serie di modelli incentrati sulle partnership pubblico private e sul ricorso alle Fondazioni come modello di gestione del patrimonio culturale. Non è nelle finalità di questo lavoro entrare nella diatriba che contrappone i fautori del modello pubblico con i propugnatori dell’ingresso dei privati. Quello che in questa sede ci interessa evidenziare è che il patrimonio cosiddetto minore e diffuso difficilmente interessa ad un operatore privato che valuta il suo coinvolgimento nella gestione esclusivamente in presenza di condizioni che rendono possibile la produzione di risorse necessarie per garantire il ritorno sull’investimento. Nel caso dei musei, ad esempio, la direzione generale per la valorizzazione del MIBAC distingue le strutture in tre classi: i grandi musei con presenze superiori a 800.000 visitatori, i musei medi con presenze comprese tra i 150.000 e gli 800.000 ed i piccoli musei con presenze superiori a 50.000 visitatori. Soltanto in presenza di tali flussi, infatti, i servizi accessori e le attività collaterali sono in grado di rendere sostenibile economicamente un museo. Ebbene, se riprendiamo i dati dell’ISTAT sui musei emerge che delle 3.847 strutture solo il 30% del totale è visitato da più di 10.000 visitatori, mentre solo nel 3,6% si superano i 100.000!

 

Questi dati, oltre che evidenziare le difficoltà del sistema museale italiano, denotano la scarsa appetibilità di tali strutture per operatori profit oriented. Il mercato degli operatori dei servizi museali italiani è prevalentemente concentrato sulle pochissime realtà dove un flusso consistente di visitatori rende conveniente l’attivazione di servizi accessori. L’attenzione di queste imprese quindi si focalizza prevalentemente sui cosiddetti grandi attrattori. Da questa fotografia emerge come la stragrande maggioranza del patrimonio museale diffuso e sparso sul territorio sia difficilmente gestibile dagli operatori privati che oggi erogano servizi museali. Analoghe perplessità sorgono in relazione alla possibilità che operatori culturali orientati al profitto possano gestire il patrimonio bibliotecario ed archivistico italiano. Il ricorso al privato for profit difficilmente, quindi, può essere considerata la risposta per la risoluzione del problema del patrimonio diffuso e abbandonato. L’inadeguatezza del modello pubblico e la non convenienza del modello privato for profit nella tutela e gestione del patrimonio culturale diffuso ha innescato in Italia l’attivazione di centinaia di associazioni che quotidianamente cercano di difendere il proprio patrimonio dall’abbandono e dall’incuria.

 

Diego della Valle, finanziatore del restauro del Colosseo

 

L’azione di questi cittadini, organizzati in associazioni, è finalizzata a tutelare siti archeologici, luoghi simbolici, chiese, aree protette, a garantire la fruibilità in alcune date dell’anno, a raccogliere fondi per garantire la manutenzione ordinaria minima. Questo movimento associativo evidenzia la presenza di una grande sensibilità e attenzione da parte dei cittadini nei confronti del proprio patrimonio culturale. Tantissimi sono ad esempio i gruppi archeologici territoriali e le associazioni ambientalistiche che si prendono cura dei siti, cosiddetti minori, per segnalare alle autorità preposte rischi di crolli, per promuovere la conoscenza e la fruizione di quei luoghi. Siamo in presenza di un fenomeno diffuso in tutto il paese che associa migliaia di persone, le quali operano anche grazie alla complicità benevola di chi ha la responsabilità istituzionale della tutela di quei luoghi, ma non ha le risorse per farlo. L’azione di queste associazioni, infatti, è spesso resa possibile da accordi formali ed informali tra queste micro organizzazioni e responsabili delle sovrintendenze o degli uffici comunali preposti. La rete che le associazioni costituiscono svolge un ruolo fondamentale, rappresenta una palestra per tantissimi appassionati ed esperti di tutela e gestione del patrimonio e, come si è detto, segnala la presenza di un amore ed una cura nei confronti delle proprio radici culturali. All’interno di questa galassia associativa spiccano alcune realtà più grandi e strutturate come il Fondo Ambiente Italiano (FAI) che ispirandosi all’azione del National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty, promuove una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia e tutela un patrimonio che è parte fondamentale delle nostre radici e della nostra identità.

 

L’azione di questa galassia di grandi e piccole associazioni e fondazioni è fondamentale e preziosa; però, da sola, non è in grado di dare una risposta efficace al problema del patrimonio abbandonato. L’abnegazione e l’impegno di tanti cittadini è importante ma non è in grado di ridare vita in modo sistematico al patrimonio abbandonato. Il ricorso esclusivo al volontariato, l’incapacità di garantire un modello di microsostenibilità economica rende queste esperienze, soprattutto quelle più piccole, episodiche e incapaci di far fronte alle spese necessarie per assicurare almeno la manutenzione ordinaria dei siti. Ma allora se il modello pubblico non è in grado di occuparsi di un patrimonio così esteso e diffuso, se i privati for profit non ritrovano le condizioni di convenienza economica per prenderlo in carico e il mondo associativo è in grado esclusivamente di promuovere una sensibilità culturale ma non di risolvere il problema, rimane la domanda: chi si occupa del patrimonio dimenticato?

 

Estratto da Sud innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale e nuova cittadinanza, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano, Franco Angeli, 2015

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