Caso Federico Aldrovandi: condotte post-factum
L'uomo fa molto più di ciò che può o deve sopportare. E così finisce col credere di poter sopportare qualunque cosa. E questo è il terribile. Che possa sopportare qualunque cosa, qualunque cosa.
William Faulkner, Luce d’Agosto
Le parole del diritto hanno un peso, e necessitano che quel peso sia fatto valere negli spazi politici, nelle azioni degli individui, siano essi singoli cittadini o pubblici ufficiali, soprattutto se si tratta di questi ultimi, che, nell’esercizio delle loro funzioni, sono i corpi, le braccia, le mani dello Stato.
29 aprile 2014, Rimini, Congresso del SAP, il sindacato autonomo di polizia. Sono presenti tre dei quattro agenti reintegrati in servizio dopo il processo Aldrovandi. Dopo aver parlato delle vittime di mafia, del terrorismo, si tocca anche la loro vicenda, e parte un lungo applauso di cinque minuti, l’applauso di “solidarietà umana”, di conforto, di sostegno. Un applauso cameratesco, poiché s’indossa la stessa divisa. Il portavoce Massimo Montebove ha così commentato: “Il SAP ha sempre sostenuto i colleghi. Abbiamo chiesto un mese fa un giudizio di revisione, senza fare troppe cagnare. Sosteniamo in punta di diritto che anche loro abbiano diritto a un giusto processo”.
26 Marzo 2013, Ferrara. Un altro sindacato di polizia, il Coisp, sfila sotto le finestre del Comune, dove lavora Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, con il cartello: “La legge non è uguale per tutti. I poliziotti in carcere, i criminali a casa. Solidarietà, amicizia, speranza, affetto per Luca, Paolo, Monica, Enzo”. Patrizia Moretti scende in strada, e srotola l’immagine del figlio diciottenne ucciso.
25 Giugno 2012. Sulle pagine Facebook del gruppo “Prima difesa” che conta oltre 1300 iscritti della Polizia di Stato ai tempi della pubblicazione, sono postati i commenti di Paolo Forlani, uno dei quattro condannati a tre anni e sei mesi: “Che faccia da culo aveva sul tg, una falsa e ipocrita, spero che i soldi che ha avuto ingiustamente (2 milioni di euro, risarciti dal ministero degli interni) possa non goderseli come vorrebbe”. A questo commento ne seguono altri, che appellano la signora Moretti “faccia da culo” e “madre di cucciolo di maiale”.
Il processo per la morte di Federico Aldrovandi inizia il 6 luglio 2009 e si conclude il 21 giugno 2012 con la sentenza di Cassazione che conferma le condanne per omicidio colposo a Pontani, Pollastri, Forlani e Segatto. La pena è di 3 anni e sei mesi. I tre anni possono essere sospesi grazie all’indulto, sui sei mesi, nonostante la richiesta di misura alternativa, l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza ha deciso per la restrizione.
25 Settembre 2005, Ferrara. Federico Aldrovandi, di anni 18, muore in Via dell’Ippodromo. La ricostruzione fatta in sede processuale, la verità di Stato, racconta che “trovandosi la mattina del 25.9.2005, da solo, all'alba, in stato di agitazione psicofisica, probabilmente conseguito all'uso di sostanze [...] avendo accennato all'indirizzo dei quattro poliziotti una mossa di karate (sforbiciata andata a vuoto), veniva affrontato dai quattro odierni condannati, insieme, armati di manganelli [...], mediante pesantissimo uso di violenza personale. Il giovane veniva, in definitiva, percosso in diverse parti del corpo, proseguendo i quattro agenti la loro azione congiunta, anche quando il ragazzo (appena diciottenne) era ormai a terra, e nonostante le sue invocazioni di aiuto ("... basta...aiutatemi..."); fino a sovrastarlo letteralmente di botte (ed anche a calci) e con il peso del proprio corpo, ed in definitiva esercitando materialmente una tale pressione sul tronco del ragazzo [...] da provocarne uno stato prolungato di ipossia posizionale e lo schiacciamento del cuore [...] fino a provocarne in definitiva la morte». «...l'abbiamo bastonato di brutto per mezz'ora», comunicava infine alla Centrale di polizia proprio il condannato che richiede la concessione del beneficio penitenziario”. (Ordinanza 1201/2013 Trib. di Sorveglianza di Bologna che riprende le precedenti sentenze del Tribunale di Ferrara e della Corte d’Appello di Bologna).
Coraggio è una parola ricorrente in una delle vicende più scabrose della storia recente. Le parole soffocano, perché la rabbia è tanta, e lo schifo pure. Per la vicenda umana, e per la questione pubblica, per la dignità dei morti, dei vivi, e delle istituzioni. Coraggio deriva da coraticum, “cuore”. Sono molte le persone che hanno avuto cuore e al contempo hanno avuto a cuore quello che lo Stato non era in grado di proteggere.
Si è parlato molto del coraggio di Patrizia Moretti, non solamente per aver sopportato la perdita ingiusta di un figlio. Le mamme -o le sorelle, le mogli- devono essere coraggiose, come a teatro. La mamma di Federico Aldrovandi ha deciso di non accettare l’esito dell’autopsia che riconduceva la morte del figlio ad uno shock dovuto all’assunzione di sostanze psicotrope, e grazie ad un blog, ad associazioni, avvocati, e altre famiglie ha sopportato nove anni di processi, umiliazioni continue, depistaggi (oggetto di giudizio nel processo Aldrovandi Bis). Patrizia Moretti ha ottenuto, anche grazie al proprio slancio individuale, una sentenza di condanna, confermata nei tre gradi di giudizio. Non per mera questione di giustizia, ma di coraggio. Si tratta di quello stesso coraggio dimostrato da Ilaria Cucchi, di Lucia Uva e dalle molte famiglie impegnate nei processi contro gli abusi in divisa.
Coraggiosi sono stati i magistrati del tribunale di Sorveglianza di Bologna, che hanno cercato di riempire i vuoti politici e giuridici della vicenda.
Sul piano giuridico, il Tribunale nell’ordinanza sulle misure alternative ha fatto un chiaro richiamo alla lacuna dell’ordinamento italiano che non prevede il reato di tortura, appellandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e a quei trattamenti inumani e degradanti vietati.
Anche sul piano politico i giudici hanno cercato di riempire un vuoto, mettendo in guardia rispetto ai quei comportamenti post factum, considerato che: “la già evidenziata mancanza di comprensione della gravità della condotta, sia pure attinente a delitto colposo, pur tuttavia realizzato mediante il pesantissimo –fino alle estreme conseguenze- uso di mezzi di violenza personale, ad opera di 4 servitori dello Stato contro un ragazzo, solo, disarmato ed in stato di agitazione confusionale, e la totale assenza di segnali atti ad indicare una presa di distanza critica dalla stessa, appaiono elementi rilevanti di valutazione, ora come allora, trattandosi di una vicenda [...] che sottende una sorta di cultura della violenza, tanto più grave ed inescusabile, in quanto da parte di appartenenti alla Polizia di Stato, organo preposto in prima battuta alla tutela dei cittadini; vicenda che pertanto esige, almeno ora, una battuta di arresto per una matura e consapevole riflessione, onde evitare il rafforzamento di siffatta nefasta cultura e la ricaduta, alla prima occasione, in analoghe vicende delittuose, sia pure eventualmente anche solo di copertura di analoghi fatti criminosi commessi da altri, purtroppo, sebbene pur sempre isolati, neanche tanto rari».
Le parole del diritto scritte nelle pagine, nei faldoni dei tribunali dell’Emilia-Romagna, quei tre gradi di giudizio, più l’esecuzione penale, non sono bastati per due sindacati di agenti, che per responsabilità collettive dei quattro poliziotti (si parla di concorso di colpa nelle sentenze) per evitare di anno in anno esternazioni pubbliche collettive, contro quel diritto, contro quello Stato, e soprattutto, contro il dolore di quella famiglia.
Se Patrizia Moretti non fosse stata una donna coraggiosa, cosa ne sarebbe stata di questa vicenda? Se non avesse avuto i mezzi emotivi, culturali ed economici (perché i processi hanno un costo, ingente) per decidere di affrontare questi nove anni, cosa sarebbe successo? Perché lo Stato ha preferito negli anni proteggere le forme e le distorsioni della propria sovranità, quelle pratiche nocive, anziché tutelare il lavoro di tutti gli altri agenti, che escono umiliati anch’essi da quegli applausi?
Quando parlo di protezione, penso al fatto che di fronte ad una morte alla presenza di forze dell’Ordine, dovrebbe essere automatica l’inchiesta interna. Penso che il garantismo, il principio di legalità nei confronti degli agenti di Stato dovrebbe essere ancora più forte, più rigoroso e intransigente perché la violazione è doppia: si lede il “corpo del re”, il corpo della democrazia viene ferito con ogni gesto che sospende i diritti.
Non si può demandare al coraggio e al cuore dei singoli giudici e delle famiglie il compito di sradicare la cultura della violenza, di alzare scudi per difendersi e per ottenere verità e giustizia nei confronti degli abusi senza che ci sia un’unanime denuncia, e una risposta chiara, simbolica da parte di chi dovrà indagare, giudicare, legiferare su quegli abusi. Le istituzioni hanno risposto, è vero. La società civile ha reagito. L’indignazione è salita, dalla cronaca locale e di movimento sino alle prime pagine dei quotidiani. Sarà che la lista degli abusi si è allungata in questi anni. Vale, rincuora, ma non bastano le telefonate di solidarietà del presidente della Repubblica, del Consiglio, o del Capo della Polizia Pansa. Non credo siano sufficienti le scuse, la compassione privata e istituzionale. Perché il limite è stato passato e calpestato molte volte. L’America di Faulkner è e deve rimanere lontana. Non si può accettare e sopportare qualunque cosa.
Le parole del diritto non soddisfano e non sono state efficaci. A me non bastano, non bastano alle famiglie, non bastano alla nostra democrazia. Quegli applausi lo raccontano. Non bastano soprattutto perché l’idea di impunità è uno degli alibi che ha legittimato e continua a supportare queste pratiche. La pressione mediatica non ha impedito che ci fosse un nuovo caso Magherini, ancora in corso di accertamento.
Servono dei gesti chiari, politici ancorché giuridici, che per una volta abbiano ritorni reali: velocizzare l’iter legislativo per l’introduzione del reato di tortura; rendere obbligatorio il numero identificativo sui caschi e sulle divise degli agenti, aumentare la formazione dei poliziotti. La responsabilità penale è individuale, e se sono i singoli agenti ad agire come distorsioni, anomalie democratiche, devono poter essere allontanati, nell’interesse della polizia, dei cittadini, dello Stato.
Questo non impedirà che ci siano agenti violenti. Questo non fermerà gli abusi. Non porterà al pentimento dei torturatori, o dei loro sostenitori. Renderà i processi più semplici da celebrare, le prove meno insabbiate, le istituzioni più rispettate, la democrazia meno agonizzante, e forse permetterà di superare i lutti in privato, senza dover riaprire ciclicamente ferite che faticosamente si cerca di rimarginare. Non serve coraggio, basta un piccolo sforzo per dare nuovamente alle parole del diritto un significato e un valore. Politico, quello sì, nel senso più nobile del termine.
“Volevo che tu imparassi una cosa da lei: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta si vince”
Harper Lee, Il buio oltre la siepe.