La biografia aggiornata di G. Beahm / Stephen King, vita e opere del re del terrore

2 Marzo 2022

La fortuna di scrivere di Stephen King è che non bisogna scomodarsi a spiegare chi è. Pochi scrittori hanno avuto l’impatto che ha avuto King nel ventesimo secolo, un impatto che non si misura soltanto nella quantità di libri venduti, ma nella pervasività dell’immaginario che ha creato, replicata in innumerevoli trasposizioni cinematografiche e televisive. Jeffrey Deaver e Tom Clancy avranno pure venduto come King, ma difficilmente hanno prodotto icone memorabili del terrore come Pennywise, né hanno creato ambientazioni o personaggi che sono diventati poco meno che figure del senso comune, come l’Overlook Hotel. 

 

King, come ogni bestsellerista (e forse anche come ogni scrittore), è un marchio, un brand: se diciamo King, ci immaginiamo una certa atmosfera, una placida cittadina del New England disturbata, prima a poco a poco e poi in un crescendo apocalittico, da mali innominabili. C’è anche, ovviamente, un personaggio King, la sua figura pubblica, che è quella che ci suscita immediata simpatia. Intorno al marchio e al personaggio King Mondadori pubblica Il grande libro di Stephen King. La vita e le opere del re del terrore di George Beahm, uscito per la prima volta nel 1989 e periodicamente riaggiornato. 

La parte più affascinante di questo libro è forse proprio quella dedicata all’uomo (o al personaggio) Stephen King. Per essere uno degli autori più venduti di tutti i tempi, King è sempre rimasto sorprendentemente modesto: nel vestire, nel comportarsi, nel relazionarsi col suo pubblico; continua a scrivere non perché deve pagarsi una nuova piscina, ma perché gli piace, perché ha storie da raccontare; continua a promuovere, ogni volta che può, l’opera di colleghi in erba e non. King sembra, in fondo, una brava persona: che è molto più di quanto si possa dire della maggior parte degli scrittori. Per esempio, dice di lui Maurice DeWalt, direttore di una delle primissime riviste dove King ha pubblicato un racconto:

 

Nel 1977 era diventato un autore famoso in tutto il mondo, eppure rimaneva sempre lo stesso uomo che era sempre stato, gentile, affettuoso, attento, e nonostante ci siamo persi di vista, sono certo che mi risponderebbe subito se gli scrivessi. Credo che la sua mancanza di egocentrismo sia ciò che rende i suoi libri così meravigliosamente credibili per il pubblico. Trovo un po’ buffo, anzi mi intenerisce, che esprima ancora gratitudine nei nostri confronti per avergli dato l’opportunità di pubblicare. D’altro canto anch’io sono grato di aver potuto lavorare gomito a gomito con un genio e di aver letto il mio nome in alcune delle sue prefazioni o nei ringraziamenti.

 

In questo senso, verrebbe da dire, King è l’anti-Lovecraft. Se HPL è stato poco riconosciuto in vita, e tutto sommato anche poco prolifico, King è lo scrittore che ce l’ha fatta, che si è arricchito, che ha catturato l’immaginazione di milioni di lettori e lo ha fatto mentre era vivo, potendosi godere i frutti del proprio lavoro. È difficile immaginare Lovecraft felice, così come è difficile non immaginarsi King allegro. 

Questo, vale la pena dirlo subito, è un libro per fan. Lo è nel bene, perché si tratta veramente di un omnibus a all things Stephen King, splendidamente illustrato e con una ricchissima messe di fonti di prima mano. Il libro contiene retroscena di praticamente ogni aspetto della vita di King, dettagli sulla sua infanzia e sulle sue prime pubblicazioni, sulla casa in cui vive, la musica che ascolta e suona, oltre a numerose interviste a amici, colleghi, collaboratori, o anche solo ad altri studiosi e appassionati. Lo è anche nel male, tuttavia, nella misura in cui l’entusiasmo supera ampiamente le capacità critiche dell’autore, e la tendenza a incensare King come un grande scrittore è molto maggiore della capacità di George Beahm di metterne in luce anche i limiti e i difetti. Non è che sia un problema parlare bene di King, ovviamente: ma le agiografie sono un genere un po’ fuori moda. 

 

 

Anche la cura editoriale dell’edizione italiana del volume, purtroppo, lascia a desiderare – spesso e volentieri i titoli di King non sono corsivati, e la traduzione è, a essere generosi, rugginosa, letterale, da cattivo doppiaggio cinematografico, con la tendenza a non tradurre certe espressioni (a pagina 112, King si lamenta di non poter più mangiare “doughnut” perché la moglie lavorava da Dunkin’ Donuts e gli sono venute a nausea: ma perché non dire “ciambella”?). Un fan di King non avrà problemi a passare sopra a queste pecche, ma non si può negare che l’esperienza di lettura sia costellata da piccole irritazioni.

 

Eppure, anche per chi non è un fan ma un lettore occasionale, non fa male interfacciarsi con la bio-bibliografia di King, che lascia sempre senza parole. Al netto delle prime vicissitudini biografiche (le origini povere, l’assenza del padre, le difficoltà economiche dopo la laurea, la dipendenza da alcol e cocaina), fa impressione vedere la quantità di capolavori che King inanella nel giro di pochissimi anni. In poco più di un decennio, King pubblica (tra le altre cose!) Carrie (1974), ‘Salem’s Lot (1975), The Shining (1977), The Stand (1978), Pet Sematary (1983) e It (1986) (non che la produzione successiva di King sia inferiore: da Insomnia a The Girl Who Loved Tom Gordon a Revival, King ha scritto e continua a scrivere libri di altissimo livello). Non si tratta soltanto di grandi libri (perché lo sono), ma di romanzi che hanno ridefinito, in un modo o nell’altro, l’intero immaginario horror del ventesimo secolo. Certe cose, prima di King, non si potevano scrivere, o perlomeno non in quel modo; l’orrore non esisteva nel qui e ora nella maniera in cui esiste nell’opera kinghiana. 

 

La straordinaria innovazione di King, infatti, sta nella sua combinazione di realismo e soprannaturalismo, di attenzione al dettaglio mimetico e incorporazione della grande tradizione gotica e weird. La pagina di King prende vita sotto gli occhi del lettore; i dettagli (le marche, i tic, gli accenti) non sono mai ornamentali, come accade spesso invece nella letteratura di genere, ma confluiscono naturalmente nella storia e nelle vicende soprannaturali. I romanzi di King combinano introspezione psicologica e sviluppo del personaggio a racconti corali e atmosferici, il tutto unito da grandiose intuizioni orrorifiche, l’ispirazione per le quali pesca a piene mani da una miriade di modelli che vanno dal gotico classico di Walpole e Stoker, ai racconti di Lovecraft e Matheson, fino ai fumetti pulp e ai mostri cinematografici. King è sempre molto attento a riconoscere la varietà delle sue influenze, come scrive nell’introduzione a ‘Salem’s Lot, così come non manca mai di sottolineare l’ampiezza delle sue ambizioni letterarie: 

 

Una delle idee che avevo in quei tempi spensierati era che fosse perfettamente possibile mettere insieme il mito del signore vampiro da Dracula di Bram Stoker con la narrativa naturalistica di Frank Norris e i fumetti dell’orrore dell’EC e venirsene fuori con il Grande Romanzo Americano. Avevo ventitré anni, ricordate, quindi siate clementi. […] Ero davvero convinto che avrei potuto combinare Dracula e Tales from the Crypt e tirarne fuori Moby Dick? Lo ero. Lo ero davvero. 

 

Si dice spesso che King sia un grande scrittore che scrive male, ovvero che sia un grande narratore e un pessimo prosatore. Non è così – narratore King lo è certamente e tra i migliori, e il suo orecchio per la prosa e per il ritmo, specialmente nei dialoghi, è innegabile. Quello che si può dire di King è che sia troppo: non solo per il numero di opere, ma anche per la lunghezza delle stesse. King è il classico scrittore che se è indeciso tra due opzioni le tiene entrambe. Anche nei romanzi meglio riusciti di King, certe scene, certe peripezie (specialmente quelle risolutive) si dilatano all’inverosimile. È fuori di dubbio che uno scrittore più elegante le avrebbe evitate, così come avrebbe evitato, in It, immagini banali come quella del pagliaccio assassino o ridicole come quella della tartaruga; ma uno scrittore più elegante non sarebbe Stephen King. Idee e soluzioni che in un altro scrittore cadrebbero morte appena uscite dalla penna in King, magicamente, funzionano; e un libro come It appunto si tiene insieme a dispetto delle sue singole, improbabili parti, a dispetto delle sue lungaggini, a dispetto della prosa povera ma efficace del suo autore. In questo, King è un grande scrittore – uno che non ti fa mai vedere o pesare il lavoro dietro il suo scrivere.

 

Anche il libro di Beahm è tanto: lungo, prolisso, a volte caotico – si dilunga per pagine e pagine su un amico d’infanzia o una conoscenza saltuaria di King, ma poi ne dedica solo due a Pet Sematary. Del resto, non sarebbe stato possibile diversamente, con uno dei grandi mitografi della letteratura contemporanea. Imbrigliare l’intero immaginario kinghiano tra due copertine è impossibile, ma offrirne una mappa, e svelare i retroscena dell’artista al lavoro, sì; ed è quello che fa questo libro. 

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