Il controllo meditato della ferocia
Giallo per alcuni, per altri noir, ma pure un «fenomeno» di cui «anche la televisione si è accorta». Insomma un romanzo, che in due mesi e qualche giorno ha raggiunto la quinta edizione suscitando grande attenzione da parte della critica oltre che del pubblico.
In un’intervista all’autore, Giuseppe Zucco ha giustamente visto «aggirarsi» ne La ferocia (Einaudi, 420 pagine, € 19,50) «il fantasma» di George Trakl, poeta morto suicida a ventisette anni il 3 novembre 1914. Che il riferimento è per niente casuale lo si comprende ricordando la relazione incestuosa, d’amore, dell’austriaco con la sorella Grete (anche lei suicida), che si ripete in quella dei due protagonisti, Michele e Clara (sorellastra da parte di padre), la cui misteriosa, seducente morte apre il romanzo.
Una conferma esterna arriva dall’articolo che Lagioia ha pubblicato sul sito di Internazionale a cento anni dalla scomparsa del poeta: «Il momento più alto della poesia di Trakl», scrive commentando un paesaggio falsamente idilliaco, «è farci sentire […] la sensazione che quel paesaggio […] lo stia guardando dal futuro».
Il futuro, o meglio la prefigurazione del futuro, è un motivo ricorrente e forse addirittura il tema del romanzo, se lo si pensa come l’altra faccia del sentimento di ferocia, o una sua conseguenza, un potere acquisito cadute le umane tentazioni di pietà e indulgenza.
«La predizione è molto ardua, soprattutto se riguarda il futuro» (Niels Bohr – esergo del romanzo).
Ma quando è esatta, oltre che ardua, si rivela devastante…
1971. Vittorio Salvemini, padre, imprenditore edile, ha appena acquistato una lussuosa villa a Bari. Sul retro del giardino fa bruciare ai suoi operai alcuni mobili che non vuole conservare. Il fumo del falò va a coprire i campi del confinante circolo sportivo. Presentandosi al direttore per farsi perdonare a colpi di Champagne, «Vittorio pronunciò nome e cognome sperando che l’uomo fosse in grado di guardarli dal futuro». Il direttore, sprezzante, lo rimette al suo posto – nel giro di pochi anni Vittorio avvererà la propria predizione, diventando il capo di una delle più ricche e potenti famiglie pugliesi.
Da neonata, Clara non piangeva: «strepitava […] come l’avessero separata da qualcuno di fondamentale, o meglio come attendesse un gigantesco evento incastonato nel futuro che solo lei percepiva». Nelle prime pagine è descritta come «quieta e taciturna fino a tredici anni. Logica senza pedanteria a quattordici. Magnetica a sedici […]. Un idolo maya il cui tocco scatena visioni dal futuro». Un giorno, «Vittorio se la vede spuntare dal buio del corridoio. Camicia a quadroni e Wrangler neri. Ma è simile a uno spettro, una presenza proveniente da un disastro futuro».
Michele, invece: dal punto di vista di Pietro Giannelli, suo amico ed ex fidanzato della sorella, «sembrava prigioniero di un futuro da cui cercava di tornare».
Al telefono con Clara, un giorno spiega ciò «che non funziona»: «Se ieri ero stato così bene nel passato, oggi è come se ci fossi rimasto intrappolato. Come guardassi al me stesso di ora da laggiù […] mi sono domandato se all’epoca in cui sembrava che fossi in grado di viaggiare nel futuro non stessi in fondo già qui. Come se fosse accaduto tutto solo ieri».
«Sempre per telefono, Michele le aveva fatto uno strano discorso secondo il quale, pur essendo buttati giù nero su bianco, quei concetti lui li stava elaborando dal futuro».
«Quei concetti» fanno riferimento a un articolo su Trakl scritto da Michele durante il servizio militare: un’esperienza (la naja) che separando lui da Clara romperà irrimediabilmente la falsa quiete dell’universo famigliare. Il giorno prima della partenza, nella sua stanza, «la lingua non tradotta del futuro imminente gonfia le pareti».
L’evento, il terzo di una sequenza dialettica rovesciata, cambierà per sempre Clara, la allontanerà da lui e da lui, allo stesso tempo, la renderà non più separabile; la condurrà lentamente verso la distruzione, in tacita corrispondenza agli esiti di un secondo evento, cioè la sua partenza stavolta, avvenuta qualche tempo prima, per un periodo scolastico sostitutivo a Eastbourne, Inghilterra, che lacera Michele e lo rende irriconoscibile perché da quel momento, seppure intero all’esterno, rimane scisso all’interno, dimezzato, mezzo perduto in sé e mezzo anelante lei, Clara.
Nel tempo nuovo, dopo la frattura, il mondo di Michele smette di esser fatto di oggetti e persone: è fatto «di presenze». Dopo la morte della sorella, ripensando ai momenti vissuti insieme, lui non ricorda lei: è lei che ritorna attraverso lui. «Io e lui sprigionavamo l’energia dei morti. In un futuro inaccessibile ma certo quanto la spiga di un seme già interrato, Clara sentiva che Michele […] le avrebbe dato voce».
Talvolta, addirittura, rompendo il tempo remoto, spuntano nella narrazione i commenti di una prima persona presente, sintesi di lei e lui, parlante al maschile all’inizio e al femminile alla fine, come a dividere il romanzo in due metà oltre la tripartizione indicata dall’indice.
Poi, quando alla fine del romanzo Michele interroga l’ex medico legale sulla morte di Clara, dà «fondo a tutto il suo dolore, che era anche la sua forza, per estrarre dalle profondità la viva figura della sorella, cioè il più bel ricordo che aveva di lei, tenuto in piedi dal più bel ricordo che aveva di se stesso, in modo che non uno ma due morti parlassero dentro la sua bocca. Fratellino e sorellina. Questo, era sconcertante. Vederli avanzare sulla curva del tempo. Scaraventati in un futuro che non avevano previsto».
Il primo evento, sopra citato, è l’avvicinamento di Clara a Michele quando ancora sono ragazzi. Lui è figlio di un’altra madre, in casa tutti lo sanno, ma la verità è innominata perché già detta da ogni gesto dei genitori, dalla scelta di elargire lusso ed eccellenza ai tre legittimi (con Clara Ruggero, il maggiore, e la piccola Gioia) e negarli al bastardo. A generare in Clara l’istinto all’amore per l’estraneo è forse la classica ribellione adolescenziale ai genitori e in particolare l’odio per il padre, del resto comune a tutti i famigliari. Comunque sia è attraverso l’innocenza di quell’amore che le colpe del padre ricadute sui figli col peso del dolore torneranno infine al mittente sotto forma di feroce futura distruzione, di cui quella materiale e passata (l’incendio appiccato nella villa da Michele in gioventù) si rivela solo un’inquietante premonizione: «Dopo essersene stato nascosto tanto tempo, iniziò a prendere forma. A Michele sembrava finalmente di vederlo. Il futuro. Splendido e feroce».
Lagioia scrive «finalmente», ma Michele già da sempre «vede il futuro nel passato», come quando spedisce «i fogli» alla sorella, incaricata di farli pubblicare per conto suo. Siamo tornati all’articolo su Trakl.
Il continuo riferimento al poeta poggia su un secondo piano di analogie, ora di ordine formale. Nella Nota linguistica a una scelta di liriche pubblicate nel 1991 dalla Salerno editrice, Pietro Tripodo cita Ervino Pocar quando «parla di “sequenza cinematografica di didascalie”, del “susseguirsi di quadri o vedute isolate, senza un visibile nesso tra loro”, o di “allineamento di scene coordinate, senza il passaggio dall’una all’altra”». All’irrelazione tra le singole parti corrisponde – nella lettura di Heidegger – una relazionalità d’insieme, tanto che il filosofo parla di Trakl come del «poeta di un unico poema».
In modo analogo, La ferocia propone una sequenza di scene apparentemente scoordinate, che si susseguono talvolta senza stacchi grafici, e mischiano luoghi e invertono tempi, rispettando l’unico ordine delle corrispondenze interne, siano protagonisti i personaggi o l’onnipresente, trakliana luna, o ancora gli animali e gli insetti, in virtù di un isomorfismo né benevolo né malvagio, solo necessario, tra macro e microcosmo, e tra natura e psiche, simile a ciò che mostra Lars von Trier nel suo film Melancholia (2011).
Questo isomorfismo è evidente in molti passaggi descrittivi del romanzo, dal «filo invisibile della luna», che tiene le falene attaccate all’aria, al «filo che […] legava a Roma» l’ex proprietario della villa poi finita in mano a Salvemini, o al «confondersi di terra e cielo al di là degli alberi» che si rivela a Vittorio dopo la morte di Clara: «da potenziale il meccanismo si era fatto attivo […]. Un universo la cui espansione – vera e inconsapevole nel tessuto del mondo […] – era la più vistosa manifestazione del concetto di rovina davanti a cui si fosse mai trovato».
Se molte descrizioni, come molte atmosfere, fanno pensare a delle sequenze cinematografiche, allo stesso modo del Trakl di Pocar, la struttura complessiva del romanzo dà invece l’idea di un lavoro pittorico seguito nel suo farsi. I primi tratti, fissati su una parte e poi sull’altra della tela, non permettono di intuire il disegno finale. L’impegno procede attraverso definizioni progressive di forme, cancellature, sovrapposizioni di materia che in alcune zone sarà grattata via, lasciando scorgere sullo sfondo figure che prima non erano visibili.
Al di là dell’allegoria, lo strumento d’azione è una lingua che molti hanno detto essere «controllatissima» e certo è molto lavorata, meditata, spesso precisa e pulita, e che altrettanto spesso cede a metafore o perifrasi eccedenti la domanda espressiva della pagina.
Gli stessi, vaghi «molti» hanno evocato per La ferocia «il grande romanzo italiano». Non si capisce bene cosa vogliano dire. Ma la domanda rimane. Che libro è, questo? È un «libro che costruisce un mondo – il nostro», come recita la sua quarta?
È un buon romanzo, tanto per cominciare: non poca cosa di questi tempi (e da queste parti). Ben pensato, ben scritto, ben costruito e giustamente molto letto, finora, perché forse non entusiasmerà tutti senza riserve, ma è piacevole e convincente, almeno per quel lettore «talmente certo della sua fetta di fortuna» – parafrasando il finale – da scivolare «nel sonno e nell’equivoco senza rendersene conto».