Teatro popolare d’arte Pirozzi-Civica / Ladri di poesia

16 Marzo 2017

Seduto su una sedia, al lato corto di un tavolo bianco, di profilo rispetto al pubblico, l’intero corpo di Luca Zacchini è concentrato in una tensione che culmina in quel braccio pendulo e in quella mano chiusa attorno a un coltello a serramanico: lo impugna con la calma vigile, insonne, di chi può, e soprattutto sa, sferrare il colpo. Seduto al centro del lato lungo, davanti al pubblico, come in aula d’esame, Alberto Astorri non lo guarda, china la testa su un quadernetto aperto e scrive. Scrive senza finzione, con la fatica e la scomodità di chi è consapevole di fare qualcosa di impossibile: scrivere in presenza di un altro, qui e ora, non un testo che evoca o rappresenta, che ricorda o proietta, ma poche parole, qualche verso, magicamente destinato alla salvezza. 

 

È un’azione, come quella di puntare un coltello alla gola di un altro, da cui tutto, dopo una breve antifona, precipitosamente si è aperto sulla scena di Un quaderno per l'inverno, la pièce di Armando Pirozzi allestita – ma la parola giusta sarebbe preparata – da Massimiliano Civica al Fabbricone di Prato. Si chiama, o forse un tempo si chiamava, poesia. Ma la sua invisibile flagranza – vediamo che il professor Velonà sta scrivendo, ma non sappiamo, né mai sapremo che cosa scrive – non è diversa dalla fragranza di agrumi che si spande per la sala, raggiungendo le prime file del pubblico, quando Nino, il ladro interpretato da Zacchini, spreme con forsennata energia delle arance per poi versarne il liquido in due bicchieri che vengono trangugiati in un sorso (se uno spettatore ha sete, è probabile che lo scopra in quel momento, sentendo – guardando, fiutando – la rassomiglianza sempre perturbante che, attraverso i sensi, lega la scena alla vita, l’immaginario al reale).

 

Ph Duccio Burberi. 

 

Difficilmente si sta a teatro pensando che la normalità non è che qualcosa accada, ma invece che non accada affatto, ed è questa la sorpresa, il miracolo discreto di Un quaderno per l’inverno: chiuso come un’apparizione tra due bui, lo spettacolo di Civica ha la straniante semplicità di un fatto che cade nell’epoca in cui – scrivono i giornali – non ci sono più fatti, bensì umori, pregiudizi, interpretazioni. Solo che è un fatto irreale, deposto anche dall’ultimo possibile feticcio di realtà, che sarebbe quella del suo illusionismo: tutto ciò che del mondo rimane sulla scena di Civica sono un tavolo dipinto di bianco – che è anche uno scrigno da cui escono e in cui si dileguano gli oggetti – e due uomini scontornati dalla luce che sembrano spinti in avanti dal vuoto ispessito di ombre costantemente spalancato alle loro spalle. Due uomini in bilico sull’insignificanza presi nella tagliola di una vicenda lunare: trovare un ladro in casa è un’eventualità comune, un ladro che viene a restituire qualcosa è già più raro, se poi quel qualcosa è una manciata di poesie segregate in un quaderno nero, scritte (e rifiutate) dal padrone di casa, che è un professore di letteratura, già si sente aleggiare l’ala di una provvidenza oscura o beffarda. Ma quando il ladro, che considera bellissime le poesie del professore, gli chiede di comporne ancora un’altra perché mentre le leggeva a sua moglie in coma ha notato in lei una “reazione”, ecco che la freccia del dramma, come direbbe George Steiner, punta in alto ma vola controvento. 

 

Ph Duccio Burberi. 

 

Pierre Réverdy (autore per altro di una raccolta di poemetti intitolata Il ladro di talento) diceva che la poesia nasce dall’unione delle due immagini più lontane tra loro. E due immagini, e due attori, più distanti tra loro di Luca Zacchini e Alberto Astorri forse non li si potrebbe immaginare: il primo, indossa i comodi, mimetici, panni del ladro come se fossero suoi da sempre – la variante di una poetica personale che alterna la tensione al controllo, la presenza all’alienazione; il secondo, al contrario, affonda magistralmente in un disagio che è come il completo che indossa, un po’ troppo lungo, con qualcosa di romanticamente sciatto che ricorda gli anni settanta. E difatti tra i due, è il professore a essere continuamente in fuga, da sé stesso, dalle relazioni, dalla vocazione non voluta della scrittura, mentre è il ladro con moglie e figli a credere nelle norme che trasgredisce e nel primato salvifico di una bellezza che sa riconoscere ma è incapace di creare. 

 

Da dentro a fuori Zacchini, il ladro moralista che nella costante apertura del presente gioca la sua possibilità di vivere e di amare, da fuori a dentro Astorri, il letterato nichilista che nel passato (poiché la scrittura è sempre un passato) rinchiude la propria ispirazione. Il punto di incontro sta sul filo teso di una relazione acrobatica che in una notte assediata dal lutto, passata a spremere agrumi, tocca la commovente bellezza che ha l’improbabile quando comunque accade nella nostra vita. Più che toccarla, a dire il vero, la sfiora in un bagliore, quando i due si addormentano seduti, con i gomiti appoggiati al tavolo e la testa tra le braccia, vinti, stremati, uniti da quella fraternità che secondo Peter Handke accomuna gli uomini stanchi. Straordinari, per aver dato corpo anche a quello che nel testo di Pirozzi non c’è, o per meglio dire, sospeso tra le parole, riempie i silenzi e le pause: l’invisibile presenza di una poesia che stagliata nell’aura del suo antico potere di parola che agisce e cambia – di parola magica – rivive soltanto nella fede o nella negazione (cioè in due negazioni) o altrimenti si incarna in poche, frugali righe di un semplicismo scoraggiante. “Non sono un poeta” come ripete quasi disperatamente il professore di Astorri (come spesso, e disperatamente, si ripetono i poeti). Straordinari, se soltanto la loro ostinata ricerca dell’essere non si proponesse anche come un’abdicazione del talento e, sera dopo sera, la fissità non dovesse cedere il passo a una nuova ignoranza e a nuova scommessa. 

 

Ph Duccio Burberi. 

 

Un quaderno per l’inverno, infatti, è un metronomo visibilmente accordato con il ritmo interno dello spettatore. André Gide, nei suoi Diari, diceva che l’unica, vera differenza tra lui e il suo gatto era che, se al posto del giardino fosse improvvisamente comparso l’oceano, lui ne sarebbe stato sconvolto, il suo gatto no. Ebbene è allo sguardo del gatto di Gide, alla sua traslucida organicità, che parla l’organica messa in scena di Massimiliano Civica, puntando in ogni sua parte a una specie di spegnimento dei significanti del teatro in una maestria anti-spettacolare che, saltando a piè pari il programma e il manifesto, entra nella diretta sperimentazione di quello che il regista ha a suo tempo definito un “teatro popolare d’arte”. Che è un teatro senza soglie, ma non senza differenza. Quello di Pirozzi è un apologo scritto con la stessa precisione trasognata che aveva dato voce ai dialoghi di Attraverso il furore (lo spettacolo che segnò il suo primo incontro con il teatro di Massimiliano Civica). Ma lo spettatore non farà in tempo a registrane tutte le risonanze, gli echi, le possibilità, perché, nel frattempo, l’azione lo avrà già trascinato fino all’ultimo buio. Se una miniatura o una vetrata medievale si muovessero, probabilmente produrrebbe lo stesso effetto. L’effetto: ci sono più cose in cielo e in terra di quante la nostra filosofia non riesca a contenerne. 

 

Ph Duccio Burberi. 

 

Un quaderno per l’inverno di Armando Pirozzi, regia di Massimiliano Civica, con Alberto Astorri e Luca Zacchini, costumi Daniela Salernitano, scene Luca Baldini, una produzione Teatro Metastasio di Prato con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello. In scena al teatro Fabbricone di Prato fino al 19 marzo

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