Ancco, “Ragazze cattive” / Memoria di notti buie e di strani odori

7 Settembre 2018

Quando pensiamo a una narrazione che si confronta con l'infanzia o l'adolescenza, e a maggior ragione se lo fa mettendo in campo il confronto tra quel momento (passato) e l'età adulta (il presente) non possiamo che richiamare alla mente il Bildungsroman. Nonostante le varie smentite storiche a questo paradigma, l'idea che esista un rapporto necessario e progressivo tra la fase adulta e ciò che la precede non è ancora, se non superata, neanche scalfita nell'immaginario dell'Occidente. Se i nostri rapporti con il futuro sembrano ormai interrotti, visto che nulla sembra più in grado di orientare un progetto, quelli con il passato vengono invece coltivati e idealizzati, come se la fiducia nel progresso si fosse totalmente ripiegata all'indietro, come se esistesse una linea di progressione necessaria, ma definibile solo a posteriori. 

 

 

La graphic novel di Ancco, Ragazze cattive, edita da Canicola, fa qualcosa di molto diverso. A raccontare la sua giovinezza è Chinju, alter-ego dell'autrice sudcoreana, fumettista adulta che, se si guarda indietro, ricorda “notti buie e strani odori”. Emergono così dei flash dolorosi, di violenza subita (dal padre, dagli insegnanti, dai vicini di casa, dai suoi partner sessuali) e perpetrata (sulle compagne di scuola più giovani). È l'affresco di una Corea nel pieno della crisi alla fine degli anni Novanta, interamente fondata sull'oppressione sistematica del più debole come unica forma di ordine sociale possibile. “Nonostante la violenza con cui mi picchiava, non ho mai odiato mio padre. In fondo qualsiasi padre l'avrebbe fatto”, commenta la Chunju adulta. Se da principio può sembrare un sintomo dell'interiorizzazione di un senso di colpa, proseguendo nella lettura siamo costretti a allontanarci da questa lettura psicologista, e a vedervi piuttosto la comprensione del carattere sistemico della violenza in mezzo a cui è cresciuta la protagonista. Una comprensione acquisita grazie alla distanza dai fatti avvenuti. Non è un caso se il titolo originale dell'opera non è Ragazze cattive bensì “Bad companies”, cattive compagnie.

 

La connotazione legata allo stigma individuale del titolo italiano è totalmente assente, e l'accento è posto sulla dimensione sociale e relazionale che è invece centrale nell'opera, che non parla solo dell'esperienza di Chinju ma della sua amicizia con Jeong-ae, ben più spregiudicata e, soprattutto, proveniente da un milieu affatto diverso da quello di Chinju. Se questa proviene da una famiglia piccolo-borghese, Jeong-ae cresce senza madre, con un padre disoccupato in una casa popolare che ospita una gamma di personaggi allo sbando. “Mi vergognavo della mia famiglia... così normale, così benestante”: è verso le difficoltà (e la libertà che ne deriva) di Jeong-ae che Chinju si sente in difetto, come dimostra il finale, in cui la rincontra adulta e non ha il coraggio di dirle nulla, vedendo che la sua vita è ancora “terribile”. Non c'è un senso di inadeguatezza verso i codici impostile dalla società o dalla sua famiglia, solo la consapevolezza del proprio privilegio, la coscienza dolorosa di essere una sopravvissuta, di aver tradito un patto di sorellanza.

 

La ribellione che mette in pratica con l'amica, fatta di sigarette fumate sfrontatamente, fughe da casa e fallimentari tentativi di prostituzione, è goffa ma ostinata, come il segno di Ancco. Meticoloso nella descrizione degli spazi asfittici e cupi che circondano i suoi personaggi sempre al centro delle inquadrature ma poco caratterizzati, con volti dai tratti naif ed espressionisti. Non è sulla psicologia dei suoi personaggi che Ancco intende soffermarsi, né sulla loro “crescita”. C'è uno scarto, un vuoto volutamente incolmato, come le pagine nere che separano i capitoli, tra la vita adulta di Chinju e la sua adolescenza turbolenta. Non ci viene raccontato (e non viene raccontato nemmeno a un'amica che glielo chiede esplicitamente) come sia riuscita a diventare fumettista, a “mettere la testa a posto”, cosa le abbia permesso di riuscire a ottenere una vita normale e non “terribile” come quella di Jeong-ae. Sappiamo che le due vengono da due contesti sociali diversi, ma questo determinismo sociale è l'unico plausibile motivo per i loro differenti destini. Non c'è nessuna decisione, nessuna evoluzione di Chinju che ci venga raccontata. 

 

È questa prossimità alla “gettatezza” dell'esperienza umana, per dirla con Heidegger, l'elemento più interessante del fumetto di Ancco. La capacità di guardare all'adolescenza come al momento di maggiore prossimità al proprio istinto, al proprio desiderio, non inteso come progetto ma come necessità – la necessità di fumare una sigaretta anche se si sa che questo comporterà l'ennesima aggressione – è qualcosa di raro, ed è proprio in questa fedeltà a se stessi, in questa ostinazione, che si può trovare il filo che unisce quell'adolescenza disastrosa a un presente fatto di consapevolezza politica, di libertà da quel passato e dal rancore che potrebbe giustificare.

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