Willa Cather. Pionieri
Sono in molti a sostenere che i grandi scrittori siano sempre – o quasi – dei provinciali. Di Willa Cather sappiamo essenzialmente due cose: che fece della vita nella frontiera americana, delle sue storie di immigrati e gente in cerca di fortuna il centro della sua opera narrativa, e che i suoi protagonisti più memorabili sono donne dal forte temperamento che non si lasciano abbattere dalla difficile vita nei nuovi insediamenti del Midwest alla fine dell’800.
Come ogni buon scrittore provinciale che si rispetti, restò sempre legata a Red Cloud, il villaggio del Nebraska in cui si trasferì bambina con la famiglia, scenario di un fallimento familiare (la fattoria non fu un successo, e la famiglia dovette abbandonarla) e allo stesso tempo rivelazione di un indistruttibile rapporto con la natura. I suoi personaggi sono spesso stranieri o comunque persone estranee al luogo che per qualche misteriosa ragione si legano alla terra a tal punto da fare del legame con essa – e della possibilità di domarla, di vivere dei suoi frutti – una vera ragione di vita.
Spesso sono donne, e c’è qualcosa di commovente e di estremamente partecipato nel modo in cui Cather racconta il coraggio femminile e l’ostinazione nel resistere a carestie e tempeste. L’opera di Cather ha resistito anche a chi voleva farne una bandiera lesbica o femminista; semmai è una scrittura “celibe”, che può ricordare la robustezza di voce di Flannery O’Connor o di Carson McCullers o, più sullo sfondo, Hawthorne e Melville, che certamente furono suoi modelli.
Questo Pionieri, appena tradotto da Nicola Manuppelli per Mattioli 1885, rappresenta l’esordio di Cather nel romanzo dopo qualche esperimento narrativo; il libro con cui finalmente, per usare la sua espressione, “imparai a camminare con le mie gambe”. La protagonista, Alexandra Bergson, è un’energica ragazza svedese trasferitasi con il padre nel Nebraska a coltivare la terra; il padre muore presto ma Alexandra decide di restare sulle terre appena acquistate nonostante i tempi siano duri e i due fratelli siano attratti dalla possibilità di una vita più facile in città. Il tempo le dà ragione, anche se il prezzo da pagare, in termini di sforzo, di perdite e di solitudine si rivela molto alto. Il fuoco della narrazione si sposta continuamente dalla protagonista alla terra: Alexandra non ha una vita, la sua vita è la terra; non è appassionante la vita degli uomini, lo è di più la vita della terra, i suoi cicli e i suoi umori. In questa prospettiva non antropocentrica, ciò che può apparire arido è fertile, ciò che sembra impersonale non lo è affatto, e i momenti più preziosi sono quelli banali in apparenza. Chi, a differenza di Alexandra, non sa perdere il suo orgoglio e l’assurda pretesa di avere il controllo della propria vita, è destinato a vedere i suoi sogni infrangersi e il suo destino assumere forme che non avrebbe mai immaginato.
Erano rimasti a lungo a guardare quell’uccello solitario che gioiva di essere vivo. Nessun essere vivente era mai sembrato ad Alexandra bello come quell’anatra selvatica. […] Anni dopo vedeva ancora quell’anatra nuotare e immergersi nella luce del sole, come se fosse un uccello magico che non conosce vecchiaia e cambiamenti.
La maggior parte dei bei ricordi di Alexandra erano impersonali come quello, eppure per lei erano molto personali. La sua mente era un libro bianco, dove in bella calligrafia erano scritte annotazioni sul tempo e sulle bestie e sulle cose che crescono. A non molte persone sarebbe interessato leggerlo, solo a pochi fortunati. Non era mai stata innamorata, non si era mai abbandonata a fantasticherie sentimentali. Fin da bambina aveva considerato gli uomini come compagni di lavoro. Era cresciuta in tempi difficili.