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Troppe parole / Cos’è il silenzio in una scuola?
Cos’è il silenzio in una scuola? Chi lo cerca, lo trova? Chi lo fa, lo sente? È condiviso?
Entro in classe. Saluto, mi siedo. Accendo il pc, prendo la penna dall’astuccio, li guardo. Questi pochi gesti, in alcune classi, bastano a spegnere il rumore come farebbe un po’ d’acqua con un piccolo falò. La mia calma, la mia lentezza fanno breccia e tolgono energia allo schiamazzo. In questi casi fa molto piacere iniziare una lezione partendo dall’attesa. Non ci sono state minacce né richiami, solo il bisogno spontaneo e condiviso di un punto di incontro silenzioso da cui far ricominciare tutto. Una mattina come tante altre che si presenta sempre come un primo giorno, quando il silenzio si fa più carico di responsabilità e cura e si bada bene a non sciuparlo con chiacchiere qualsiasi.
È uno dei miei momenti preferiti. È il momento in cui loro smettono di fare quello che stavano facendo, alzano la testa e mi guardano in silenzio. E io faccio la stessa cosa. È uno dei pochi momenti in cui non mi è necessario parlare, due tre minuti vuoti in cui cerco di capire chi ho davanti e la qualità del silenzio che ricevo è un aiuto denso. Quando poi parlerò e lo faranno anche loro, ognuno sarà entrato appieno nel suo ruolo e i contenuti razionali prevarranno. Ma è in quei due tre minuti iniziali di silenzio che spesso si decidono le sorti delle tante parole che diremo; da quel trampolino dipenderà la bellezza e l’efficacia del tuffo.
Certo, c’è anche il silenzio della stanchezza e della mala voglia. Quello che ti cala addosso all’improvviso quando stai per varcare la soglia. In quel caso loro, che ancora non hanno perso una specie di istinto animale, sentono che dalla mia parte l’assenza di parole è la stessa che c’è sopra la bandiera bianca e allora si lasceranno andare senza freni. Strilla scomposte, conversazioni urlate, risate lanciate a toccare acuti altissimi. Non mi resterà che gridare più di loro, salire di tono arrampicandomi sulle mie povere corde vocali. Rumore contro rumore, la tregua non può che essere armata e durare poco. In questi maledettissimi momenti capisco quanta differenza ci possa essere tra un silenzio e un altro.
Silenzio prima, durante e dopo l’interrogazione.
Entro in classe, come sempre senza particolari proclami. Mi siedo. Oggi sono particolarmente composti e silenziosi. Un allievo si alza e mi porge il suo diario. È orgoglioso di essere lo strumento del fato. Aprendo quel diario estrarrò a sorte gli interrogati del giorno. Il silenzio prima della chiamata. Che bella immagine! Stiamo tutta la vita così, in fila e in attesa che qualcuno finalmente ci chiami. Solo che per ingannare il tempo che non passa, la noia, e, a volte, il disagio, chiacchieriamo riempiendo giornate intere a commentare di fatti e persone che spesso conosciamo appena.
Le parole – troppe – tra quelle che diciamo, sussurriamo o appena abbozziamo e quelle che, ancora più numerose, sentiamo ogni giorno da bocche vere o virtuali, da bocche di carta o televisive, insomma tutte le parole del mondo che ci raggiungono senza incontrare la minima resistenza (difendersi a tratti sembra impossibile) non sono mai state così vane.
La moltiplicazione infernale le ha rese fragili e indistinguibili, cascano a grappoli da tutte le parti come le bombe delle guerre, solo che invece di ucciderci ci anestetizzano e ci cullano. In questa orgia verbale a cui siamo sottoposti e a cui partecipiamo – a volte soffrendo e a volte godendo – in questa orgia verbale che ci stordisce e a cui ci affidiamo per sopravvivere, per coprire la ricerca impotente o disperata del senso ultimo delle cose, per ingannare l’attesa del Godot di turno, c’è solo una possibilità di salvezza. Che chi ci deve chiamare si materializzi e si faccia vedere! In quel momento le parole diventerebbero nuovamente inutili orpelli riempitivi. Vladimir ed Estragon devono parlare e lo fanno proprio perché Godot non arriva mai e nonostante tutto ci provano, si concedono pause e silenzi ma sono silenzi di incertezza o speranza e mai un solo silenzio che sia quello denso, intatto, rombante di fronte all’apparizione della chiamata.
Il silenzio durante l’interrogazione è di un altro tipo.
Rassegnato per esempio. Non conosco la risposta alla domanda e non voglio nemmeno cercare di scoprirla. Silenzio rassegnato e in questo caso nemmeno imbarazzato. Qui il silenzio è di tutto il corpo che rivendica il diritto alla non risposta e per questo non dà segnali di insofferenza. Diverso è il caso dello studente il cui silenzio è solo apparente. Non apre bocca ma si vede che dentro è come un insetto impazzito che muove le antenne in mille direzioni, si dondola sulla sedia, gli occhi vagano inquieti alla ricerca di una qualche via d’uscita. È un silenzio che non accetta la propria natura, che chiede aiuto e quasi sempre lo trova. Bisogna essere proprio duri per ignorare un silenzio che implora di essere parlato.
Così come bisogna essere sensibili a non coprire con un’offerta d’aiuto o una inutile precisazione un silenzio che è tranquillamente al lavoro e che sta elaborando la richiesta. In questo caso è un silenzio che prende in mano la situazione e a cui bisogna accordare piena fiducia.
Il silenzio dopo l’interrogazione è quello del dovere compiuto, della corsa finita, del pieno che si svuota. In alcuni casi può essere quello della mortificazione per lo sforzo non riconosciuto oppure riconosciuto ma non sufficiente. Quest’ultimo è un silenzio che contagia.
Il silenzio della scuola vuota.
Mi capita quasi ogni giorno di fermarmi a scuola fino alle quattro del pomeriggio. Compiti da correggere e da preparare, lezioni da organizzare e un figlio che esce da un’altra scuola lì vicino. Così tutti i giorni assisto allo svuotamento quotidiano della scuola. Quasi tutti vi entrano ed escono allo stesso orario. Io invece mi fermo. I passeggeri salgono, navigano e poi scendono, dirigendosi verso altri porti. Io rimango e faccio da testimone alle varie gradazioni di rumore. Prima il chiacchiericcio stanco dell’ingresso, poi il rumore organizzato delle lezioni, il frastuono sempre più eccitato degli intervalli e infine la stanchezza scomposta e urlante dell’ultima campanella. Alle due e mezzo siamo e io qualche bidello che ormai si è abituato alla mia presenza.
Allora mi capita di fare un giro per le aule vuote e pulite. Senza di loro sono tutte uguali. E anche il silenzio è uniforme e non conosce sfumature. L’aula vuota è il luogo ideale per riflettere sull’assenza. Dove vanno a finire tutte quelle voci che si sono contese duramente lo spazio? Le voci che hanno lottato per farsi sentire o quelle che hanno sperato di non dover uscire allo scoperto, hanno pensato anche di farcela ma poi sono state inesorabilmente scovate? Dove finiscono le grida, i singhiozzi, i rimproveri, le risate a squarciagola? Il silenzio della scuola vuota è assoluto perché torna vittorioso dopo che è stato calpestato da migliaia di rumori diversi e assordanti. Ecco perché è impossibile passare per quelle aule vuote e non restarne meravigliati e affascinati, sedersi e ascoltarlo con gli occhi chiusi ma ancor più con gli occhi aperti per vederli apparire a uno a uno, gli studenti, in mezzo al silenzio e grazie ad esso cercare di capirli e conoscerli meglio.
I minuti prima del suono della campanella.
Quando suona la campanella delle 14.05 il rumore è al suo apice. Gli studenti sono esausti dopo sei ore e sentono prossimo il momento della libertà quotidiana. Io sono afflosciato in cattedra e, anche se lo volessi, alle 14.04 non avrei mai il potere di farli stare zitti. L’energia in certi casi non è rinnovabile e quella di un insegnante che ha lavorato bene, alle 14.04 è a un livello talmente basso che per rinascere e ritornare a uno stato accettabile ha bisogno di qualche ora di silenzio assoluto. Gli ultimi minuti prima delle 14.05 sono quelli che fanno più male. Dopo una mattinata passata a usare parole, a maneggiarle con cura, a pesarle, a riceverle, a frenarle, a direzionarle, a fare sì che siano portatrici di senso e comunicazione e non oggetti contundenti, dopo e nonostante una mattinata passata così, tutto crolla in quei fatidici ultimi minuti. Si alzano, strisciano le sedie per terra, spostano libri, qualcuno cade, cominciano ad ammucchiarsi verso l’uscita, aprono la porta tanto “sta suonando” e invece quegli ultimi due minuti dureranno due ore. Nel frattempo anche le altre porte si aprono, altri insegnanti hanno issato bandiera bianca, e il rumore si moltiplica, invade i corridoi, diventa una valanga che cresce di secondo in secondo fino a quando l’agognato trillo della campanella la farà rotolare per le scale e svanire nel giro di altrettanti pochi minuti.
Quando in classe non c’è più nessuno, mi alzo, raccolgo le mie cose mi avvio alla porta. Prima di spegnere la luce do un ultimo sguardo all’aula: banchi e sedie in disordine, un po’ di spazzatura sparsa qua e là e un silenzio fragile, appena cominciato, che fa quasi tenerezza. In aula insegnanti alla fine della sesta ora ci si parla poco per questo. Ci si guarda e basta. Si comincia la discesa verso quella bolla di silenzio che si custodirà nel tragitto verso casa, per poi, una volta aperta la porta di ingresso essere pronti a un altro luogo pieno di parole.