Laborinto
I dati sulla disoccupazione giovanile sono in continua, costante crescita ovunque nel mondo, particolarmente in Italia, non c’è più lavoro per i giovani, ma anche per i non più giovani la situazione non è meno difficile, dal momento che chi perde il lavoro, molto difficilmente lo ritroverà. Una quantità enorme di persone, spesso prive di mezzi di sussistenza o temporaneamente sostenute dagli ammortizzatori sociali, destinati comunque a esaurirsi, costituisce la manifestazione di un corpo ormai frantumato alla disperata ricerca di se stesso. Ancora una volta il lavoro si rivela come l’unica pratica in grado di comporre i corpi, il sé; il soggetto, un corpo già ormai in pezzi, domanda un padrone che, agendo sul lavoro come procedura di compimento dell’esistenza, sappia rimetterne insieme i pezzi.
Sembra di trovarsi di fronte al ciclo della specie, quando l’individuo è ormai incarcerato all’interno di un tipo e, come spiega Lacan nel suo seminario sugli scritti tecnici di Freud, in rapporto a tale tipo si annulla – l’individuo non esiste o, meglio, esiste solo quando il suo comportamento possa assimilarsi a quello della specie di appartenenza; l’individuo, in rapporto alla vita eterna della specie, è già sempre morto. Il lavoro è tuttora il più efficace dispositivo attraverso cui l’individuo scompare nella specie.
Il sostantivo labor contiene già tutto il senso dell’estraniazione, dal momento che consegue al verbo labor (labor, lapsus sum, labi), che significa infatti cadere, fino a smarrirsi, perdersi, si potrebbe addirittura affermare che il lavoro è già subito un lapsus, forse il vero e proprio lapsus, il lapsus per eccellenza.
Se poi, a questa quantità di persone disoccupate, inoccupate, si volesse aggiungere la quantità dei precari, si avrebbe un quadro angosciante. Al di là, se possibile, degli aspetti economici, di mera sussistenza, si intenderebbe qui sottolineare l’aspetto estraniante che scaturisce da una tale situazione. Ciò risulta tanto più evidente, quando si esamini il profilo di una nuova, quanto mai penosa categoria, che i sociologi hanno chiamato degli scoraggiati, coloro cioè che smettono di cercare lavoro e si abbandonano al nichilismo, o piuttosto denegazione: il rifiuto, la rimozione della propria complessità in assenza di un riconoscimento pubblico delle funzioni produttive che ci si aspettava di dover svolgere.
Si è potuto constatare, nel corso del secolo scorso precipuamente, che la borghesia ha saputo incorporare nei propri apparati ogni forma di nichilismo, anche le più minacciose, la borghesia stessa è divenuta nichilista, come dimostra la crisi apertasi nel 2008, dunque perfino l’asocialità è stata derubricata dal novero dei comportamenti possibili di un drop-out, da quanti vengano esclusi dal sistema produttivo o più in generale dal sistema di realtà inscenato dal capitale.
Pertanto i disoccupati, giovani, meno giovani, gli inoccupati, i precari, gli scoraggiati sono dei corpi in pezzi, apparentemente non più ricomponibili, a confronto del corpo simulatamene ancora sempre perfetto della borghesia. Ora, però, chissà che questa decomposizione del corpo non possa diventare la condizione per attuare l’uscita dalla denegazione, dal misconoscimento di sapersi individui passibili di incrociare al proprio interno molteplici espressività, ciascuna delle quali autonoma e in grado di generare un disinvestimento della realtà ovvero una sua falsificazione.
A proposito di Baudelaire, Benjamin ha scritto che ha “dingfest gemacht”, posizionato, l’uomo estraniato a se stesso. In altre parole, posto che l’individuo è già ormai sempre altro da sé, forse addirittura amissibile (così come Caproni considera l’esistenza umana una res amissa, qualcosa di perduto, per così dire), non resta che intervenire su questa amissibilità, lavorarla di dritto e di rovescio, ovvero agire sul proprio sé alienato, conferirgli una posizione, in grado di divenire già subito nuova posizione della classe.