Paesaggio e Figura. Conversazione con Ruggero Savinio
È di norma, parlando di Ruggero Savinio, iniziare dal suo nome ovvero dai suoi nomi: quello anagrafico, de Chirico, e l’altro, il nome escogitato da suo padre, Alberto, per affermare la propria identità rispetto al fratello Giorgio. Non occorre sottolineare, più di quanto non sia già stato sottolineato, il peso, l’ingombranza della presenza di due artisti tanto straordinari nella vita di Ruggero Savinio, laddove vale forse assai più dare conto della responsabilità con cui Ruggero Savinio ha intrapreso una ricerca sua propria senza indugiare in alcun modo sulle lezioni parentali. Avviato all’arte dallo zio, Ruggero Savinio ha infatti subito delineato una propria autonomia artistica, volgendosi alla pittura informale di Fautrier durante il suo soggiorno parigino tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi dei sessanta.
Ed è invero il rapporto fra luce e materia e colore in un amalgama insolubile a determinare l’intero percorso espressivo di Ruggero Savinio, dalla prima mostra a Roma nel 1956, presentato da Giuseppe Ungaretti, alla più recente, tenuta a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, tra maggio e settembre di quest’anno, nella quale sono state raccolte opere dal 1959 al 2022. Se Ruggero Savinio è stato indirizzato alla pittura dallo zio, del padre ha accolto il talento della scrittura – numerosi sono infatti i suoi libri saggistici, come il fondamentale Il senso della pittura, e narrativi, come Il cortile del Tasso. Ruggero Savinio ha continuato a credere nella pittura anche in anni in cui la pittura si è ammutolita; è stato ed è uno dei rari artisti ad averlo fatto, senza dubbio in Italia, non di meno in Europa.
La conversazione che segue è incentrata su un tema decisivo della pittura di Savinio, la figura.
Clio Pizzingrilli – Stabilisco due facies nella tua pittura: una è il paesaggio, l’altra è la figura umana. Nel paesaggio includo l’interno, la stanza. Il paesaggio, sia il fuori che il dentro, è il fondo; in termini pittorici è espresso attraverso una interpretazione dell’informale. Una stanza, una marina, un gruppo montuoso, una estensione boschiva vengono resi secondo la procedura tecnica e concettuale della pittura informale, ma la specificità della scena non viene annullata – la scena, per così dire, deve risultare essere una stanza, un gruppo montuoso, una marina, una estensione boschiva, se non che è già sempre stata un dipinto o per meglio dire una vista che è eo ipso un dipinto. Si può dire che nella tua visione il mondo viene osservato, considerato nella misura in cui è immanentemente trasfigurato in termini pittorici. In questo senso si può parlare di informale, in quanto la vista delle cose del mondo, che sono nel mondo, sono già subito private dell’aspetto reale. Dunque, il paesaggio sembra essere assunto come dato intrapittorico. In altre parole, quando osservi un paesaggio, lo consideri attraverso la tua memoria di pittore, di frequentatore di musei, di studioso di pittori, di modo che sovrapponi mnemonicamente il paesaggio che ti è intimo al paesaggio che ti sta davanti. Tale pratica conduci ricorrendo a impasti di colore molto densi, mescolati a materie calcinose, come molti pittori nel passato hanno fatto.
Ruggero Savinio – Giusta la distinzione, nella mia pittura, fra paesaggio e Figura. Uso la maiuscola per ricordare la centralità e, direi, la maestà della figura umana nella nostra tradizione. Queste maestà e centralità rimangono un residuo di memoria e forse una nostalgia nella pittura moderna. Picasso è un esempio della persistenza, seppure mascherata, del realismo in figura. I due temi, anzi i due generi, figura-paesaggio, sono in un rapporto che a me sembra di amoroso conflitto. Il paesaggio è lo sfondo della figura, cioè dell’immagine dipinta. È la natura che accoglie e respinge la figura, che deve districarsi dallo sfondo per emergere nella sua integrità.
Clio Pizzingrilli – Su questo fondo, su questa scena è collocata l’altra facies, la figura umana. La figura che dipingi rappresenta pose che fanno riferimento ad una precisa codificazione. È noto che gli scultori, i pittori della classicità andavano a studiare negli spettacoli le attitudini, le pose, i gesti dei danzatori e in seguito dei mimi; ma è altrettanto noto che i danzatori, i mimi, a loro volta, sceglievano i loro modelli, conformavano le pose e i gesti sulle pose e i gesti figurati nei capolavori dell’arte. Gesti e pose sono state catalogati. Fra i testi sull’argomento, faccio riferimento a La Danse Greque antique d’après les monuments figurés, di Maurice Emmanuel, compositore francese, musicologo, studioso della musica greca antica, vissuto tra il 1862 e il 1938. Vorrei accennare brevemente ad alcuni gesti e pose catalogati nel testo.
Il gesto rituale delle divinità curotrofe, antichissimo, di origine orientale, rappresentato dalla dea che porta la mano al seno come per farne uscire il latte. L’arte greca si appropria del gesto, ma lo trasforma nel gesto di Afrodite pudica. Prassitele lo elabora nella sua Afrodite cnidia.
Il gesto degli adoranti, una delle forme più ordinarie dell’adorazione – proskynesis –, consistente nel tendere le braccia in avanti, le palme delle mani volte in alto.
Il gesto del sandalo riallacciato, rappresentato dalla dea Afrodite che si tiene su una gamba, l’altra sollevata, mentre si riallaccia il sandalo.
Il gesto del velo. Consiste nel togliere il velo dalla testa o dal busto. Nel V e nel IV secolo l’intento di questo gesto è anzitutto pudico; il velo è un bastione mobile, dietro cui la donna si trincera. Il gesto attraverso il quale la sposa allontana il velo dal viso che ne era nascosto è stato chiamato gesto nuziale. Lo stesso gesto nella Latona del Louvre, pur conservando il medesimo formalismo, è rovesciato divenendo lascivo.
Ci sono poi le pose e i gesti della vita quotidiana. Gesto della tunica, uno dei motivi che i pittori di vasi e gli scultori hanno maggiormente ripetuto. Il gesto è in qualche modo istintivo nella donna che indossa un mantello lungo. Consiste nel prendere lievemente con la mano un lembo del manto per rendere più liberi i movimenti delle gambe e scoprire i piedi – è un gesto che esibisce una qual coquetterie che abbellisce l’incedere.
Gesto virile del braccio nel mantello – cheir en imatio. Nel V e IV secolo questo gesto indica il riposo; gli oratori ne facevano l’espressione della loro dignità. A partire dal III secolo perde la solennità.
Gesto della mano sull’anca. Rappresenta nobiltà, al tempo stesso è un gesto famigliare.
Gesto del braccio curvo al di sopra del capo. Nel V e nel IV secolo esprime energia e disposizione alla lotta; in seguito, nell’arte ellenistica, diviene il gesto della mollezza e dell’abbandono oppure del sommo riposo, per es. il gesto della belle dormeuse.
Gesto dell’Afrodite anadyomene, che nasce dal mare. Rappresenta la dea che si torce i capelli uscendo dalle acque; benché concreto, si traforma in un geste coquet.
Gesto del versatore. Tiene la mano levata in alto a reggere un vaso, il cui contenuto versa in un’urna – phyale – che regge con l’altra mano; in questo modo il liquido descrive una curva elegante.
Progressivamente pose e gesti trascorrono verso significati del tutto diversi, se non opposti, ai significati che avevano in origine, ciò nondimeno non si rinuncia ad impiegarli. Si può dire che i gesti, le pose che formano le tue figure rientrano in questo catalogo? Credo che non lo si possa negare, poiché la tua figurazione è di stampo eminentemente mitico.
Ruggero Savinio – Le figure nella loro integrità, tu le enumeri con le differenze di postura e di significato. È importante la tua enumerazione. Anch’io, a suo tempo, ero interessato ai gesti della pittura antica, che, come sai, hanno un senso che trascende l’immagine e che per noi adesso è diventato muto, pura scelta formale. L’accoglimento e il conflitto fra paesaggio e Figura, cioè l’affondamento nella natura o l’emersione da essa, è una costante della pratica pittorica. I pittori chiamano materia tutto quello che trattiene l’immagine dentro l’indistinto naturale. In termini di filosofia antica si potrebbe chiamarlo chora. In termini di fisica si può parlare di continuità e discontinuità. La figura, se emerge o tende a emergere, vuole proporre la propria discontinuità nell’infinito continuo.
Clio Pizzingrilli – L’arte colta, dal mio punto di vista borghese, del XIX secolo sembra rimuovere l’origine di questi gesti e pose o, per dire meglio, se ne appropria senz’altro per poi rifigurarli altrimenti. Un caso per me esemplare in questo senso è la pittura di Pierre Bonnard, dove i gesti, le pose sono collocati in un ambito di lieve inquietudine borghese. Ugualmente, tuttavia, le stesse figure dolenti, torte, livide di Schiele, quasi cartoon, ma senza alcun residuo borghese, sembrano rimuovere gli schemata originali ovvero applicarli alla psicopatologia della contemporaneità.
Ruggero Savinio – Nomini Bonnard. In Bonnard il paesaggio vero e proprio, quello che si offre allo spettatore come oggetto di contemplazione, è separato dall’interno per mezzo di un’apertura, finestra o porta. Ma anche l’interno è un paesaggio naturale, dentro il quale le figure si accartocciano, si divincolano per tendere all’integrità.
Clio Pizzingrilli – C’è poi il caso di Joseph Thomas Monticelli, il cui impasto spesso, gessoso sembra annunciare la tua pittura. La pittura di Monticelli deve essere ugualmente collocata nell’ambito borghese del XIX secolo, ma con una differenza, che le figure di Monticelli sono rappresentate con ironia, talora con sarcasmo, con derisione sommessi; in certo modo, sembra che la figurazione di stampo fragonardiano abbia perso ogni certezza, lasciando apparire qua e là aspetti di dissoluzione, ciò è a dire di critica della gestualità mitica, dalla quale pure il pittore non sa distogliersi, alla quale si tiene legato irresolubilmente.
Ruggero Savinio – In Monticelli, che tu, forse giustamente, vedi come un mio precedente o modello, la natura invade la figura dentro la sua intima presenza. Ricordo il desiderio di Testori di poter vedere una mostra di ritratti di Monticelli. Nei suoi ritratti la natura, eczemi, pustole, bolle, virgole, punti, cifre, invade i volti, si arrampica sui tratti sovrapponendo la propria epidermide dipinta all’epidermide dei soavi visetti infantili. La natura-paesaggio e la Figura diventano la stessa cosa.
Clio Pizzingrilli – Ora, quale può essere l’aspetto di una figura umana attuale, quale la sua apparenza o apparizione? È possibile la pittura di una figura che sia l’apparenza o apparizione di un’altra specie di umano, non una figurazione alterata dell’umano che già sempre c’è stato, ma di un umano non ancora sempre inverato dagli schemi di pose e gesti notificati, non ancora sempre inchiodato in quelle rappresentazioni? La domanda può anche essere posta nel seguente modo: che apparenza o apparizione può avere un umano attuale, un umano tràdito attraverso gli schemi figurali attinti alla mitologia, ma di questi irrimediabilmente amissus? Se si prende la Scuola di Londra, si constata che lì si è tentato di dare risposta a questa domanda dilavando la figura, cancellandola, scontornandola; ma si può affermare che quella figurazione identifichi o almeno accenni ad una nuova apparizione umana? Il sospetto che quella figurazione abbia solo giocato di sponda è forte. Se si prendono i disegni di Samson and Delilah di Frank Auerbach, tratti dall’opera analoga di Rubens, si constata una assoluta concettualizzazione, che esonera e il racconto biblico e, soprattutto, l’originale, di cui i disegni sono la copia smaterializzata, rispetto al ricco e materico originale rubensiano. Pertanto, è come se l’apparenza o apparizione di un umano nuovo o, per meglio dire, mai ancora venuto alla luce, se si vuole un umano secondario, rimasto fin qui sempre secondario rispetto all’umano principale, l’umano antropocenico, non si sappia dove, come cercarla, altro che decostruendo le apparenze già state. Ma questo non dice ancora nulla sulle apparenze rimaste secondarie.
Ruggero Savinio – Tu alludi al mio modo di dipingere, quando parli del conflitto, per esempio, in certi pittori inglesi, fra natura, materia, che tu identifichi nell’informale, e il desiderio – nostalgico – di emergere come Figura. Il fondo, la natura, la materia non sono necessariamente paesaggio. Tutto lo spazio che accoglie o respinge la Figura è paesaggio, anche lo spazio chiuso e domestico.
Clio Pizzingrilli – Evidentemente, l’ho detto all’inizio di questa conversazione.
Ruggero Savinio – Per quello che mi riguarda, penso di essere mosso da un desiderio doppio, quello che ho descritto come confusione nella natura-materia e quello di emergere in un’integra maestà di Figura. Sarebbe facile dire che una figura integra e addirittura maestosa nella modernità non è possibile, ma il gioco fra le due istanze continua, provocato anche dal caso e dai suoi portati. Del resto, è un gioco al quale credo che la pittura non possa rinunciare, se non vuole cadere, da una parte, nella zona della tecnica meccanica e, dall’altra, in una rarefazione alla Rothko.
Clio Pizzingrilli – Nel capitolo dedicato alla figura degli Studi su Dante, Erich Auerbach traccia una storia fondamentale della parola figura. Il termine figura, che ha lo stesso tema di fingere, significa all’origine ‘formazione plastica’, per la prima volta impiegato da Terenzio nell’Eunuchus, che di una fanciulla dice “nova figura oris”, forma singolare del viso, di modo che l’aspetto della novità e della trasformazione è già subito implicito nel termine. Il greco, a differenza del latino, possiede molti termini per dire figura: morphe, eidos, schema, typos, plasis et al. Morphe e eidos indicano la forma o idea che informa la materia; schema, la figura sensibile di tale forma (cfr. la Metafisica di Aristotele); plasis indica la tendenza della figura a espandersi nella direzione della statua, scrive Auerbach, dell’immagine, del ritratto. Un passaggio notevole nella evoluzione della parola devesi, nel I secolo, a Quintiliano, che elabora la nozione di figura retorica. In ambito religioso, il concetto di figura è assolutamente decisivo nella interpretazione cristiana dell’Antico Testamento. In Romani e in I Corinti, Adamo è detto typos del Cristo futuro. In Paolo tutta l’interpretazione figurale verte sul tema dell’opposizione fra Legge e Grazia, laddove l’antica legge, quella scaturita dalle tavole mosaiche, viene trascesa nella misura in cui prefigura il Cristo. È attraverso l’interpretazione figurale che l’Antico Testamento si trasforma da libro della Legge in una sequela di figure del Cristo. Lungo questo cammino della parola, la figura dipinta appare meno spontanea di quanto sembri, meno disinvolta o naturale o semplice; al contrario, viene alla presenza in tutta una gravezza e complessità, di tale che dipingere la figura assume una pregnanza formidabile e crea nel guardatore una aspettativa che il pittore non può tradire – come scrive Auerbach a proposito delle figure della Commedia, le figure sono forme provvisorie di “alcunché di eterno e sovratemporale … questo eterno è già figurato in esse, ed esse sono dunque tanto realtà provvisoria e frammentaria quanto realtà sovratemporale dissimulata”.
Ruggero Savinio – Per conto mio, nel voler continuare a praticare una pittura di Figura, ho sempre cercato i maestri che mi potevano aiutare. Dagli antichi: Tiziano con la sua costruzione-disfacimento, o Figura-disfatta, ai moderni che abbiamo nominato: Bonnard, al quale aggiungerei Vuillard, e poi Munch, che considero un riferimento necessario per chi voglia fare nella modernità una pittura di Figura. Munch soleva contornare le sue figure di linee, righe luminose, pratica peraltro usata anche dai pittori antichi (Guercino). Certe volte questi contorni luminosi in Munch diventano protagonisti, costruiscono la figura intera. L’attrazione-dissidio si dà senza conciliazione.
Clio Pizzingrilli – Vorrei tentare un’ultima mossa in questa randonnée sulla figura, soffermandomi brevemente sulla influenza esercitata da Giovan Battista Marino su Poussin. Le tecniche pittoriche di Poussin possono essere, e invero sono state indagate attraverso la comparazione con la strategia poetica di Marino. Nella stessa misura in cui Marino pratica, non inventa, una strategia poetica che combina insieme fonti plurime, Poussin sperimenta una pittura che è manipolazione di miti, così da esibire una prassi antifrastica. Marino è affascinato dalla pittura, se ne ha la prova nella Galeria, non di meno nel capitolo delle Dicerie sacre dedicato alla sacra sindone, di tale che l’assetto del materiale delle fonti in sequenze è concepito da Marino nei termini di un diorama. La convergenza di diverse narrazioni e fabulae – da Petrarca a Tasso, da Nonno a Sannazzaro – è la cifra poetica di Marino. Marino, scrive Emmanuele Tesauro nel Cannocchiale, “tutti a stretta li [oggetti] rinzeppa in un vocabolo e quasi in miraculoso modo gli fa vedere l’uno dentro all’altro” – la poesia di Marino è antifrastica, così come antifrastica è la pittura di Poussin. In Poussin la figura si costituisce come antifrasi, come una contro-rappresentazione; una rappresentazione che rovescia il significato, la rappresentazione medesima. Antifrastica è la figurazione di Monticelli, già che le sue figure contraddicono quanto figurano, sono una sorta di copia, di storcimento dell’originale, rimanendo tuttavia “l’uno dentro all’altro”.
Ruggero Savinio – Ho sempre ammirato in Poussin il suo modo di concepire la figura in un modo aperto, molto più aperto rispetto alle maniere precedenti. Poussin non chiude le forme, al contrario le apre al paesaggio, e questo fa anche mediante un uso strepitoso del colore. Le pose, i gesti delle sue figure sono effettivamente tratti dalla statuaria antica, dal catalogo cui hai accennato.
Clio Pizzingrilli – Ho voluto introdurre il rapporto fra Marino e Poussin, perché mi pare rifletta la tua doppia identità di pittore e di scrittore – “prole tal nascerà del bell’innesto” (Adone, Canto I, 34)