Gaffe, lapsus e altri atti mancati
L’idea che mi sono fatto è questa: che la nostra vita sia un incessante tentativo di mettere ordine. Venendo dall’indeterminato noi non facciamo che cercare di darle una forma. E ci sorprendiamo quando realizziamo che la forma che abbiamo trovato regge appena, che ha bisogno di continui aggiustamenti e sostegni e supporti e consolidamenti. E che a volte, nonostante tutto, quella forma crolla, e dobbiamo cercarne un’altra, una nuova che si spera sia più resistente di quella precedente. Così, viviamo nel discreto alla ricerca del continuo, cioè in un insieme di parzialità che ci piace guardare come un tutt’uno omogeneo che mai si dà (per approfondire nel modo migliore l’attualissima immagine della filosofia antica si veda Discreto e continuo. Storia di un errore di Paolo Zellini, Adelphi 2022, vedi la recensione di Pino Donghi). Se è così che conduciamo le nostre esistenze, in una concretezza fatta di tanti pezzetti disgiunti, ma con l’idea di essere degli interi, si capisce che può accadere anche che uno di questi pezzi sfugga al controllo e ci crei ansie e angosce per la perdita della nostra “unità”. E si può cadere in depressione. Il pezzo del corpo, il pezzo degli affetti, il pezzo dell’autostima, il pezzo della motivazione, il pezzo del sesso… tutto nel calderone dell’Io, intero si fa per dire.
Quando uno di questi pezzi ti domina e imprime alla tua vita una sorta di marchio sei segnato malgrado i tuoi sforzi per proteggerti: tu diventi quel pezzo. Se poi è un marchio diciamo sgradevole… Se, ad esempio, a “dominarti” è la tua capacità di fare delle clamorose gaffe, la storia della tua vita potrebbe chiamarsi Autobiografia della gaffe, proprio come succede a Mario Fortunato che ha appena pubblicato con questo titolo (da Neri Pozza) la sua storia personale di gaffeur di prim’ordine. Autore noto di romanzi e saggi, critico letterario per l’Espresso, è stato direttore dell’Istituto italiano di cultura a Londra, ha tradotto Virginia Woolf e Evelyn Waugh. Insomma un gran bel curriculum, ma tant’è: la maledizione del gaffeur lo ha in qualche modo costretto a farci i conti, per iscritto, come a provare a espellere da sé questo daimon davanti a tutti. Il libro di Fortunato è un viaggio a tutto tondo dalla giovinezza alla vecchiaia nel tentativo di dare un volto concettuale alla gaffe, il racconto di una vita, più intellettuale che biografica, posta in connessione alle riflessioni più importanti sul tema, con grandi gaffe e grandi gaffeur a confronto con il pensiero cruciale tra XX e XXI secolo.
Tutto comincia con il giovane autore alle prese con una importante conferenza dedicata a “Letteratura e giovani” in una serata affollata e illustre in cui lancia una metafora forte sulla letteratura come perdita di un arto. Davanti in prima fila è seduto Giulio Einaudi sempre più nervoso con al suo fianco il Sindaco… che è senza un braccio. L’editore lancia segnali di allarme, il giovane relatore recepisce, coglie la situazione, ma decide di perseverare sfidando la realtà: ormai è fatta, lui sta parlando di letteratura come arto mancante davanti a una personalità senza un braccio che lo ascolta. Tremendo.
La gaffe, “una verità pronunciata per sbaglio”, ha una natura che in realtà continua a sfuggire. Più che un’entità a sé stante si presenta come una funzione, è quando il subconscio si prende gioco di te, delle tue intenzioni, e tu sei uno strumento in sua balìa. In quel momento diventa chiaro il significato del «Je est un autre» di Rimbaud (caro a Lacan). Sicuramente la gaffe, dice Fortunato, non può appartenere all’infanzia in-cosciente, perché essa “nasce adulta – diciamo ventenne – e tale rimane tutta la vita” (p. 9).
A un certo punto della sua vita, ricca di eventi e incontri e di gaffe (leggete il libro, ce ne sono di grandiose) gli è necessario rivolgersi alla terapia psicoanalitica, che diventerà piuttosto lunga. Anche in questo caso l’autobiografia diventa il racconto soprattutto di un percorso intellettuale. Il capitolo dedicato a Freud è particolarmente interessante, proprio perché ci mostra il dr. Freud alle prese con la sua stessa biografia talvolta insicura, incerta, titubante. Colui che più di altri ha lavorato attorno ai comportamenti obliqui della mente, dando lo «sfratto alla centralità del soggetto» (ecco il passaggio dal continuo al discreto) ci ha messo a disposizione quella che Fortunato chiama “la Bibbia di noi gaffeur” cioè la Psicopatologia della vita quotidiana. Per Freud la gaffe è “un atto mancato o una ‘paraprassia’ la cui intenzione più o meno latente è il disvelamento di una reticenza”. Anche Umberto Eco, per altro, nella sua storica analisi del gaffeur per antonomasia Mike Bongiorno, ne parlava come di “un atto di sincerità mascherata”, ma Freud approfondisce la riflessione e considera la gaffe un sintomo, uno di quegli aspetti che la ragione tende a scartare, come il sogno o il lapsus, ma che il pensiero analitico recupera proprio per ampliarne i confini, come sottolinea Silvia Vegetti Finzi (p. 54).
La gaffe, il lapsus, l’atto mancato, insomma la paraprassia è “uno dei più potenti anelli di accelerazione mentale forniti agli esseri umani” (p. 98). E la letteratura è il campo di azione dove meglio esso si esercita. Lo sosteneva il poeta russo frequentato a Roma dall’autore, futuro premio Nobel per la letteratura (tutto fa pensare che si tratti di Iosif Brodskij). È infatti proprio dalla letteratura, in particolare da due racconti di Ingeborg Bachmann (Trentesimo anno e Occhi felici), che Mario Fortunato racconta di avere ricevuto la sua definitiva convinzione “ad accettare che il mio bene da tenere d’occhio non era altro che l’attitudine allo sbaglio, alla colpa e, in ultima analisi, alla gaffe” (p. 99). Poi vennero Evelyn Waugh e E.M. Forster, uno sbruffone e un timido, ma ambedue bisognosi di esercitare l’equivoco, il lapsus, lo sbaglio, insomma la gaffe. Sono autori che, con la loro opera, convincono chiaramente sul fatto che più che nella psicologia “sia meglio cercare risposta nei romanzi stessi dello scrittore. Perché il romanzo eccede sempre la biografia di chi lo ha scritto, e la psicologia è solo una parte che non può essere scambiata con il tutto” (pp. 104-105).
Nel capitolo Il Narratore Fortunato si dedica a Proust e al suo celebre lapsus a cui Mario Lavagetto dedicò a suo tempo una fondamentale analisi, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (Einaudi 1991). Siamo nel secondo capitolo del Tempo ritrovato della Recherche, il Narratore equivoca parlando della stanza n.43 in cui immagina che Jupien, il gestore del bordello per omosessuali che sta visitando, avrebbe dovuto sostituire il letto di legno con uno di ferro più adatto alle pratiche sado-maso a cui aveva visto sottoporsi con piacere il signor di Charlus, ma la stanza con il letto di ferro che aveva visto è la 14bis, il Narratore cioè pensa alla sua stanza, la n. 43, identificandola con la 14bis, rivelando così di desiderare che diventi come la 14bis. Il Narratore non è Marcel, il protagonista, omonimo dell’autore dell’opera; Marcel non è il Narratore. Ma, si sa, l’uno è anche l’altro. Qui, nota l’autore, “L’arte smaschera la realtà perché la rivela – come la gaffe smaschera l’apparenza rivelando la verità. E la natura di entrambe non può che essere urticante” (p.115).
Diciamo che l’Autobiografia in qualche modo si compie quando Fortunato conclude scrivendo che “la gaffe, lungi dall’essere un limite – un errore, un abbaglio, una cantonata – è al contrario un modo in cui il linguaggio sorpassa la realtà storica per farne trasparire l’essenza extratemporale, cioè la verità, cioè la bellezza. Anche se verità e bellezza possono essere i più potenti mezzi di trasporto del dolore” (p. 121). È per questo che “L’autobiografia è un genere che non esiste per il semplice motivo che la scrittura non dice la vita ma sé stessa, cioè una finzione” (p. 127).
Il libro si conclude con una certa freddezza: da vecchi non si smette di essere gaffeur, ma di fare gaffe per il semplice fatto che si smette di parlare, dice Fortunato. Forse è così, ma è decisamente più interessante un’altra osservazione molto acuta sull’arte come “fonte rinnovabile” a cui tutti, vecchi compresi, possono guardare sempre con fiducia. Ecco la potenza dell’indistinto artistico che torna come fonte inesauribile di vitalità. E se è vero che “l’arte smaschera la realtà perché la rivela – come la gaffe smaschera l’apparenza rivelando la verità”, allora, come dire, viva la gaffe!
Il nostro è il tempo della parresia, dell’eccesso di schiettezza, del diritto male interpretato di dire tutto ciò che si vuole a chiunque, che la rete ha esteso in modo assoluto. Come si può pensare, in un simile contesto, che il Freudian slip, cioè l’atto mancato-il lapsus-la gaffe, quell’insieme di sbagli significativi che costituiscono la paraprassia, non agiscano nella complessità sociale? Parresia e paraprassia, c'è anche una assonanza. Se questa diventa quella, che succede? Se tutto divenisse un libero “gaffeggiare” universale? La gaffe può essere un bene prezioso se è una fonte possibile di autenticità/verità, come suggerisce la riflessione di Mario Fortunato, ma può morire asfissiata in un caos ingovernabile della comunicazione collettiva. Nel mondo discreto, anzi, sempre più discreto, della gaffe potremmo addirittura avere nostalgia.