Piccola storia di un teatro anticonformista

22 Agosto 2016

Nel cuore dell’immensa Mosca, non lontano dalla stazione Kurskaja e dallo Zemljanoj Val, una delle vie più trafficate della città, si nasconde all’interno di un piccolo condominio il Teatr.doc. Una sede di questo tipo potrebbe far pensare a una piccola scena sperduta nel grigio e nello smog della città; in realtà, il Doc è stato nel presente secolo uno dei teatri più in vista a livello mediatico in tutta la Russia, con una propria estetica ben definita e una costante produzione di nuovi drammi.

 

Il Teatr.doc è infatti il principale promotore del “teatro di documentazione” russo, corrente sviluppatasi col volgere del nuovo millennio come fenomeno di importazione, dopo una serie di seminari in Russia del Royal Court Theatre britannico. I drammaturghi e registi russi furono infatti affascinati dal modo di scrivere pièces dei colleghi anglosassoni, i quali partivano da documenti reali riguardanti persone comuni. Da queste masterclass i registi Elena Gremina e Michail Ugarov trassero ispirazione per creare il Teatr.doc, che nacque nel 2002 e diede ben presto origine ad altri seminari e festival (come il Ljubimovka) che contribuirono ulteriormente a diffondere il non-fiction theatre (o verbatim theatre) in Russia. 

 

La differenza sostanziale, e il motivo per cui il teatro documentario ha avuto più successo in Russia che in altri paesi (compreso lo stesso Regno Unito), risiede nella situazione politica del Paese e nell’attenzione approfondita a gruppi o sottoculture solitamente ignorati nella tradizione teatrale nazionale. A fronte di una cultura ufficiale omologata, propagandata dallo Stato e dai media filo-governativi e fondamentalmente arenata su valori come patria, famiglia e religione, il verbatim theatre ha quindi tratto ispirazione per mostrare parti nascoste e ignorate della società. Si tratta di categorie trascurate o poco in vista, in alcuni casi anche malviste e ostracizzate, che a prima vista sembrano avere poco in comune l’una con l’altra: reclusi, soldati, senzatetto, omosessuali, utenti di forum online e così via.

 

Una tale attenzione alla realtà anche nei suoi aspetti più marginali impone un “filtro zero” anche del linguaggio. Il Teatr.doc è infatti il primo teatro russo a inserire in modo sistematico (quando ciò è necessario) il linguaggio scurrile (maternyj jazyk) all’interno di rappresentazioni teatrali. L’attenzione alla realtà ha permesso quindi un rinnovamento della lingua artistica del teatro, contribuendo a svecchiare una tradizione a lungo rimasta fossilizzata.


A permettere una maggiore libertà del Doc è anche il suo status di teatro privato: una rarità per la Russia, in cui la maggior parte dei teatri sono pubblici e sostenuti economicamente dallo Stato, alle cui direttive devono però spesso adeguarsi. I teatri privati infatti o non beneficiano affatto del budget statale, oppure ricevono dai fondi pubblici somme irrisorie per singoli progetti, che comunque non permettono loro di essere economicamente stabili. Tuttavia, grazie a questa particolarità il Teatr.doc è riuscito nel corso degli anni a portare in scena spettacoli originali all’interno del contesto russo, che scandalizzarono per i temi e il linguaggio utilizzato, come Zapoljarnaja pravda (Verità polare, 2006), su pazienti sieropositivi di una comunità siberiana di aiuto ad affetti da HIV, e Kislorod (Ossigeno, 2002), in cui sulla scena si trovavano rappresentanti della nuova gioventù russa, disagiata e dipendente da droghe, che della violenza faceva una vera e propria religione.

 

Nella quasi totalità dei successivi spettacoli, anche quando toccava temi ben noti all’opinione pubblica, il Teatr.doc ha continuato ad analizzare gli eventi tramite la prospettiva di persone comuni spesso poco visibili: due esempi lampanti sono Sentjabr’.doc (Settembre.doc, 2005) e Čas vosemnadcat’ (Un’ora e diciotto, 2010). Il primo, dedicato alla strage terroristica di Beslan del 2004 (quando, a causa dell’occupazione di una scuola dell’Ossezia del Nord da parte di separatisti ceceni persero la vita più di trecento persone), prende in esame il tragico evento attraverso le reazioni degli utenti di forum online russi. L’operazione non è esclusivamente drammaturgica, bensì più simile al lavoro di uno storico, un sociologo, uno psicanalista o un medico criminologo. Attraverso questo spettacolo-indagine viene messo a nudo il senso di identità sia russo che ceceno, in entrambi i casi spesso basato non su reali valori (dai commenti infatti ogni utente ha un’idea diversa di cosa voglia dire essere russo o ceceno), bensì sulla xenofobia che sfocia in un vero e proprio odio razziale. L’impatto dello spettacolo fu forte sia in patria che a livello internazionale: all’estero venne infatti tacciato di nazionalismo e razzismo al festival teatrale di Nancy in Francia, dove degli attivisti del luogo protestarono contro la messinscena consegnando volantini contro lo spettacolo (prima ancora che fosse rappresentato); al contrario, in Russia venne descritto come “antinazionalista” e animato da sentimenti pro-ceceni, per motivi assolutamente opposti a quelli rinfacciati all’estero. 

 

L’accento politico di Sentjabr’.doc, insieme all’analisi degli eventi attraverso la prospettiva di persone comuni e prive di visibilità, si ritrova anche in Čas vosemnadcat’, spettacolo dedicato alla morte dell’avvocato di opposizione Sergej Magnitskij, avvenuta in prigione il 16 novembre 2008. L’ora e diciotto minuti del titolo è infatti il tempo che l’avvocato trascorse in agonia prima di morire in carcere, privo di qualunque aiuto, dopo aver lanciato un allarme sul proprio stato di salute aggravato. Lo spettacolo rappresenta una sorta di processo immaginario (che mai ebbe luogo) a tutti i possibili responsabili della morte di Magnitskij: guardie del carcere, medici, infermieri, giudici, l’autista dell’ambulanza. Nessuno di essi aveva rilasciato dichiarazioni pubbliche sul decesso dell’avvocato; per questo, per costruire la loro difesa, il Teatr.doc si basò sui racconti di persone che li conoscevano, ipotizzando risposte alle domande del tribunale. A questo fanno eccezione solo le testimonianze di due persone: la madre della vittima, della quale viene riportato il j’accuse trasmesso dalla radio Echo Moskvy, e lo stesso Magnitskij, del cui diario vengono lette sulla scena alcune pagine. Per la prima volta il Doc assume, per esplicita ammissione del regista Ugarov, una posizione apertamente accusatoria da un punto di vista politico. È la recitazione a tradire il tono di opposizione della pièce: scarna, portata a un minimo di teatralità ma proprio per questo molto commossa, anche se non melodrammatica. Le caratteristiche dei personaggi sono stilizzate fino a renderli delle maschere. Il regista non condivide l’opinione che i colpevoli non siano persone singole con proprie responsabilità ma solo vittime del sistema: tutti i colpevoli della morte di Magnitskij, che come giustificazione portano quella di essere parte del sistema, sono presentati come esseri disumani e infelici, non semplicemente dei corrotti omertosi. Essi sono fantasmi di persone, di persone anche di buona educazione e cultura, ma che in definitiva persone non sono. 

 

L’avvicinamento pericoloso del Teatr.doc a temi strettamente politici non poteva che portare a conseguenze nefaste: dopo la première di Čas vosemnadcat’ i progetti promossi dal teatro smisero di ricevere ogni tipo di finanziamento pubblico. Gli eventi da quel momento hanno iniziato a succedersi in modo rapido, per quanto riguarda sia la situazione politica del Paese che le vicende dello stesso Teatr.doc: all’annuncio della terza candidatura di Putin nel 2011 seguirono numerose proteste, culminate il 6 maggio 2012 con la più grande manifestazione di opposizione politica nella storia russa a Piazza Bolotnaja (Mosca). Lo scorrere degli eventi è serrato, le proteste si susseguono una dopo l’altra, e nel febbraio 2012 le Pussy Riot si esibiscono in un’azione di protesta nella cattedrale del Cristo Salvatore, intonando una preghiera alla Madonna per liberare la Russia da Putin, per la quale vengono condannate a tre anni di reclusione.

 

 

Nello stesso mese al Teatr.doc viene presentato BerlusPutin, un altro spettacolo apertamente politico, che questa volta prende i toni della satira. Lo spettacolo è infatti un adattamento in chiave russa della commedia del 2003 di Dario Fo L’anomalo bicefalo: nell’originale di Fo, durante un incontro fra Putin e Berlusconi in Sardegna, il Presidente russo veniva assassinato da dei terroristi e il Cavaliere ferito gravemente, e curato trapiantando parti del cervello dell’amico ormai deceduto. Berlusconi si svegliava quindi immemore di se stesso, ricordando unicamente dettagli della vita di Putin. In BerlusPutin la trama viene ribaltata: durante un incontro a Soči, Berlusconi viene ucciso e il Presidente russo gravemente ferito. Il trapianto di cervello questa volta porta Putin a possedere i ricordi dell’amico Silvio: ad un certo punto, in preda a una crisi di identità, il convalescente Vladimir inizia a parlare di mafia, utilizzando anche termini del turpiloquio italiano.

 

L’unione dei due cervelli è un espediente per ridicolizzare Putin e per accentuare caratteristiche del suo modo di essere non così lontane da quelle di Berlusconi. Inoltre, l’abile gioco comico permette di accusarlo indirettamente di crimini imputati al Cavaliere, come l’aver contribuito a rendere il proprio paese uno “Stato di mafia”. La comicità è espressa anche dalle caratteristiche fisiche dei personaggi: ove nell’originale di Fo veniva ridicolizzata l’ossessione per l’altezza di Berlusconi, in BerlusPutin il Presidente russo viene mostrato alla fine della commedia con addosso una maschera rugosa dell’elfo Dobby di Harry Potter, poiché il botox si era riversato fuori attraverso delle crepe sul volto. La satira politica va quindi di pari passo con lo sberleffo giullaresco e carnevalesco, che intende deridere Putin anche per la sua ossessione per l’immagine e la giovinezza che lo ha caratterizzato negli ultimi anni. 

 

Lo spettacolo si inserisce inoltre nel più ampio contesto della politica russa degli ultimi anni, in quanto venne rappresentato anche in un campo mobile degli attivisti di opposizione, in condizioni quasi di assedio, ai Čistye Prudy di Mosca.

 

L’affiliazione del Doc alle proteste non poteva che provocare risvolti negativi per il teatro: nell’ottobre 2014 la direttrice Elena Gremina annunciò che il Teatr.doc era stato inaspettatamente privato della propria sede dal Dipartimento dei beni immobili di Mosca, che annullò senza una spiegazione precisa il contratto d’affitto in quanto “invalido”. Il fatto parve a molti sospetto, in quanto il teatro aveva sempre pagato l’affitto e ogni altra tassa, oltre che rispettato le regole di sicurezza, durante gli anni di permanenza nella vecchia sede. Tuttavia, il Doc fu molto prudente e non lanciò alcun tipo di accusa esplicita.

 

Nel gennaio 2015 il Teatr.doc trovò una nuova sistemazione nel salone Rasguljaj, dove continuò la propria attività e riprese a lanciare nuovi spettacoli, fra cui Bolotnoe delo (L’affare di piazza Bolotnaja), dedicato alle proteste di Piazza Bolotnaja e uscito esattamente tre anni dopo la famigerata manifestazione, il 6 maggio 2015. Il dramma, basato su interviste ai familiari di prigionieri politici della protesta, provocò una notevole risonanza mediatica in quanto la polizia si recò presso il teatro ad assistere alle prove dello spettacolo e alla première stessa. Bolotnoe delo, al contario di altre pièce politiche del Doc, è caratterizzata da un “programma positivo” a scapito della pars destruens: focalizzandosi sulle vite dei parenti dei carcerati, la dimensione privata è contrapposta a quella sociale, la casa e la famiglia allo Stato disumanizzato, che nello spettacolo passa sullo sfondo. Sulla scena i quattro attori interpretano i parenti dei prigionieri, recitando ognuno più parti, sia maschili che femminili. I loro ragazzi sono già da tre anni dietro alle sbarre e ormai i parenti hanno raggiunto una consuetudine di vita pur in queste circostanze difficili. La distanza temporale consente anche una distanza emotiva dei personaggi, che ora parlano della prigionia, del processo e della vita dei propri cari in modo accorato ma senza eccessiva commozione. L’esperienza della prigione diventa per i prigionieri una sorta di prova di umanità, e contribuisce a creare una “rete sottoculturale” in cui aiutarsi l’un l’altro e unirsi ancora di più di quando erano insieme in piazza a protestare. L’ingiustizia non può essere cambiata: quello che muta attraverso l’esperienza del carcere è lo sguardo sul mondo, che sviluppa un senso della comunità che non c’era nella società repressiva che li ha condannati. 

 

Alla première di Bolotnoe delo non fu la recitazione attoriale a essere in primo piano, quanto il fatto che gli attori avessero recitato davanti a spettatori fra cui erano presenti gli stessi personaggi rappresentati dalla pièce. Oltre ai parenti delle vittime, alle prove si presentò anche un intruso: un’intera pattuglia della polizia che aveva sorvegliato una prova generale dello spettacolo pochi giorni prima. 

 

La visita indesiderata non fu che l’inizio di nuovi sconvolgimenti per il Doc, la cui nuova sede “definitiva” si rivelò provvisoria: il teatro venne nuovamente sfrattato alla fine del mese di maggio 2015 e la direttrice convocata dalla procura di Mosca. Al contrario di quanto accaduto nell’ottobre 2014, i membri del Teatr.doc furono molto più espliciti nell’esprimere la propria opinione sulle cause dello sfratto: il direttore artistico Michail Ugarov affermò esplicitamente che in modo indubbio la decisione di annullare il contratto d’affitto fosse stata frutto di pressioni dall’alto; secondo Gremina a far accrescere nuovamente l’interesse nei confronti del teatro fu la messinscena di Bolotnoe delo, che istigò ancora maggiormente la procura nella propria intenione di far chiudere il teatro. Infatti, secondo Gremina, non riuscendo a eliminare il Doc privandolo dei finanziamenti pubblici, i persecutori avevano iniziato a utilizzare mezzi giuridici per mettere il teatro in difficoltà. 

 

Dal giugno 2015 il Teatr.doc si trova quindi nella nuova sede sul Malyj Kazennyj Pereulok, dove è tornato subito in funzione portando in scena una serie di nuovi spettacoli. Quasi ad alludere agli eventi recenti, una delle première del Doc nella nuova sede è stato lo spettacolo di Gremina Kratkaja istorija russkogo inakomislja (Piccola storia di un anticonformista russo). Nonostante l’eloquente titolo, che potrebbe far pensare al racconto della vita di un altro oppositore politico contemporaneo, la pièce si concentra sul passato: gli anticonformisti non sono uno ma quattro, e coprono diverse epoche della storia russa, dallo scisma del secolo XVII all’Unione Sovietica. Dall’arciprete Avvakum morto per non abiurare alla propria fede, passando per il giornalista Novikov condannato a 15 anni di prigionia per aver fatto satira sull’Imperatrice Caterina II, si arriva fino alla lettera a Stalin di Nikolaj Bucharin, il quale, assoldato in un GULag come guardia per controllare i “nemici del popolo”, si era rifiutato di assolvere al proprio ruolo per non andare contro le proprie convinzioni etiche. 

 

Il nucleo ideologico della pièce è tuttavia contenuto nel prologo, in cui un attore cerca di convincere il pubblico che i propri pantaloni bianchi siano in realtà neri. Interrogati sul colore, gli spettatori rispondono quindi che i pantaloni sono neri L’introduzione, che inizialmente pare poco chiara, viene ripresa e chiarita in una parte successiva dello spettacolo: durante l’atto dedicato ai fratelli rivoluzionari Bestužev, rinchiusi nella fortezza di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo per attività sovversive, si mostra come i due abbiano inventato un vero e proprio alfabeto basato su colpi sul muro in rapida successione, improntato alla massima chiarezza e semplificazione per poter consentire una comunicazione veloce e senza incomprensioni. Dalla storia di questo alfabeto si sviluppa un interludio in cui gli attori battono i pugni sui muri, urlando “bianco è bianco” e “nero è nero”: l’imposizione altrui di una lingua o di un modo di pensare viene sostituita dalla chiarezza ed evidenza della propria lingua e del proprio pensiero. I prigionieri rifiutano così di conformarsi a schemi prestabiliti dall’alto, pur vivendo “al buio” in un carcere, in cui tutti i colori potrebbero confondersi fra di loro. Questo episodio agisce in modo potente sul pubblico, che interrogato nuovamente sul colore dei pantaloni, questa volta risponde “nero”. 

 

 

Attraversando le diverse epoche questa storia di anticonformisti russi arriva idealmente fino al presente del Teatr.doc: un collettivo che, rifiutando una fede (religiosa o politica) precostituita e basata sul conformismo, e pagandone con limitazioni alla propria libertà, tenta di convincere gli spettatori che le risposte alle domande sono nelle proprie convinzioni personali, basate sull’amore per la libertà e l’uguaglianza.

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