Un'intervista / Enrico Morteo e il Grande Atlante del Design

24 Dicembre 2019

“È stata una grande avventura questo entrar nella fabbrica e nel suo mondo”. La citazione di Marco Zanuso, uno dei padri pionieri di quel fenomeno che viene compreso sotto il nome “design italiano”, è una delle molte sintesi che si incontrano lungo il percorso di lettura che Enrico Morteo ha tracciato nella nuova edizione del suo Grande Atlante del Design, dal 1850 fino a oggi (Mondadori Electa, 2019, p. 440). Nell’individuare alcune storie minori da raccontare all’interno della storia magniloquente del Novecento, usa anche parte dell’Ottocento per fissare e far meglio comprendere l’evoluzione degli oggetti d’uso fin dal sorgere dell’industria nei suoi primordi, un fenomeno che non solo ha stravolto la vita degli uomini ma che ha cambiato in maniera irreversibile la vita del pianeta stesso.

Questo Atlante si pone, quindi, come opera frammentaria, non definitiva, curiosa in quanto composta di tanti episodi che hanno il pregio appunto di sorvolare “a volo d’uccello” un’epoca, quella che corrisponde all’industrializzazione per come si è posta fin dall’inizio della sua comparsa come grande rivoluzione di oggetti, di prodotti e merci: non più esattamente manufatti ma qualcosa che è prodotto con regole e metodi nuovi, prodotti celebrali nel senso che per la prima volta la loro realizzazione era affidata – in outsourcing si potrebbe dire – alle macchine, le grandi antagoniste dell’uomo faber, in un’epoca in cui esse erano ancora sostanzialmente concepite come servitori obbedienti. 

Un libro denso di storie cha vale la pena conoscere, di oggetti di cui conosciamo l’esito, la forma finale, ma spesso non le situazioni di contorno, il contesto, gli uomini che li hanno generati, ma soprattutto un libro che ha il pregio di essere ben scritto in un campo dove il linguaggio per raccontare è spesso contorto o indigesto.

 

Questa collezione di esempi eccellenti penso che sia importante anche perché è un modo per fare capire che dietro a ogni oggetto, alla sua apparenza di forma accattivante, seducente o anche solo utile, ludica o semplicemente bella, esiste una comunità di persone più o meno conosciute che lavorano per raggiungere un buon risultato (siano essi anonimi addetti ai lavori oppure star del design proiettate nel circo della comunicazione mediatica). 

Ecco, quest’aspetto della comunità creativa, e operativa, di persone è un aspetto che oggi fa pensare, perché anch’esso, a suo modo, e purtroppo tra i molti che ci circondano, è un ecosistema in via di estinzione. 

Si potrebbe pensare che quello che traccia Morteo è un grande atlante dell’approccio analogico al progetto: in rassegna ci sono quasi tutti oggetti che nascono da idee forti, da un pensiero tutt’altro che debole che richiede per essere messo in atto il coinvolgimento di intere collettività.

Possiamo chiederci: è forse finito quell’ecosistema fatto di industria, designer, artigiani, tecnici, inventori, semplici copiatori, traduttori di idee altrui, addetti ai lavori di vario genere, insomma tutto quell’insieme di persone che vivevano attorno al design, all’industria, ai prodotti ben fatti e, nel perseguire il modello della qualità accessibile a tutti, poteva vivere, pagarsi il lavoro, mantenersi, sopravvivere o far vivere questa comunità di persone? È forse in via di estinzione questo modello? 

 

 

È finito il modello, anche ingenuo, del Bel Design Italiano che combatteva la diseguaglianza sociale – (perché va detto che i maestri del design italiano erano progressisti) – propugnando l’idea della qualità per tutti attraverso oggetti ben risolti, eleganti e bellissimi, anche sapendo che questo modello era un’utopia, anzi proprio sapendo che questi piccoli gesti, pur essendo destinati al fallimento, erano comunque un modo per immaginare una realtà “altra” che raccontasse un’alternativa possibile?

Certamente il senso di quest’atlante è di sorvolare il magma indistinto della produzione di merci che corre ininterrotto dal XIX al XXI secolo, invitando non tanto a soffermarsi troppo sulla perfezione dell’elenco (o le sue eventuali omissioni) quanto proprio sullo stile del racconto, che per me suona come una sorta di biografia degli oggetti, che è poi l’ambizione di chi scrive intorno al design e cerca di dipanare il groviglio dietro alla forma. 

In tutto questo ho avuto l’occasione di porre alcune domande a Enrico Morteo. Qui di seguito la trascrizione di quest’incontro.

 

Dichiaro subito che mi è sempre piaciuto leggerti, e premetto che, sfruttando l’occasione di questo libro, mi interessa porre la questione di come raccontare il design. Appartieni a una generazione di autori cresciuti nella domus di Mario Bellini che ha fatto un grande sforzo per raccontare gli oggetti scavando attorno alle ragioni che determinano le scelte formali, tecniche, produttive e sociali e insomma hanno cercato di costruire un vocabolario per parlare di design in quanto fatto umano per eccellenza che riguarda la trasformazione dell’ambiente abitato. In genere, invece, nel racconto del design prevale spesso un tono enfatico in cui tutto viaggia sopra le righe, oppure è adottato un gergo per addetti ai lavori, un discorrere anche parecchio contorto. Insomma questa lunga premessa per dire che la cosa che ho apprezzato di più di questo libro è il modo di raccontare che poi è la tua forza, in radio o sulla pagina scritta, grazie al quale costruisci attorno alle cose, anche la più apparentemente banale, una storia affascinante. Esaurita la captatio benevolentiae, vorrei chiederti quali sono i ragionamenti che ti hanno guidato per questo Atlante.

 

Direi che a forza di farmi delle domande e cercare le risposte è venuto fuori questo libro. Sono cresciuto in una cultura fortemente ideologica, segnata da un gran interrogarsi su cosa fosse il design. Ogni libro che aprivi proponeva una definizione diversa. Per qualcuno era una questione funzionale, per altri economica, oppure era frutto di buon rapporto con la tecnologia, o al contrario derivato dalle influenze artistiche... non lo sapeva nessuno cose fosse questo design. Allora mi sono messo d’impegno per provare a trovare una risposta sintetica e mi sono convinto che il design appare là dove le urgenze pressanti generate della modernità trovano delle risposte intelligenti, coerenti ed efficaci; come ben sappiamo, la modernità nasce da due rivoluzioni, quella illuminista e quella industriale. E le rivoluzioni sono cose violente, che tendono a spazzare via tutto quello che esisteva prima. 

Così, dopo molti anni di pensieri spesi attorno al design, a un certo punto, sono stato illuminato dalla convinzione secondo la quale il design altro non è se non una strategia per affrontare il nuovo. E per nuovo intendo tutto quello che è cambiato nel momento in cui si è usciti dall’Evo antico e si è entrati nell’Evo moderno: in questo senso la modernità inizia a delinearsi già nel Seicento.

 

 

Dici che si può già parlare di design?

 

Design non ancora, ma molti dei suoi fondamenti sono già messi in campo nel Seicento. Penso ad esempio al calcolo differenziale, che ha implicato un’idea di scomposizione del mondo in parti più piccole, che possono essere affrontate singolarmente. Smontare sistemi complessi è una premessa determinante per la modernità. Tra Sei e Settecento, inoltre, entra in crisi tutto il sistema delle unità di misura. Quando si passa al metro, al chilo e al litro, il mondo cambia. Io penso che in quel frangente non sia stato buttato all’aria solo un sistema di misura, ma un’intera rappresentazione della realtà. Fino ad allora il mondo era fatto a misura della mano, del pollice, del palmo, del piede, del braccio. Conoscevamo il mondo attraverso il nostro corpo, con un sistema di percezione che definirei in presa diretta. Quando si entra nella modernità e si passa al chilo o al litro, questa esperienza si perde. È molto diverso definire lo spazio in giornate di lavoro o in metri quadri: in questo passaggio lo spazio diventa neutro e perde il ricordo del sudore, della fatica.

Ovviamente la contropartita è molto importante: se ci si danno nuove regole, si possono uniformare gli oggetti, per cui potrò trovare le stesse viti a Rehims come a Dijon, e potrò far circolare più liberamente macchine o manufatti.

In quest’operazione che apre la via a quella che diventerà la nostra modernità scompare però un ricco vocabolario di relazioni che davano senso e valore agli oggetti: ci si vestiva in un certo modo a secondo della corporazione a cui si apparteneva, si davano nomi speciali agli attrezzi di lavoro, ciascuno usava diverse unità di misura... e via discorrendo. Si viveva in un mondo approssimativo, ma estremamente vivo e presente, anche un po’ magico, di cui tutti sentivano di far parte. La modernità invece ci offre un mondo esatto, che dominiamo dall’alto e che possiamo inscrivere fra tre assi cartesiani, ma da cui siamo anche un poco esclusi.

 

La modernità imbocca la strada della rinuncia a un orizzonte simbolico molto ricco

 

La modernità ci offre un mondo tutto nuovo, neutro e svuotato delle credenze del passato. Anche l’uomo moderno è un uomo nuovo che deve essere ripensato, rivestito, rifondato. Contemporaneamente però, la modernità ci offre quegli straordinari congegni che sono le macchine, capacissime di riempire quel vuoto con un’infinità quantità di merci di ogni genere e tipo, molte del tutto prive dei senso.

Ecco, io ritengo che la nascita del design coincida esattamente con il momento in cui gli oggetti che si riversano nel vuoto aperto dal moderno non si propongano semplicemente di riempirlo, ma cerchino da dargli un senso, sforzandosi di chiarire quali siano le relazioni che intratteniamo con questa nuova disponibilità.

Con questo spirito sono andato cercando oggetti capaci di interpretare il flusso di cose prodotte dall’industria. Una ricerca che alla fine mi ha convinto che non sia tanto vero che il design lo fanno i designer, ma, al contrario, siano piuttosto i designer ad essere definiti dagli oggetti: chi fa un oggetto intelligente che funziona, è un designer, ma non è sempre detto che chi si auto-conferisce il ruolo di designer riesca a veramente a fare il design.

 

A me pare che la selezione di oggetti a cui ti sei dedicato con tanta cura 

possa aiutare a comprendere meglio il presente perché individua quali sono i capostipiti, gli archetipi o anche solo i ragionamenti che sono già stati fatti per risolvere problemi che tendono a riproporsi sotto nuove sembianze, in questo senso aiuta a fare un po’ di ordine e nello stesso tempo serve ad aprire delle prospettive.

 

La formula editoriale cui dovevo attenermi prevedeva un numero dato di pagine e un ritmo molto serrato dettato dal passo della sequenza di schede: due pagine per ogni oggetto, in una sorta di carrellata di ‘capolavori’. L’idea di saltare da un oggetto all’altro muovendomi senza mettere in relazione i diversi argomenti mi dava molto disagio, per cui ho cercato di selezionare oggetti che avessero storie emblematiche da raccontare e, lavorando fra le pieghe dello schema, ho introdotto alcune schede di inquadramento generale che aiutassero a tessere una trama e, allo stesso tempo, stringere il fuoco su alcuni temi. 

Alla fine, la costrizione dell’impianto editoriale mi ha aiutato a selezionare oggetti particolarmente significativi, in certi casi inaugurali e originali, ma comunque sempre emblematici di qualche emergenza tecnologica o di comportamento sociale.

 

 

Il titolo stesso, Atlante, implica l’ambizione di dare degli orientamenti, di delineare una specie di mappa e mi immagino che tu sia partito da cose assodate e riconosciute, altre inaspettate e curiose, altre ancora che piacciono a te o che seguono altri ragionamenti... per questo penso sia utile parlare del sistema di regole che ti sei costruito.

 

Prima di tutto mi sono dato confini nazionali. Non credo che la modernità si sia affermata dappertutto allo stesso modo. C’è una modernità americana che, per necessità, precede quella europea. Sono convinto che accettare e fare propria la modernità abbia comportato per gli europei uno sforzo sovrumano. Secoli di stili da superare, rivolgimenti sociali profondissimi, radicali trasformazioni urbane. E poi artigiani raffinatissimi rovinati da una macchina, che non era brava come loro ma era più veloce e costava infinitamente meno. Non fu facile trovare forme adatte alle possibilità di macchine ancora primitive, o perlomeno forme che piacessero tanto quanto quelle che l’artigiano faceva, a mano, benissimo. Insomma, diventare moderni, significava rinunciare a un sacco di cose. In America invece significava inventare qualcosa che prima non c’era. Il futuro in presa diretta, senza un passato in cui rifugiarsi. Gli Americani sono moderni per destino, quindi è stato del tutto naturale decidere di cominciare da lì.

E poi ci sono cose che non potevano mancare, altre invece mancano perché non mi sono mai piaciute, alcune le ho scelte seguendo le mie passioni o ascoltando idiosincrasie. In alcuni casi ammetto di avere cambiato idea in corso d’opera.

 

Intanto il problema è capire da dove partire e dove finire. Per esempio perché iniziare dal 1850?

 

Mi serviva una data che segnasse un confine. Mi ero chiesto quanto indietro aveva senso andare, e sono andato a cercare i primi oggetti che ancora oggi riconosciamo come nostri contemporanei. E che in alcuni casi sono ancora in produzione, Allora gli Shaker, le case costruite con sistema leggero del Balloon Frame, il revolver e i blue jeans. In Europa le sedie Thonet. Tutti oggetti che più o meno risalgono alla metà dell’ottocento.

In alcuni casi poi mi sono imbattuto in storie emblematiche, come quella della mietitrebbia: per me una storia bellissima. A volere una macchina capace di falciare il grano erano gli inglesi, che fecero addirittura un concorso per scegliere la migliore. Ma tutte li delusero e il premio non fu assegnato. Un americano in viaggio in Inghilterra vide i risultati del concorso e pensò che nel Mid West di una macchina di quel tipo ce ne sarebbe stato gran bisogno. Scopiazzando qua e là si industriò per costruire una macchina che poteva mietere 70 metri di campo in un minuto circa. Quando la espose alla Great Exhibition di Londra del 1851 gli inglesi la giudicarono goffa e inelegante, ma negli Stati Uniti se ne vendettero a migliaia, innescando una vera e propria rivoluzione agraria: la potenza del nuovo mondo. 

 

In generale, quello che noto è che è più facile leggere gli oggetti in chiave tecnologica, ma molto meno in quella formale.

 

In effetti la chiave formale mi interessa poco. Ho tentato di leggere il design come un fatto culturale, cercando i momenti in cui tecnica e comportamenti si incontrano e si influenzano a vicenda.

Ho cercato di mettere in luce oggetti e progetti che secondo me sono rappresentativi della modernità nei suoi aspetti più diversi. Come il rock, sintetizzato nella chitarra elettrica usata da Jimmy Hendrix; gli sci Head o gli sci d’acqua Freyrie, perché per i moderni la velocità diventa un brivido, un gioco a cui nessuno aveva mai giocato prima. Sono queste cose che mi interessava venissero fuori: modi di vivere moderni, e gli oggetti che danno senso o corpo a questi comportamenti.

La selezione è stata necessariamente severa perché avevo a disposizione relativamente poche schede per tanti anni. Anche per questo ho cercato di essere rigoroso con il nostro passato prossimo, senza abbandonarmi troppo alle tentazioni della cronaca.

Ho cercato piuttosto di seguire la fine delle avanguardie e descrivere un design diventato più rassicurante e borghese. Dalla metà degli anni Ottanta, ad esempio, molti designer italiani hanno iniziato riscoprire oggetti dimenticati o riscrivere le esperienze provocatorie degli anni precedenti. Dalla riscoperta dell’abatjour alla normalizzazione dell’imbottito, dal ridisegno della lampada anglepoise alla trascrizione in termini più accettabili e vendibili della cruda estetica introdotta dal progetto radical.

Mi sarebbe piaciuto parlare anche delle piastrelle dello shuttle, ma l’oggetto in sé è poco narrativo e alla fine l’ho lasciato fuori.

 

 

E l’oriente?

 

C’è poco lo ammetto: il walkman della Sony, Sori Yanagi, ma sono oggetti infilati nelle pieghe di un libro onestamente molto legato alla cultura occidentale.

 

Come hai affrontato la contemporaneità?

 

Mi sembra che di fronte all’abbondanza del contemporaneo la scelta diventi estremamente difficile. Venute meno le rigidezze delle ideologie, sembra che tutto possa essere accettato e in qualche misura sia intercambiabile. E poi, ammettiamolo, gli oggetti non rappresentano più l’avanguardia della ricerca e del progresso. Oggi la frontiera è definita dall’elettronica, dalle nanotecnologie, dai superconduttori, dalla biotecnologia, dalla sfera dei social network e della comunicazione. Ci tenevo però ad alcune aggiunte. Una riguarda il lavoro di Hella Jongerius perché forse è l’unica, o la prima, o comunque la più brava ad aver fatto della decorazione un contenuto e non semplicemente una decalcomania da appiccare sull’oggetto; per me lei è il paradigma di un modo intelligente di investigare il linguaggio attraverso la decorazione. Poi ho aggiunto Nendo che mi pare rappresenti la definitiva conquista di un vero ‘stile design’, affidato a precisi stilemi, opportunamente dosati fra loro, che oscillano dalla funzionalità all’ironia, dall’arte alla tecnologia in un perfetto gioco combinatorio. Certo, se il design è destinato è destinato a diventare un gioco, un po’ mi dispiace, perché mi sembrava più bello quando c’erano anche delle cattiverie, delle sfide o quanto meno delle illusioni. Per questo ho voluto inserire anche un richiamo al progetto di una designer argentina, Diana Cabeza, che lavora con gli arredi pubblici e collettivi, cercando di restituire identità e senso agli spazi urbani condivisi.

 

A me piace che cerchi di fare una storia partendo dal basso, attraverso gli oggetti

 

Io sono per una cronaca popolare e spontanea. Sono assolutamente convinto che gli oggetti siano dei ritratti e quindi, quando guardo un oggetto, vado a cercare qual è la faccia, il portamento, l’abitudine, il vizio, il vezzo che ci sta dietro. È così che guardo al design e agli oggetti.

 

Chi è stato il tuo maestro?

 

All’università sicuramente Piero Derossi, mio relatore di tesi. Con lui ho esplorato i confini della crisi della modernità, attraversato la controcultura radical, annusato le ricerche pop inglesi e americane. Poi, quando approdai fortunosamente a Domus, Mario Bellini. Diversissimo, ma concretissimo e molto originale. Un episodio rimane per me emblematico: di fronte a una nuova sedia, a chi gli chiese quali criteri adottare per esprimere un giudizio, lui disse candidamente: “sedendosi sopra”. 

 

 

Come ti sei inventato il modo di raccontare il design?

 

Leggendo molto. Leggendo Perec, Barthes, Baudrillard, Augé e suoi non luoghi, ma anche l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. E poi Papanek e i volumi di Whole Earth Catalog, sorta di compendio della controcultura americana. E ancora Charles Jencks, Mario Perniola, Leroi-Gourhan... me li sono divorati quando scrissi la tesi di laurea incentrata sul trapasso dal moderno al postmoderno. Fu allora che cominciai a pensare che gli oggetti raccontassero delle storie. 

Ho imparato da tante fonti, ma poi ho studiato come un dannato. Ero nella redazione di Domus, dovevo scrivere di orologi Swatch, dell’evoluzione della lavatrice, delle sedie disegnate dai maestri dell’architettura moderna e mi arrovellavo per trovare un senso a quegli oggetti misteriosi evitando le scorciatoie dalle frasi fatte e dei luoghi comuni: la funzione, la coerenza dei materiali, la qualità. Ma cos’è la qualità? Mi sono spaccato la testa per star lontano da quella roba. 

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