Fondazione Beyeler / Giacometti, Bacon: la cenere e la carne
Il 13 luglio 1965 Alberto Giacometti incontra a Londra Francis Bacon, che conosce e ammira il lavoro dello scultore svizzero. È grazie alla pittrice Isabel Rawsthorne, per un periodo amante di Giacometti e amica comune, che si incontrano: la donna, una figura carismatica che fa parte dell’avanguardia parigina, posa come modella per entrambi gli artisti; la sua presenza avvicina i due ed è testimoniata in alcune opere in mostra, tra cui Femme au chariot (1945) e Portrait of Isabel Rawsthorne Standing in a Street in Soho (1967). Al tempo, Bacon non è il solo grande artista a guardare con rispetto alla produzione di Giacometti: la cronaca racconta che Pablo Picasso, dopo la guerra, si sia recato in visita allo scultore e gli abbia comunicato “Sono venuto qui per dirti che ci sei solo tu” (Giorgio Soavi, Alberto Giacometti. Il sogno di una testa, Mazzotta, 2000, p. 20).
I due giganti si sono incrociati poche volte nella loro vita, ma l’appuntamento del 1965 è documentato dalle foto scattate da un giovane Graham Keene, durante l’allestimento della personale di Bacon alla Tate’s Gallery di Londra. Vediamo la testa arruffata, piena di segni dello svizzero, un volto che parla di fatica di vivere, eppure illuminato da una forma di grazia; dall’altra parte Bacon, con i suoi occhi incandescenti, spiritato, lui che dichiarerà di Giacometti “This is the man who has influenced me more than anyone”. Otto anni li separano, e a Giacometti rimangono solo pochi mesi di vita: tra loro sembra esistere un’affinità di lungo corso, un dialogo che sembra anticipare un’amicizia che, però, non avrà mai il tempo di compiersi. Sono due autori che hanno raggiunto la fama nel mondo dell’arte, conducono vite ugualmente disordinate e frequentano il mondo intellettuale, che gli tributa fama e rispetto. Del loro “cerchio magico” fa parte anche Ernst Beyeler, che colleziona e contribuisce alla diffusione delle opere dei due artisti. Tra queste, alcune sono oggi esposte nella meravigliosa mostra alla Fondazione Beyeler, costruita attraverso prestiti privati e istituzionali prestigiosi – tra cui il Moma di New York, il Centre Pompidou di Parigi e l’Art Institute di Chicago –, dove sono visibili numerosi lavori raramente esposti come Buste d’Annette IV (1962), inedito installato nell’ultima sala, o Figure in Movement (1972).
Le vite degli artisti sono piene di contraddizioni e increspature, e le vite di Alberto Giacometti e Francis Bacon sono state colme di conflitti e dissipazione, tanto che le difficoltà delle loro reciproche esistenze interiori sono equiparabili solo all’importanza che la loro ricerca riveste nell’ambito dell’arte del ‘900. Questa smisurata grandezza non ha avuto luogo in virtù di una difficoltà che li accompagnati per tutto il loro cammino: l’idea dell’artista romantico, strapazzato dalla propria musa e la cui ispirazione è alimentata dal dolore è un cliché tanto pervicace quanto dannoso. Quello che invece possiamo rilevare è una comune, dolorosa attitudine alla vita, una tragicità che in modi differenti ma contigui, ha accompagnato passo dopo passo i due autori, accrescendone il mito e contribuendo ad alimentare quell’ossessione che li ha condotti, attraverso uno scavo implacabile, a toccare le più recondite profondità dell’essere umano.
Vedendoli oggi a confronto nelle sale della Fondazione Beyeler di Basilea ci si chiederà perché nessuna istituzione abbia provveduto prima a realizzare un’esposizione così necessaria. A partire dal nucleo espositivo, composto da cento opere di prim’ordine, la mostra curata da Catherine Grenier, direttrice della Fondation Giacometti di Parigi, da Michael Peppiatt, esperto dell’opera di Bacon e suo amico, e Ulf Küster, curatore della Fondazione Beyeler, offre un percorso esaustivo, che mette in luce i punti di contatto, le assonanze e le differenze che intercorrono tra le opere del pittore irlandese, autodidatta, e lo scultore proveniente da una famiglia di artisti, il maestro svizzero che amava definirsi “lombardo”.
Di fronte alle opere che costellano il percorso espositivo, difficilmente si coglierà quell’elemento comune che avvicinò i due artisti nella pratica quotidiana dell’arte e che fu il dubbio. Nella potenza espressiva delle tele di Bacon e nei corpi combusti di Giacometti non è immediato rinvenire il tarlo che possiamo definire come il loro “minimo comun denominatore”; eppure, fu proprio una costante, ineffabile insoddisfazione ad alimentare la ricerca dei due, rinchiusi nei rispettivi studi, più simili a tane che a luoghi di sapere, sepolti da giornali e materiali di lavoro, disordine, fumo e alcool, l’uno immerso nelle fotografie che utilizzava come fonte d’ispirazione per le sue tele, l’altro in lotta con i modelli che obbligava a estenuanti sedute di posa, quasi costretti a non respirare per non “perdere la faccia”, una condizione transitoria che cercava di fermare nella terra, incidendola nella materia attraverso le dita e le unghie.
Fu Bacon a dichiarare “I have never succeeded, and because of that I carry on; otherwise, I wouldn’t paint anymore. I keep hoping something will happen.” (nota a p. 17 del catalogo), e gli faceva eco Giacometti che continuava a ripetere come un mantra “non va”. Ecco un passaggio di un’intervista rilasciata alla Televisione della Svizzera Italiana dallo scultore:
«Senta, Giacometti, cosa sta facendo?»
«Una testa. Insomma, l’unica cosa che ho voglia di fare è la testa. Così. È così, è difficile e non ci riesco. Allora...»
«Come, non riesce?»
«Non ci riesco. Per niente. Non ci riesco.»
«Ricerca la testa? O una testa?»
«Una testa qualunque. Sono incapace.»
«E questi corpi, così allungati, sono ispirati forse ai suoi corpi?»
«No, no. È involontario, non voglio più farli allungati. Diventano allungati malgrado me stesso; ma non erano allungati. Io vorrei farli, non lunghi eh, ma non riesco. Fino ad adesso non ho mai fatto, non un giorno dal ‘35 in poi, non ho mai fatto un cosa come volevo. È sempre uscita una cosa diversa da quella che volevo. Sempre. Io vorrei fare teste normali, figure normali. Insomma: non ci riesco»
«Ma lei come giudica in generale le sue opere?»
«Male. Beh, sono tutte scadenti.»
«Questa è la forza dell’artista, no? La continua ricerca.»
«No, no. Io non sono riuscito. Sono delle ricerche mancate. Unicamente delle ricerche mancate, ecco.» (G. Soavi, cit., p. 45-46)
Non si tratta di una civetteria d’artista: sicuramente sia Giacometti che Bacon ne hanno avute molte, ma non rispetto alla lotta quotidiana che ognuno dei due si è trovato a combattere con l’oggetto della propria arte. C’è qualcosa di sacro nell’ostinazione con cui entrambi hanno cercato, attraverso la materia, di portare alla luce le forme, interrogando lo spazio e la carne, un’intenzione così lucida e determinata che ancora oggi lascia esterrefatti.
Entrambi hanno lavorato essenzialmente sulla figura umana, seguendo fonti di ispirazione differenti, metabolizzando la storia dell’arte e le avanguardie fino a diventare loro stessi un’avanguardia, inventando una nuova lingua e riuscendo nell’impresa titanica di creare qualcosa che fosse dentro e fuori dal proprio tempo, un’opera universale ma al contempo completamente specifica, nella quale si inseguono gli echi della scultura etrusca e la statuaria egizia, gli affreschi pompeiani e Velasquez, l’astrazione americana, l’arte negra e lo spazio del Bauhaus, il surrealismo, i cristi medievali e il Barocco. Quel modo di lavorare ha a che fare con una inesorabilità della pratica dell’arte, qualcosa che attiene a un tempo passato (non solo al Modernismo) e alla solitudine.
E certo, entrambi furono abitati da fantasmi. Nelle figure scavate di Giacometti e nelle creature urlanti di Bacon non si può non cogliere la voce dell’Europa lacerata dalle guerre, ma le presenze che popolano il lavoro dei due sono anche e prima di tutto apparizioni private, spettri della psiche e incubi che attengono alla propria, individuale umanità. In ogni amante, modello o immagine ritratta, quello che appare, come un riflesso che si sdoppia e prende vita, è una figura denudata – e per questo ridotta in cenere o deformata, avendo rinunciato all’apparenza per mostrare una realtà più fonda – ma anche il ritratto di un’impossibilità che appartiene all’artista stesso, la proiezione di un tormento che ha sempre a che fare con uno iato insanabile tra percezione e rappresentazione. Si tratta perciò di rivelare una presenza, che risiede al centro di ogni essere umano, e nel proprio io: su questo doppio registro rappresentativo, in una duplicità insanabile, risiede in parte la malìa che queste sculture e tele gettano anche oggi sullo spettatore, che si trova risucchiato in un vortice di rispecchiamenti. Non di meno, le risonanze tra i lavori dei due artisti vanno al di là di una comunanza di temi e di sensibilità, per sfociare in misteriose corrispondenze formali, come nel caso di Trois hommes qui marchent (petit plateau) del 1948 e Marching Figures (1952) o di Study for a portrait (1952) e di Tête d’homme (n.d.).
Ci sono forze che si agitano nelle tele di Bacon e nelle figure di Giacometti: in Three Studies of Henrietta Moraes (1969) qualcosa spinge da dentro, obbliga la carne a cambiare la propria forma, soccombendo a un’altra forma che cerca di emergere. Non è solo un movimento in uscita, lacerante, un prolasso carnale e poi psichico, ma anche una spinta centrifuga, che prima deforma e poi investe anche lo spazio attorno alla figura, abbracciando la possibilità dell’astrazione. Qualcosa di simile accade nelle figure di Giacometti, che sembrano condannate dall’auto-consunzione da un’energia interna che si manifesta modellando la forma esteriore della figura, come nella composizione minuta di La Forêt (1950). Un forza che consuma e assomiglia all’istinto della sopravvivenza, alla fame, qualcosa di liminale eppure inestinguibile. Giovanni Testori ne scrisse sul Corriere della Sera con parole acute, cogliendo quella fiamma sottile:
“La forza di resistenza che l’opera di Giacometti possiede; una forza tenace e insieme esilissima; una forza ridotta, ecco, a lucignolo stesso di quella povera, ferita, offesa e bestemmiata candela che è l’esistenza”. (Giovanni Testori, Lo scultore del Nulla, Corriere della Sera, 2 ottobre 1991)
A Bacon, altro suo immenso amore intellettuale, Testori dedicò alcune delle sue pagine più intense, portando la scrittura d’arte a traboccare, per allargarsi a un territorio ibrido tra parola e segno pittorico. Nei passaggi delle Suites per Francis Bacon, scritti pubblicati postumi, la lirica ecfrastica cerca di compiere il salto per carpire lo spirito dell’opera del pittore:
“attorno alla sedia gestatoria
pende la carcassa umana,
ventre divaricato,
vano.
Urla:
trapassa dall’immemore del tempo
all’ardente, irrisolvibile presente;”
Le forze che abitano le opere di Giacometti e Bacon trovano un bilanciamento anche grazie alle gabbie che i due artisti introducono nelle proprie composizioni;, talvolta esplicitate come nel confronto che apre la mostra tra Head VI (1949) e Le Nez (1947-49), in La Cage (1947-49), presente in mostra sia nella versione in bronzo che in gesso, o in Study of a Nude (1952-53); talvolta solo percepibili, ma sempre presenti, come in tutto il ciclo dei “papi urlanti” di Bacon, dove lo spazio è sempre claustrofobico, controllato. Sono gabbie che indicano allo spettatore che si sta muovendo nel dominio della mente, ma sono anche perimetri simbolici in cui la figura è costretta, prigioni da cui è impossibile fuggire, pena la dissoluzione nel nulla. Senza quelle gabbie, sembra che la figura non possa essere, che attraverso quelle costrizioni trovi le coordinate per esistere nel mondo e da esse non possa prescindere. La griglia reifica un perimetro mentale, determina lo spazio e lo definisce, anche in assenza. E, per stessa ammissione di Bacon, le “scatole” sono strumenti che convogliano l’attenzione verso la figura, esaltandone la presenza in relazione allo spazio: un bellissimo esempio è Chimpanzee (1955), con la misteriosa figura bestiale addossata alla parete, o lo Study for Portrait VII (1953), con il papa che, come un morto vivente, sembra uscire da una bara.
Se la gabbia stabilisce una relazione tra la figura e lo spazio, il colore in Giacometti soggiace all’imperativo della dissoluzione: è il grigio cenere, il grigio delle matite dure con cui graffia i propri disegni, le patine che il fratello Diego applica alla sculture che riesce a sottrarre di notte alla distruzione da parte di Giacometti stesso. Senza di lui non avremmo testimonianza di gran parte del lavoro dello scultore, che tendeva a riprendere incessantemente il pezzo lasciato incompiuto il giorno prima, senza giungere mai a una fine, preda di un febbrile bisogno di rifacimento. Per Bacon invece il colore è presenza, è brutale e dinamico, agisce come se fosse una figura a sua volta, esiste con una propria fisicità e presenza scultorea. Lo è nei neri profondi, che sembrano mangiarsi la luce, e nei grigi-bianchi mortiferi dei papi o di certe teste, a cui fanno da contraltare le squillanti cromìe dei senape, i verdi acidi, gli azzurri dei trittici. Tale evidenza si riscontra nelle magnifiche tele esposte nella sala numero 7, dove il rosa struggente di In Memory of George Dyer (1971, dedicato all’amante suicida) o il raramente visto Three Studies on Figures on beds (1972), che si alternano a tele singole come Lying Figure (1961) o Study for Bullfight No.2 (1969) e accerchiano le figure di Giacometti, tra cui Grande Femme III (1960), L’Homme qui marche II (1960), Femme de Venise I (1956, opera realizzata per la Biennale di Venezia) in una visione che lascia sgomenti per intensità drammatica. È qui dove si evidenziano anche i differenti approdi a cui giungono i due artisti: da un lato la violenza visiva di Bacon, controllata da una straordinaria sapienza formale ma pur sempre preda di un dinamismo senza scampo; dall’altra la ieraticità delle figure di Giacometti, come appartenenti a un altro tempo, idoli distanti e silenziosi.
A guardare oggi le opere di Giacometti e Bacon viene di chiedersi, come già fece Testori alla fine degli anni ‘80, cosa si sia salvato. Tutto e niente, potremmo dire. Gli “scorticati” di Bacon, figure senza pelle – simbolicamente e formalmente – che discendono direttamente da El Greco e Tiziano, insieme alle sue creature deformate, nate dalla visione di cristi e crocifissioni, dalle linee plastiche di Cimabue e Parmigianino, dalla grande ritrattistica seicentesca, hanno alimentato le visioni di autori a lui postumi che, nel campo delle arti visive e del cinema, hanno attinto per decenni a piene mani dal suo lascito. In modo meno evidente, qualcosa di simile è accaduto a Giacometti, vittima anch’esso di una extra-esposizione, vertice della scultura figurativa contemporanea a cui molti si sono ispirati ma la cui ricerca, allo stesso tempo, ha dimostrato di contenere in sé la propria fine, un capitolo figurativo che si è concluso con un ultimo slancio bruciante, verticale. Dopo Giacometti e Bacon, per la figura sembra esserci solo la dissoluzione o l’astrazione. La loro arte, potente nella propria differente fragilità, rappresenta una stagione all’inferno irripetibile, una strada che il contemporaneo non può più percorrere, disorientato com’è da fantasmi digitali che impongono una riflessione sul corpo radicale, ora che si profila con più chiarezza il passaggio da un’umanità carnale a un’umanità aumentata.
O forse no, forse c’è sempre una possibilità della forma, ma questo ce lo potrà rivelare solo il prossimo artista in grado di arrivare là, dove sono stati loro.