Bangkok e la democrazia

30 Dicembre 2013

Alternando giorni di visita sostenuti ad altri più cool, trascorro una giornata sul vaporetto visitando un paio di templi buddisti. La sera cammino per Th Samsen, via di scorrimento poco interessante ma che mi conduce dritto nel cuore della vivace Banglamphu, quartiere storico di Bangkok. Ripiegata la mappa, a guidarmi solo il naso e i piedi, che mi conducono nel mezzo di una manifestazione imponente. Che fare, trasgredire il buon senso e quanto riportato come una litania dalla stampa internazionale, cioè che bisogna tenersi alla larga dalle proteste, che basta fare il turista provetto e non succederà niente? Difficile misurare il senso del pericolo in un paese straniero e poi non ho né cellulare né twitter. Nel 2004, nel sud del Paese, ci sono stati 85 morti nel corso di una manifestazione (incidente di Tak Bai). E la farmacia ambulante e gratuita per i manifestanti dovrebbe essere un ammonimento palese.

 

Ora, viaggiare non vuol dire mettersi un po’ in pericolo di vita, percepire la fragilità dell’esistenza? Niente di avventuroso, niente bungee jumping (perché pendolare nel vuoto come un prosciutto?), ma un senso ottuso e affatto spiacevole. Un morire che non somiglia alla morte ma a un’attività come un’altra, che si compie nel tempo libero. Mettersi in pericolo di vita non ha la morte come orizzonte, non è il trifoglio giallo del pericolo radioattivo ma, al contrario, un pericolo di vivere. E se il viaggio non è questo mettersi in pericolo di vivere allora cos’è?

 

 

Deliri speculativi a parte, quel che più importa è che ho delle scarpe buone per correre, non ho zavorre e poi sono un sopravvissuto del G8 di Genova: ricordi il pullman di ritorno per Roma con un terzo dei nostri che non rispose all’appello? e il modo agghiacciante in cui l’evento fu trattato da stampa e televisione? E se mi fermano dirò che sono l’inviato speciale di Doppiozero, lo dirò con tale convinzione da dissuadere chicchessia. È fatta, il programma serale è ormai compromesso. Improvviso il pasto spiluccando negli stand lungo la strada. Niente pane e porchetta da queste parti ma: una zuppa leggera con dei noodles (offerta), una pannocchia (offerta), dell’acqua (offerta), un succo di melagrana e un gelato di cocco servito tipicamente dentro la noce assieme alla polpa (meno di 2 euro). Un menù un po’ funky ma sono sazio.

 

 

Con la folla attraverso Th Ratchadamnoen, una delle grandi arterie di Bangkok in stile europeo, finché ci troviamo al cuore della manifestazione, il grande slargo col monumento alla Democrazia, l’Arc de Triomphe tailandese, con quattro ali di 24 metri svettanti in cielo. Qui finiscono le manifestazioni democratiche, come a San Giovanni o a Circo Massimo, e da qui si diramano a raggiera strade intasate di gente. In giro non c’è l’ombra di un poliziotto (per gli imbucati della Digos locale non saprei dire), ma solo gente allegra e determinata. I tailandesi sono dei casinisti di professione, quando si tratta di scendere in strada non si tirano indietro, come mi sono reso conto al festival del parco Santichaiprakan, una sorta di Festa dell’Unità. Stasera tutti hanno un fischietto e un arnese infernale con tre mani colorate rosso bianco blu (la bandiera tailandese, gli stessi colori di quella francese) da agitare in aria, di quelli si vedono alla Corrida (la trasmissione ovviamente, l’altra è solo da abolire).

 

I tailandesi si siedono su stuoini lucidi e coloratissimi alla Warhol, con immagini serigrafate di un prodotto o un logo commerciale. Prendo strategicamente posizione contro il parapetto della terrazza di un ristorante. Dietro di me mangia un signore molto celebre, tatuato, capelli a spazzola, espansivo. I passanti lo additano e vogliono farsi fotografare con lui. Alla decima foto che scatto per conto terzi simpatizziamo anche se ci capiamo a gesti. Lo diverte il fatto che io sia l’unico a non sapere chi sia. Ne approfitto per lasciarmi trastullare dall’illusione che alcuni di quei sorrisi dolcissimi che gli rivolgono giovani ammiratrici siano diretti al sottoscritto.

 

 

Comincia il discorso del leader della protesta, l’ex vicepremier Suthep Thaugsuban. Parla per oltre un’ora e non perdo, per così dire, una parola (fortuna che poi interviene un altro leader che ogni tanto spiccica qualche frase in inglese). Mi distraggo solo per leggere sulla guida la descrizione del monumento alla Democrazia, con il palco da cui parla Suthep e sono preso da un moto d’orgoglio nazionale. Non per via della democrazia – che non possiamo insegnare a nessuno – ma perché le sculture che decorano il monumento sono di Silpa Bhirasri, alias Corrado Feroci. Un toscano doc che a 31 anni si trasferì in Thailandia per lavorare al Reale Istituto del Siam con un contratto di tre anni e finì per trascorrervi il resto della sua esistenza, fino al 1962. Decorato dal Supremo Ordine dell’Elefante Bianco, diventerà cittadino tailandese nonché, parola di Terzani, padre dell’arte moderna tailandese.
Suthep è vestito in modo sobrio: indossa dei pantaloni beige, una camicia celeste e un maglioncino blu (la sera qui fa freschetto). Inforca dei grossi occhiali quadrati che somigliano a quelli dell’attuale re Rama IX, l’unica autorità morale riconosciuta (86 anni) come recitano inequivocabilmente le T-shirt in vendita negli stand: “We Love the King”.

 

 

La mimica è controllata: con la mano destra tiene un lungo microfono, il braccio sinistro gli serve per scandire meglio le parole, agitandolo dall’altro verso il basso. È tutto. Se qualche tailandese volesse scrivere del corpo del capo basterebbe mezza cartella. È il nonno da cartolina, quello che dopo il discorso non va al bunga bunga ma siede in poltrona, leggendo il giornale e fumando la pipa, o almeno così mi piace immaginarlo.

 

Parla calmamente come fa l’Uomo giusto. Non si agita mai. Come potrebbe, del resto, parlando questa lingua dolce che è il tailandese, con quel modo inconfondibile di allungare le vocali? Una pronuncia che ritrovo nella scrittura, simile a un sanscrito arrotondato, un sanscrito che ha perso tutte le sue asperità. Sarei curioso di vedere un film noir tailandese per sentire la voce del cattivo. Deve somigliare alla signora che fa i biglietti sul vaporetto e che, destino della sorte, incontro in servizio diverse volte: col giubbotto arancione, i capelli rossi e una voce da aquila, intima ai passeggeri di stiparsi sul fondo di vaporetti zeppi come un uovo. Non esita a prendermi e spostarmi da una pedana all’altra come si fa con un nano da giardino.

 

Suthep resta calmo ma le sue parole sono dure come pietre. Leggo estratti del suo discorso sul “Bangkok Post” e diversi articoli disponibili sulla rete (ad esempio quelli di Tony Cartalucci): allargare la protesta, manifestare davanti alla residenza del governo, boicottare le elezioni-farsa. Finito il discorso parte, credo, l’inno nazionale e le telecamere lo seguono mentre compie il periplo del monumento per salutare la folla raccolta tutt’attorno alla piazza. I tailandesi amano i dispositivi tecnologici, me ne sono accorto attraversando i giardini reali di Saranrom dove hanno montato uno stadio con ring e spalti per un campionato di box tailandese. Il rumore delle casse è assordante, e siamo a due passi dalla zona più sacra, il Gran Palazzo e Wat Phra Kaew in cui ci sono più templi e immagini di Buddha che santi in paradiso.

 

 

Stasera sono uscito senza macchina fotografica, così resto a secco di documentazione visiva. Non avrò la foto della scimmia al guinzaglio che cammina sulle zampe posteriori brandendo la bandiera tailandese. Non riuscendo a trovare lo strumento di guerra che aveva una signora, un fischietto a un’estremità e delle mani giganti che applaudono dall’altra, mi accontento di una versione in miniatura. Acquisto questo reperto per me stesso, per accertarmi che ero veramente qui. Perché, come ricordava il buon Sebald, “ogni qualvolta ritorniamo da un viaggio, non sappiamo mai con certezza se davvero siamo stati via”. Ma anche perché da quando sono a Bangkok le coordinate temporali si sono fatte incerte. Tra Roma e Bangkok ci sono sei ore di fuso orario, come tra Roma e New York ma in senso orario – fin qui tutto a posto. Ma a breve in Thailandia si festeggia il 2557. Mi faccio di malavoglia due conti in tasca: siamo ben al di là delle prospettive di una vita media. Forse si viaggia nei paesi buddisti non per conoscere una cultura più antica di quella cristiano-occidentale, ma per sentire un brivido, quello di un balzo nel futuro.

 

Sulla strada di ritorno faccio un lungo detour per evitare la turistica Th Khao San; incrocio solo una coppia di turisti terrorizzati che, mano nella mano, cercano la strada per rincasare, probabili vittime di quello che hanno letto sui giornali e non disposti a vivere un’esperienza straordinaria, quella di una delle più grandi manifestazioni pacifiche nella storia della Thailandia – 135.000 secondo le stime ufficiali, quasi 5 milioni secondo i manifestanti. In tutto il mondo la polizia ha poca dimestichezza con i numeri! Domenica è previsto un altro grande raduno ma sarò probabilmente ad Angkor. L’importante è che la protesta continui. Una tailandese traccia sulla mia mappa il percorso di quelle passate e future finché mi rendo conto che proprio a Thewet dove vivo, un’oasi di pace, sono avvenuti gli scontri più violenti trasmessi dalle televisioni di tutto il mondo.

 

Non conosco bene gli intrighi della politica tailandese e non sono la persona idonea per scriverne. Mi sembra tuttavia che cambiano i nomi, cambiano i luoghi, ma un vecchio schema sembra ripetersi ogni volta. Sia dato: a) Un presidente del consiglio corrotto con un trascorso nelle telecomunicazioni che, condannato a scontare una pena di due anni per corruzione, fugge a Dubai (Thaksin Shinawatra, 63 anni); b) La sorella del suddetto ex-presidente che prende il suo posto (Yingluck Shinawatra, 45) e prova a far votare in parlamento un decreto legge, di fatto un’amnistia, per far rimpatriare il fratello; c) Le decisioni più importanti avvengono con delle chat tra i membri del parlamento tailandese e l’ex-leader – è la politica ai tempi di Skype, come ha ben scritto Thomas Fuller sul NYT; d) Le manifestazioni anti-governative si moltiplicano finché la presidente promette delle riforme, da attuare però dopo le elezioni (2 febbraio 2014, staremo a vedere); e) Non fa a tempo a dichiarare di restare al potere solo per garantire il tranquillo svolgimento delle elezioni, che i manifestanti rivendicano le riforme prima delle elezioni, da attuare attraverso la democrazia diretta o un colpo di stato del popolo; f) L’informazione televisiva è imbavagliata, a partire da Canale 5 (giuro che si chiama così) nelle mani dell’esercito; g) Il partito democratico, all’opposizione dal 1992, decide solo in extremis di sposare le rivendicazioni dei manifestanti…

 

 

Thaksin è peggiore di quanto si possa immaginare: non è solo un populista che controlla col braccio di ferro il suo partito, Pheu Thai, ma un dittatore che ha spedito l’esercito in Irak, siglato un accordo segreto con la CIA per torturare i prigionieri sul suolo tailandese, trovato pieno appoggio al suo regime da parte delle lobby della finanza e delle multinazionali americane (da Chevron a Monsanto). Il resto è cronaca recente: si sono aperti i seggi per depositare le candidature alle prossime elezioni. Yingluck è ancora la prima candidata, seguita dal cognato di Thaksin, Somchai, preferito alla sua successione. Non sorprendono i posti di blocco improvvisati in questi giorni dai manifestanti.

 

La storia diventa infine ancora più complessa quando discuto col gestore del  mio albergo: escono fuori intrighi e complotti di palazzo da guastare quella che resta comunque la vigilia di Natale. Preferisco tenere nel cuore l’aria festiva della manifestazione, quella dei migliori Primi maggio, dei migliori 25 aprile, delle migliori Marce della pace. È così che, manifestando a Bangkok, ho avuto l’impressione di manifestare in Italia e riconciliarmi per una volta col nostro Paese. Qui resto un turista, è chiaro, ma stasera ho ritrovato la mia gente. Viva la Thailandia, viva la democrazia, viva la fratellanza tra i popoli!

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