Thomas Bernhard a Parigi / Krystian Lupa a colpi d’ascia
Siedono in dieci attorno a un lungo tavolo rettangolare da ultima cena e, così facendo, completano con un’immagine invalicabile la struttura a ferro di cavallo del Théâtre de l’Odéon: è un disegno semplice e bello, il più bello di Des arbres à abattre, traduzione francese di A colpi d’ascia, l’adattamento del romanzo di Thomas Bernhard che corona il “ritratto” che il Festival d’Automne ha dedicato al regista polacco Krystian Lupa. Una vecchia cuoca, piccola e con l’aria di averne abbastanza di questo mondo in disfacimento versa nei piatti degli ospiti quello che sembra un vero consommé, e i commensali parlano con la finta brillantezza che si conviene a una cena artistica, inframezzati da un tintinnio di piatti e stoviglie che al pubblico suona familiare, perché è lo stesso, amplificato e lievemente osceno, che rumoreggiava in uno dei filmati del primo tempo, nel pranzo di campagna che seguiva un funerale.
A tener banco è l’ospite d’onore, sistemato al centro, l’attore grandioso e trascinante che pubblico e ospiti hanno atteso per oltre due ore, l’impareggiabile interprete dell’Anitra selvatica di Ibsen, un tipo massiccio e baritonale che mangia voracemente e tra una cucchiaiata e l’altra sputa sentenze, invariabilmente incentrate su se stesso e sulla sua interpretazione di Ekdal nel dramma ibseniano, un personaggio così arduo che, per studiarlo, si è ritirato in una baita solitaria nelle Alpi tirolesi, e solo lì, in quella vera solitudine, l’essenza del ruolo gli si è pienamente rivelata.
“A un ruolo come quello di Ekdal – dice – bisogna avvicinarsi nel momento giusto, che è sempre uno solo. E per la grande poesia, per i ruoli davvero grandi c’è sempre bisogno di quell’unico momento giusto”. Che è Bernhard alla lettera, nella martellante liturgia che in questo romanzo di 200 e passa pagine, scritte senza un a capo, come se fossero state tatuate da uno stampo unico, affastella luoghi comuni – e il teatro e gli attori sono per così dire i più triti e comuni di tutti – per poi liberare dagli interstizi tra le ripetizioni l’allegretto di un’ironia forsennata.
Solo che sul palcoscenico dell’Odéon, chiamato direttamente in causa dalla versione di Lupa nella sua qualità di “teatro nazionale” sostituito al Burgtheater viennese del romanzo, quando l’ineffabile attore del Burg (cioè del teatro nazionale) si chiede cosa sarebbero diventati i grandi geni della letteratura, come Ibsen e Strinbderg, “se non ci fossero stati degli attori fantastici”, il pubblico ride e nel contempo, tra sé e sé, gli dà ragione: Des arbres à abattre è un filtro medianico che restituisce al vociferante Bernhard un’immaginazione, sulla cui concretezza, per altro, c’è molto da dubitare, visto che l’intera scena è segregata in una bolla e gli attori – fantastici – separati da un vetro dalla sala, fluttuano in un acquario, sospesi in una specie di dormiveglia vigile, dal quale ogni tanto un raptus inaspettato li riscuote.
Non basta che, seduto per la gran parte dello spettacolo sul lato sinistro della scena, fuori dal vetro, sprofondato nella sua bergère (“la poltrona con le orecchie” dei sottotitoli francesi) e intento a spiare una società che lo disgusta, il doppio dello scrittore austriaco interpretato da Piotr Skiba – l’attore che, secondo Georges Banu, sta a Lupa come Cieslak stava a Grotowski – soffi sull’azione il veleno bianco dei suoi commenti, stranianti come potrebbe esserlo la voce di un dio che si insinua in un sogno.
Quando nella scena della tavolata la vecchia cuoca entra per servire il luccioperca, e una porta (Lupa, come gli autori dei vaudevilles, adora le porte) rimane aperta, un’altra voce penetra in quest’aria satura di ronzii, dove talvolta non si capisce subito da dove provengano le voci, perché gli attori parlano agli altri come se parlassero a se stessi, e in un francese grave e impastato salmodia: “La porte… la porte ouverte de la cuisine!”. E questo ulteriore ventriloquio, questo spiritico colpo di vento che scuote le tende nella casa dei fantasmi dei coniugi Auersberger, viene dal regista stesso, forse in ricordo della posizione intermedia che Tadeusz Kantor assumeva nei suoi spettacoli, forse per tenere i “suoi” attori in quella tensione continua di cui Krystian Lupa ha fatto una pedagogia, forse per convincere gli spettatori che quando a teatro si sente parlare qualcuno, è sempre un altro.
Il risultato è che sulla scena di Des arbres à abattre ci sono almeno tre grognards, tre imitatori di voci: il Bernhard della scrittura originaria, a cui poi tutto, nel finale, è destinato a tornare, il placido e sfuggente Skiba che, confinato nella sua poltrona, lo raddoppia e il borbottante sovrano del paese di Utopia che tenta in extremis l’impossibile, raddrizzare i torti che la vita fa al sogno, e il teatro all’arte. Di certo i torti non verranno raddrizzati, ma altrettanto certamente Lupa riesce in qualcosa in cui a teatro ormai pochi riescono: a creare un ambiente in cui trasferire lo spettatore, che non è il realistico interno viennese a cui sembrerebbero alludere i vetri liberty o le poltrone di pelle delle sue scenografie; anche quello, come le sontuose pitture che si intravedono dietro la scena rotante di Des arbres à abattre, è soltanto un residuo, una rovina di ritorno – simile ai frammenti di classicità che riaffiorano sulle tele di De Chirico. Un ambiente che non è più la vita, ma non è ancora la morte. È quella misteriosa fluttuazione psichica che sulla scena di Lupa avvolge uomini e cose, il colore livido che dipinge ogni volto, disgrega ogni gesto, ammorba ogni intenzione con un’energia dell’inerzia, accesa qua e là da rari lampi temporaleschi, e che finalmente cola il proprio siero negli occhi e nelle orecchie di un pubblico più affatturato che persuaso.
Il regista polacco decostruisce e rimonta il testo dell’autore che gli è più affine, mobilita la poetica del cinema attraverso il video per rendere simultanei presente e memoria, porta la figura di Joana, la grande assente del romanzo, all’inizio dello spettacolo, con la sua intervista che gira su uno schermo mentre gli ultimi spettatori si stanno ancora sistemando nella sala dell’Odéon.
Ma non c’è praticamente un momento delle quattro ore e mezza di Des arbres à abattre in cui la presenza della giovane artista suicida non sovrasti e non contamini l’intera scena, esattamente come avviene nel romanzo: è lei il fondamento invisibile e la sola verità dello spettacolo di disgregazione cui dà luogo l’ultimo incontro di Bernhard con la mondanità artistica viennese da cui, trent’anni prima, era fuggito. “Ci è voluta la morte di Joana, Joana si è dovuta ammazzare perché noi ci ritrovassimo”.
Nella sua letteralità infedele, Lupa non insegue il ritmo, ma lo sfinimento, non cerca la corsa, che pure è una delle figure del romanzo, ma il suo continuo attardarsi nella dissoluzione di un mondo, in attesa che le forze di Van der Vaals che ancora lo tengono unito si rilassino del tutto. Una discesa lenta e derisoria nell’abisso dell’insignificanza che culmina nel Bolero di Ravel mandato due volte, la prima in un crescendo isterico, la seconda in una sommessa dispersione che scandisce le ultime scene: minata dall’alcool, dal fallimento mascherato nella menzogna, la “cena artistica” dei coniugi Auesberger si dissolve sotto i nostri occhi. Si sfila davanti alla porta d’uscita per i saluti. Il più ironico è quello con cui la padrona di casa congeda lo stesso scrittore, l’ultimo ad andarsene: “Mi raccomando, Thomas, non scrivere niente di tutto questo”.
L’ultima parola, invece, spetta proprio alla scrittura che appare su uno schermo con la meccanica, moderata (allegra) velocità delle vecchie macchine da scrivere. “Pensavo, mentre correvo verso il centro della città, che questa città che stavo attraversando, per tremenda che mi sembrasse adesso come in passato, era la città migliore per me, che questa città che odiavo e ho sempre odiato era adesso tutto a un tratto la città migliore, e che le persone che ho sempre odiato, che odio adesso e sempre odierò, sono tuttavia le persone migliori, che io le odio, ma sono commoventi…”.
Wycinka Holzfällen (A colpi d’ascia), di Thomas Bernhard. Adattamento, messa in scena, spazio e luci, Krystian Lupa. Con Piotr Skiba, Halina Rasiakówna, Wojciech Ziemiański, Marta Zięba, Jan Frycz, Ewa Skibińska, Bożena Baranowska, Andrzej Szeremeta, Adam Szczyszczaj, Michał Opaliński, Marcin Pempuś, Anna Ilczuk, Krzesisława Dubielówna. Costumi, Piotr Skiba, arrangiamenti musicali, Bogumił Misala, Mieczysław Mejza,
video, Karol Rakowski e Łukasz Twarkowski.
Da leggere: Krystian Lupa, Utopia. Lettres aux acteurs, Actes Sud, 2016.