Keyla la Rossa: un incontro con letture domani al Teatro Franco Parenti (Milano) / I. B. Singer dalle parti di via Krochmalna

11 Dicembre 2017

“Dalla via Krochmalna ci sono passato in droshky e c’era una puzza tale che non riuscivo nemmeno a respirare. Canali di scolo pieni di liquami di fogna. Mentre passavo, una ragazza ha svuotato fuori dalla finestra un secchio di acqua lurida. Mi ha mancato per un pelo”, dice con disprezzo l’arricchito giramondo Max Levitas (lo Storpio), uno dei delinquenti che popolano lo straordinario romanzo inedito Keyla la rossa di Isaac Baschevis Singer (1904-1991), ambientato in gran parte a Varsavia, nell’ex quartiere ebraico, in via Krochmalna, che prende il nome dalle lavanderie ebraiche (in polacco krochmal significa “amido”).   

   

Alla fine degli anni settanta abitai per qualche mese in un palazzone in via Krochmalna, dove aveva, fino al 1935, vissuto lo scrittore Premio Nobel per la letteratura (1978): “La mia casa paterna in via Krochmalna a Varsavia era una casa di studio, un tribunale, una casa di preghiera, un luogo dove si narravano storie e si celebravano anche matrimoni e banchetti chassidici. Da bambino ho sentito esporre da mio fratello maggiore e maestro, Israel J. Singer, che più tardi scrisse I fratelli Ashkenazi, tutti gli argomenti che i razionalisti da Spinoza a Max Nordau addussero contro la religione. Ho ascoltato da mio padre e mia madre tutte le risposte che la fede in Dio può suggerire a chi dubita o cerca la verità. Nella nostra casa e in molte altre case ho capito che i problemi eterni erano più attuali delle ultime notizie che si leggevano su un giornale yiddish». 

 

 

Non è rimasto quasi nulla di quella Varsavia di prima della guerra (dove su 1.300.000 abitanti, 350.000 erano ebrei): solo tristi palazzoni di cemento e vetro, separati da grandi spazi di nulla. Qua e là, nascoste da ciuffi di pioppi e betulle spelacchiate, vecchie case all’apparenza disabitate. Al piano terra, scassati negozi dove si praticavano i più strani commerci.

 

 

Eppure, in certe sere di primavera, spirava una brezza che bastava chiudere gli occhi per sentire sussurri lontani. Voci di un mondo in cui il calzolaio era poeta, l’orologiaio filosofo, il barbiere cantante. Come ricordava con rimpianto il poeta polacco Antoni Słonimski (1895-1976), nella sua Elegia delle cittadine ebraiche (1979). Un mondo cancellato, che rimane solo nelle foto, come quelle che dal 1934 al 1939 scattò Roman Vishniac (Un mondo scomparso, Edizioni e/o, 1984), nei ricordi sempre più rari dei sopravvissuti, o nella letteratura. 

   

Quel mondo di sottoproletariato ebraico, già prima della guerra era un corpo estraneo in Polonia, come radicalmente altra era la cultura che lo costituiva e teneva assieme. Lo spiega bene Singer: «Sono stato allevato in tre lingue morte (l’ebraico, l’aramaico e lo yiddish, alcuni questa non la considerano nemmeno una lingua) e in una cultura che si è sviluppata in Babilonia: il Talmud. Il cheder dove studiavo era una stanza dove il maestro mangiava e dove dormiva. Lì non studiavo aritmetica, geografia e storia, ma le leggi che governano i sacrifici offerti in un tempio distrutto duemila anni fa”. 

   

Dopo aver letto Keyla la rossa mi è tornata voglia di rivedere via Krochmalna, in una delle ultime giornate di quest’autunno. L’ho presa larga e ho fatto bene perché, venendo dalla piazza degli Eroi della rivolta del ghetto, nel mezzo della quale da pochi anni sorge un modernissimo, e assai interessante, Museo di Storia degli Ebrei Polacchi, sono passato per il vecchio mercato coperto in mattoni e tettoie, con l’ingresso a guglie (Hala Mirowska) ancora brulicante di banchetti e negozietti con tutte le merci, dalle coloratissime verdure alle carni esposte all’aria aperta, dalle mutande e i reggiseni di dimensioni enormi, ai giocattoli di legno e di plastica. 

 


L’umanità che affolla al mattino la Hala Mirowska è quella che non si può permettere di fare la spesa nei moderni e costosi supermercati e centri commerciali stracolmi di merci straniere. Quei volti e i vestiti poveri ma dignitosi fanno venire in mente quelli molto più straccioni del mercato di prima della guerra (che era sempre lì). 

 

 

Attraversato il viale Giovanni Paolo II, sono passato accanto al basso edificio giallo della caserma della Guardia a cavallo. Costruita tra il 1730 e il 1732, divenne nel 1851 una caserma dei pompieri. Durante l’occupazione tedesca ci fu una base della resistenza polacca incaricata di portare aiuto agli ebrei rinchiusi tra le mura del Ghetto che iniziava lì accanto. 

   

Girando a destra si imbocca la via Krochmalna, con i palazzoni moderni contrassegnati dai numeri civici più bassi, che alla fine sfocia sulla via Żelaza (la via del Ferro: quella dei fabbri): lì, quasi all’inconcrocio, ci sono ancora tre palazzi miracolosamente scampati alla distruzione del Ghetto. 

   

Mi ero portato dietro il libro di Singer per trovare la corrispondenza con la numerazione delle case ricordate. Ricapitolando:   

Krochmalna 6: covo dei ladri (dove “ogni giorno si giocava a carte, o domino o si spettagolava”);

Krochmalna 8: abitazione di Keyla e di suo marito Yarme. Nel cortile c’erano anche il macellaio con la sua bottega, vecchi sarti pii e la Casa di studio e preghiera, che era pure l’abitazione del Reb Menachem Mendel di Tomaszów;   

Krochmalna 10: abitazione della famiglia Singer;

Krochmalna 17: Taverna di Eliezer (“Il propietario, Eliezer, in gembiule blu e maniche di camicia arrotolate fino al gomito, li servì personalemnte portando occali di birra e prelibatezze varie: dolci petto di pollo, salsicce di fegato e wurstel caldi con crauti e senape…”).

   

Tutto cancellato: ma salvato nei racconti e i romanzi di Singer che, oltre a un quadro vivissimo di quel mondo ebraico povero di prima della guerra, sono una sorta di grandi apologhi filosofici: il pensiero di Spinoza raccontato, spiegato e confutato mediante un variegato campionario di storie dal significato universale.

  

Keyla la rossa (titolo originale: Yarmy un Keyle) era apparso fino ad oggi soltanto a puntate sul quotidiano yiddish di New York, “Forverts”) (tra il dicembre 1976 e l’ottobre 1977) e mai pubblicato in inglese: anche se esiste la traduzione fatta dal nipote Joseph Singer (figlio di Israel Joshua). Singer considerava le sue traduzioni in inglese, alle quali collaborava attivamente e interveniva sovente per cambiarle, “il mio secondo originale”. In questo caso il lavoro sulla traduzione fu abbandonato nel 1979 e non ha avuto una rielaborazione finale. Questo fatto però ci dà modo, grazie al paziente lavoro della curatrice Elisabetta Zevi e della traduttrice Marina Morpurgo, di leggere per la prima volta (l’edizione Adelphi è di fatto una prima mondiale) un testo così come l’ha scritto Singer per il suo pubblico yiddish: non largamente tagliato e modificato (da lui assieme ai suoi traduttori e ai suoi editori) per adattarsi a un pubblico non ebraico.

   

La vicenda si svolge negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale, tra la rivoluzione russa del 1905 e quella del 1917, ed è ambientato tra Varsavia (allora parte dell’Impero russo) e New York. Tutto il libro è attraversato, e questo lo rende ancora più interesante, da acute analisi sulla crisi dell’Impero russo e giudizi brucianti sull’immane ingiustizia che vi regnava: “In Russia impiccavano gli innocenti. Sfogavano la propria rabbia sugli ebrei”. 

 

La protagonista, Keyla, è una prostituta ebrea e polacca che si arrabatta e si danna, tenta di salvarsi sognando una vita migliore lontana dalla via Krochmalna. Là, come per molti versi anche oggi, si viveva male (in un contrasto reso ancora più evidente dalla vicinanza con il centro di Varsavia dove si assiste oggi a un arricchimento mai visto prima e i grattacieli attorno sorgono come funghi). Sotto certi aspetti la via Krochmanlna, nei primi quarant’anni del Novecento, era già una sorta di “ghetto” della miseria, del degrado, della delinquenza, della disperazione. 

   

Nel romanzo Keyla la rossa è rappresentata tutta l’infinita e contraddittoria gamma della vita, dagli abissi alle vette, dalla carne allo spirito, descritta con uno straordinario talento narrativo. Si rimane stupefatti a leggere oggi questa bellissima storia di tormentati amori, malinconiche puttane, riflessioni sulla filosofia di Spinoza, bizzarri poveri in odore di santità, avventurieri pasticcioni che brigano per far fortuna in America, pietosi rabbini, allegri lestofanti, arricchiti solitari e tristi… 

   

La bella Keyla viene così presentata da Singer: “Era di media statura, il petto alto, la vita sottile, fianchi rotondi, caviglie snelle e polpacci robusti. In realtà i fianchi di Keyla erano stretti come quelli di un ragazzo, ma lei se li imbottiva. Il sole splendeva sui suoi riccioli rossi, che brillavano simili a lingue di fuoco”. Keyla era arrivata giovanissima a Varsavia dalla campagna, fuggendo dalla miseria. Per vivere aveva iniziato a prostituirsi in via Krochmalna. Avendo un certo rispetto per le usanze ebraiche, e anche a suo modo un senso morale, quel lavoro le faceva sentire di vivere nel peccato. Ma è indubbio, aggiunge Singer, che avesse una forte inclinazione verso il piacere sessuale: “Keyla aveva imboccato molto presto la via del peccato. A nove anni, al mercato, aveva visto uno stallone montare una cavalla e ne era stata eccitata, aveva provocato un desiderio che non si era più placato”. 

   

Keyla aveva smesso di prostituirsi per amore di Yarme ed era grata a lui che l’aveva sottratta a una vita fatta di violenze e soprusi. Yarme era un ladro, seppur proveniente, come Keyla, da una famiglia devota: “era asciutto al pari di un fanciullo; aveva le guance scavate e grandi occhi neri un po’ asimmetrici; il mento era aguzzo e con la fossetta nel mezzo”. Yarme spesso cerca di indurre Keyla a tornare a prostituirsi e non disdegna di “cederla” agli amici.

   

L’altro suo grande amore, che la porterà via (ma non del tutto) a Yarme, è Bunem, figlio del Reb del palazzo: “alto, snello, con il volto pallido e corti cernecchi biondi. Aveva grandi occhi azzurri. Era vestito come un hassid, con il caffettano al ginocchio e il cappello di feltro, ma portava una cravatta nera”. Bunen è un intellettuale religiosamente scettico (convinto con Nietzsche della necessità della “trasvalutazione di tutti i valori”), aspirante pittore, promesso sposo a una giovane terrorista anarchica di nome Solcha, che verrà arrestata e condannata, nota Singer (che da giovane, come il fratello maggiore, ebbe simpatie socialiste), “per aver cercato di salvare l’umanità, di portare giustizia e purezza in un mattatoio eretto su un mucchio di letame e rifiuti”.

   

E poi, a sconvolgere la vita di tutti, c’è colui che Keyla chiama “l’angelo della morte”: Max lo Storpio che, come abbiamo visto, disprezzava la via Krochmalna ed era legato a Yarme da una vecchia complicità e persino da rapporti sessuali: “Max era un piccoletto completamente glabro, senza capelli, né barba, né baffi, vestito con un abito a scacchi, scarpe gialle e una cravatta dai ricami dorati. Nel nodo erano infilate tre perle. Si appoggiava a un bastone da passeggio con il pomolo d’oro”.

   

Max è tornato a Varsavia per organizzare la tratta di povere ragazzine ebreee da prostituire a Buenos Aires. Terra di emigrazione prevalentemente maschile, alla fine dell’Ottocento, l’Argentina conobbe un impetuoso sviluppo del fenomeno della prostituzione. Molte di queste donne venivano dall’Est ed erano controllate da una società di lenoni chiamata inizialmente “Warsavia”. Si trattava di una “Società ebraica di Mutuo Soccorso”, fondata ad Avellaneda, in provincia di Buenos Aires, il 7 maggio del 1906, da un ebreo di Varsavia, Noè Trauman, anarchico seguace di Bakunin, assieme ad altri otto prosseneti: Sringfeder, Saltzman, Poznański, Brusachi, Balauth, Feldman, Gost e Seleder. Malvisti, come è facile immaginare, dalla comunità ebraica, furono “scomunicati” ed emarginati e fu proibita la loro sepoltura nel cimitero ebraico. Il primo obiettivo della “società di mutuo soccorso” fu appunto l’acquisto di una parcella del cimitero nella quale poter essere inumati secondo il rito askenazita. In poco tempo divennero talmente ricchi e potenti che si insediarono in una lussuosa palazzina a due piani con giardino in Calle Còrdoba. Secondo lo storico Juan Antonio de Blas, che ha scritto l’introduzione a Tango di Hugo Pratt, dedicato a una delle più belle avventure di Corto Maltese, la loro arma non era la violenza, ma la corruzione. La “Warsavia” ebbe il suo massimo splendore negli anni Venti, quando arrivò a gestire, via Montevideo, la più grande importazione di prostitute dall’Europa centrale. Fu allora che cambiarono il nome della società in “Zwi Migdal”. Però, nel 1931, grazie al coraggio della prostituta Raquel Liberman e alla determinazione di alcuni onesti poliziotti, molti dei ruffiani vennero arrestati e la società fu sciolta

 

   

La fuga e l’emigrazione negli Stati Uniti di Keyla e Bunem, dopo molte peripezie e disavventure, riesce. Gli ultimi tre capitoli del libro sono ambientati a New York. L’impatto con il mondo ebraico della città, e più in generale con il Nuovo Mondo, è durissimo (come lo fu probabilmente, a suo tempo, per Singer): “Era tutto come a Varsavia, eppure era diverso (…). Pareva che a New York tutti fossero solo di passaggio, come se l’intera città fosse un enorme scalo ferroviario in cui la gente si tratteneva per un po’ prima di trasferirsi altrove. Ma dove?”. Anche in questo caso i giudizi amaramente taglienti di Singer non mancano. L’America viene vista come un luogo degli eterni bambini e del culto immaturo della giovinezza: “Qui in America ci si vergognava della vecchiaia. Le pubblicità sui giornali si rivolgevano solo alle nuove generazioni. Gli anziani avevano già consumato la propria porzione di vita in questo mondo, e il loro mondo a venire era privo di valore commerciale”. Keyla dirà della propria condizione di emigrante a New York: “A Varsavia ero una donna adulta. Qui son tornata bambina”.

   

Ciò che tiene legati Keyla e i suoi due amori è il raccontarsi: il bisogno ostinato di narrarsi tutto, anche le vicende più scabrose. Il dialogo attraverso i racconti genera eccitazione, nostalgia, curiosità, desiderio di sopravvivere ai “mari tempestosi delle emozioni umane”, alle sventure, alle passioni sfrenate come ai dubbi su colui che ha messo e tiene in moto il mondo. Bunem, il figlio del reb, esprime spesso il disagio, che forse è dello stesso Singer, per il “silenzio di Dio” (cfr.: pp. 165-166, 185, 199, 208, 228, 267): “Bunem aveva abbandonato tutto, persino i dieci comandamenti. Credeva ancora in Dio, ma in un Dio nascosto, che non si rivelava mai a nessuno. Nessuno aveva idea di chi egli fosse o di che cosa volesse”. 

   

Il senso conclusivo della storia è, qualche pagina prima della triste fine, in una citazione della Gemarah: “Il mondo è una festa di nozze. Danzi la tua piccola danza e poi te ne torni a casa”. E Singer aggiunge: “Ma dov’è casa? Nella tomba?”. Tornare a casa, forse, sarebbe rimetter piede in via Krochmalna.

 

In occasione della pubblicazione di Keyla la Rossa di Isaac Bashevis Singer, martedì 12 dicembre presso il Teatro Franco Parenti si terrà un incontro con letture dal testo di Elia Schilton e interventi di Elena Loewenthal.

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