Via De Amicis, una foresta di simboli a Milano città dell’Expo

25 Maggio 2015

Qualcuno tornerà a scrivere «Muri puliti, popolo muto» in via de Amicis a Milano dove il 3 maggio scorso ho osservato la sfilata Milano non si tocca organizzata dal sindaco Pisapia dopo il riot urbano NoExpo del primo maggio. Se così fosse, questa scritta sarà la constatazione di una rimozione e il sedimento di una disperazione per l’irreversibilità di un fatto. Un popolo, se esiste, è muto. I cittadini, se esistono, si tengono per sé pensieri che sono singulti e non discorsi. Tutto il resto è silenzio. Quello che regna in una democrazia dove tutti parlano e nessuno ha voce.

 

 

 

“Carlo Vive”

Centinaia di persone, giovani e volontari, e poi borghesi, di sinistra, armati di spugnette e di uno sgrassatore domestico hanno iniziato a scolorire la scritta “Carlo Vive”, supportati dalle potenti macchine idropulitrici dell’Amsa. Una scritta, simbolo di una generazione, ridotta a “sporcizia”, a vandalismo, a segno senza significato. Per questo cancellata.

 

È doloroso vedere una testimonianza cancellata sotto gli occhi, quattordici anni dopo Genova dove Carlo Giuliani è stato ucciso da un colpo di pistola di un carabiniere. Un atto tanto più forte perché non l’ha fatto un tribunale, un governo, ma persone che a Genova – se ne avessero avuto l’età – ci sarebbero anche andate. Quelle più grandi forse lo hanno fatto.

 

 

 

Expo come dispositivo

In fila per quattro, cinque, dieci, mentre i gomiti si agitavano penosamente per cancellare la testimonianza di un tempo remotissimo – un relitto, uno sbrego marziano –, i più volenterosi indossavano le tute bianche. Un altro simbolo. La memoria torna sempre a Genova. Di solito sono ricordate le tute bianche accampate allo stadio Carlini. Quella parte di movimento decise di liberarsene, probabilmente come segno di rinuncia alla propria identità per confluire nel flusso del movimento allora noto come Disobbedienti.

 

 

La tuta bianca ha una storia antecedente. Prima della metà degli anni Novanta, fu indossata corredata da maschere bianche dal movimento degli Invisibili per denunciare la precarietà e diventò celebre in un blitz durante una diretta televisiva Telethon. Si voleva denunciare la precarietà dei ricercatori impegnati nella lotta contro il cancro, nell’università, nell’economia in generale. La tuta bianca indicava l’invisibilità di chi lavora da precario e non è considerato un lavoratore. Ancora prima, la tuta bianca l’ho vista in un film di Antonioni degli anni Sessanta, probabilmente Deserto Rosso. Era la divisa dei quadri tecnici che lavoravano in una centrale elettrica.

 

In via De Amicis la tuta bianca è stata indossata per cancellare gratuitamente la scritta “No al lavoro gratis all’Expo”. Per il dispositivo Expo, creato anche grazie all’accordo con i sindacati Cgil Cisl e Uil che hanno introdotto il lavoro gratis nel diritto del lavoro italiano, è stato un successo. Chi dovrebbe indignarsi contro questo accordo, oggi invece s’indigna per una scritta che denuncia una condizione comune, anche di chi ha partecipato alla pulizia.

 

Expo ha incassato. E ha messo il consenso a valore. Prima era un logo, per di più dispendioso, segno di antiche speculazioni e di guai futuri. Poi è diventato l’occasione, o lo sfondo, per manifestare l’appartenenza alla città, l’esempio di una cittadinanza attiva, la necessità di un grande evento per Milano. Le cose non resteranno a lungo così. Forse.

 

 

Una foto

Il selciato di via De Amicis è associato a una foto. Quella del 14 maggio 1977, giorno di una manifestazione contro la repressione. Si vede un uomo che punta una pistola, gambe piantate in terra, contro un cordone di polizia che sta a destra, fuori dall’obiettivo. È l’istantanea di un componente di un collettivo di quartiere appartenente all’autonomia operaia che si staccò dal corteo e uccise un agente. Ho un sussulto. Quella tragedia non c’entra nulla con la scena a cui ho assistito, tanto meno con quelle di due giorni prima. Perché allora questa associazione, fuori dal tempo? A quel tempo, avevo quasi quattro anni.

 

 

Questa immagine si proietta da un deposito sub-corticale. Anche se non esplicita, o del tutto rimossa, si associa a un’impressione lontanissima. Ma si moltiplica, deformando le immagini che scorrono davanti agli occhi. Sullo stesso asfalto mi ritrovo immerso nell’infosfera che ritorna d’un balzo quando c’è un conflitto, o un conflitto viene simulato in una città. È un pilota automatico che s’innesta, una schizofrenia che fa fibrillare i circuiti comunicativi e colonizza i linguaggi.

 

Nessuno mi sembra abbia fatto questa connessione, anche se la simulazione ordinata e compatta della guerra civile potrebbe avere ispirato simili, e improprie, analogie. Nelle foreste di simboli generate dalle manifestazioni lo spazio della libera associazione segnica è fondamentale per governare il conflitto e imporgli un senso.

 

Nessuno, tranne uno. Giorgio Napolitano, alla sera del primo maggio, prima di entrare alla Scala per la Turandot. A chi gli chiedeva se c’era da avere paura dopo gli “scontri”, ha risposto: «Ci mancherebbe, abbiamo visto di peggio». Una frase enigmatica che ha alluso all’impensabile, forse a quell’immagine, e l’ha subito escluso.

 

Il potere le ha viste tutte, non si fa impressionare da qualche dimostrazione. Produce e usa l'isteria. E poi rassicura: non è come in passato, oggi tutto è scontato, tutto è previsto, tutto è programmato, tutto consumato. Lascia agire, produce effetti, li usa a discrezione per rafforzare il consenso del dispositivo di governo del momento.

 

Oggi c’è spazio anche per chi crede nel funzionamento di altri dispositivi, opposti a quelli dominanti. Si è liberi di formare un’enigmatica unità dei contrari in cui ciascuno opera le proprie connessioni. Nel mezzo resta poco, o nulla. Le buone ragioni, i dubbi, le critiche sono riconoscibili solo se entrano nella macchina governamentale. Il problema non è di chi alimenta il congegno, ma di chi vuole sottrarsi.

 

 

Il fuoco perduto dell’avvenimento

In attesa del prossimo evento, si resta immobili come i muri puliti in via De Amicis. L’evento è cancellato, ma pronto a riaccendersi al prossimo incontro/scontro. Ogni volta che entriamo in una foresta di simboli, le associazioni possono replicarsi all’infinito.

 

«L’oscuro, il momentaneo, / l’obliterato della sua esistenza – ha scritto Mario Luzi ne Il fuoco perduto dell’avvenimento – questo mi perdo a pensare, questi grumi / di vita dissipati dal mondo / eppure impressi a fuoco in una sua memoria latente / da cui non mi distinguo in nulla io scriba / altro da quella non essendo, da quella e dalla sua sofferenza».

 

Sottomessi a una pressione mutilante per raggiungere obiettivi enigmatici, qualcosa resta vivo.

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