Il platano dei poeti
Era il 4 gennaio 1960: Albert Camus si schiantava contro un platano a bordo della Facel Vega guidata dal suo editore, Michel Gallimard. Il rettilineo, nei pressi di Villebin, invitava la sportiva coupé di lusso (ce la immaginiamo rossa) a lanciarsi in velocità verso Parigi. Certo, il malcapitato platano non poteva togliersi di mezzo, ma mi è sempre spiaciuto associarlo alla morte di Camus.
In Francia, le carreggiate fiancheggiate da platani maestosi sono tuttora frequenti e percorrere, con andatura da crociera, lunghi tratti scortati da queste sentinelle in tuta mimetica procura un senso, non dirò di sicurezza – ché suonerebbe provocatorio – ma certo di conforto.
In Italia è raro trovare grandi platani che distendano le ampie braccia alla campagna – li hanno usati per impiantiti e logge – ma sono frequenti nelle alberature cittadine, benché annualmente mortificati da costrittive potature. Insopportabile poi il costume di potare a candelabro alberi così naturalmente, potentemente protesi verso l’alto. Lasciati crescere in libertà, meglio se isolati e con lo spazio che la loro energia vitale richiede, offrono indimenticabili esercizi d’architettura naturale come il venerabile di villa Sommi Picenardi a Olgiate Molgora.
Il più diffuso è il Platanus acerifolia, esito di ibridazione tra il platano orientale e l’occidentale. È albero massiccio, longevo – campa finanche cinquecent’anni – e di crescita rapida, ha portamento eretto con palchi di rami poderosi e chioma globosa; le foglie, decidue, ricordano per l'appunto quelle dell’acero: palmate con profonde incisioni che ritagliano in genere cinque lobi. Sulla sua carta d’identità il segno particolare è la corteccia a placche sfoglianti dal bianco gesso al grigio perla al verde acqua e al marron, una divisa riconoscibile d’acchito. Anche d’inverno il platano ha il suo distintivo: persistenti, i frutti dondolano dal lungo peduncolo fino alla successiva stagione del freddo quando le sferiche custodie liberano i piumati acheni.
L’Accademia milanese dei Trasformati aveva il platano per impresa, perciò Giuseppe Parini, nel quarto Sermone dedicato allo studio gli si rivolge con deferenza:
E tu, Platano illustre, a le cui grate
Ombre pur or novellamente io seggo,
Per acquistarmi anch’io nome di vate,
Ergi i tuoi rami ognor; ché s’io ben leggo
Ne lo avvenir, de’ valorosi Insubri,
Sotto un astro men reo, la fama io veggo
Volar da gli Arimaspi a’ liti Rubri.
Ma il platano a me caro l’ha messo a dimora il candore della mano e della mente di Liànogiu Biascà, autore della saga di Nane Oca (alias Giuliano Scabia). È il platano alto dei Ronchi Palù, sede dei poeti: lassù, appollaiato sui suoi rami Nane Oca intona il suo canto notturno e il suo canto d’amore, prologo ed epilogo delle Foreste sorelle. Ascoltiamolo un poco:
Sul platano alto dei Ronchi Palù
– ora che è notte –
i poeti tremano
di felicità. E guardano
le stelle.
O stelle , del cielo
canzoniere, o fate delle pavanti
e non pavanti foreste sorelle,
è giunto il tempo, finalmente,
dell’immortalità.
O poeti
che sugli alberi state
e sulle cime dei colli
e nelle camerette
e negli uffici e scuole del mondo,
o anche pensionati, ascoltando
il chiacchierar bizzarro delle bestie, persone e piante,
e il soffiare del vento e le schinche
d’ogni mutamento,
son qui, son Nane Oca
a con voi parlare.
O morte,
bianco cavaliere e signorina ombrosa
d’ogni vita sposo e sposa
ora finalmente dai Ronchi Palù si leva
il canto della vita vittoriosa.
(dal Canto d’amore di Nane Oca, in Le foreste sorelle, Einaudi 2005)
Giuliano Scabia, Platano alto dei Ronchi Palù, tratto dal suo libro "Le foreste sorelle"
Che il platano contro cui s’è fracassato Camus fosse il platano alto dei Ronchi Palù? E se non proprio quello, di certo l’angelo monco o – «cisbicchio!» – la sfarfallante suor Gabriella se lo saranno preso al volo e portato là, con tutti gli altri immortali «ricamatori» e «infilaperle», a cantare con Liànogiu Biascà e Nane Oca i misteri del mondo.