Giuliano Scabia: Dialoghi segreti di paesi
Giuliano Scabia, poeta, inventore rivoluzionario di teatro, scrittore e affabulatore, se ne è andato nel mondo affianco ormai più di due anni fa. Ma continuano a uscire opere che ha lasciato, in diversi stadi di compiutezza. Dopo il racconto degli anni all’università di Bologna, Scala e sentiero verso il Paradiso (La casa Usher 2021), e il romanzo Il ciclista prodigioso (Einaudi 2022), arriva in libreria in questi giorni, ancora con La casa Usher, Dialoghi segreti di paesi. Visite e canti nell’Appennino Tosco-Emiliano 1974-2020, storia di incontri tra piccole comunità guidata dall’idea del teatro come gioco, immaginazione, relazione, lontano dai riflettori.
Il libro, completato dai ricordi di Carlo Taiti, di Laura Artioli e di altri, racconta di scambi, feste familiari e pubbliche, impegno politico e culturale, inaugurazione di biblioteche e osterie, narrazioni, auguri, cavalcate su destrieri di cartapesta, cantamaggi, imboscate e molto altro. Ne pubblico qui di seguito la mia postfazione, invitando alle feste di presentazione: venerdì 15 settembre dalle 19 presso la Fantastica Osteria della Spola d’Oro della Briglia di Vaiano (Prato); il 28 ottobre alle 15.30 presso la Sala civica di Busana (Reggio Emilia).
Marmoreto. Ph di Maurizio Conca
Il teatro segreto della poesia
Ci sono luoghi speciali dove la poesia si rivela impregnata della storia. Non di una storia accreditata, cristallizzata, ma di una storia ricca di anima. Spesso sono posti poco appariscenti, in cui il passato non pesa sul presente ma lo fa bello, dove l'aspirazione all'incontro è sincera e gioiosa e forte è la voglia di non rassegnarsi allo scorrere di un tempo abitudinario che a poco a poco tutto travolge, rendendo tutti uguali in un'infelicità piena (o vuota) di cose e povera di spinte e desideri.
Non è facile che questi luoghi vivano a lungo: la distrazione generale tende ad assorbirli. Perché conservino la loro diversità, la loro poesia, hanno bisogno di reagenti, di fantastici saggi folli che li mettano con semplicità di fronte a sé stessi e alla necessità di coltivare la propria vitalità, la propria diversità.
Un trickster, benevolo folletto provocatore di poesia e anima, era Giuliano Scabia. Un giorno, nell'ormai lontano 1974, abbandonò il suo teatro precedente, politico, dialettico, intento a esplorare le contraddizioni della sinistra nei luoghi consacrati della scena, e decise di continuare a misurarsi con comunità ristrette – spesso emarginate o dimenticate e rinchiuse, come quelle dei quartieri di Torino dove aveva provato a far nascere insieme agli abitanti storie e rappresentazioni che li riguardavano profondamente, politicamente e personalmente, o quella del manicomio di Trieste diretto da Franco Basaglia. Ci aggiunse un ulteriore elemento, narrativo, poetico, la favola teatrale del Gorilla Quadrumàno, che si recitava nell’Ottocento nelle stalle della Bassa reggiana durante il Carnevale. Con un gruppo di studenti che seguivano il suo corso di Drammaturgia 2 all'università di Bologna pensò di metterla in scena per farne una domanda fantastica, da usare come reagente per una ricerca sui luoghi e i tempi residui di organizzazione e creazione culturale dal basso sull'Appennino reggiano: cosa si cantava da quelle parti, cosa si recitava, come ci si riuniva a veglia, come si fantasticava, come si faceva politica prima dell’abbandono della montagna e del trionfo sulle menti dell’intorpidimento televisivo.
E fu il viaggio del Gorilla Quadrumàno, che portò a incontrare persone straordinarie. Tra tutte le altre c’erano alcuni abitanti di Busana, di Marmoreto, di Fornolo e di altri piccoli paesi o frazioni di quell’Appennino. C’era la famiglia del muratore Domenico Notari, Minghìn, che era stato capo Maggio, autore e capocomico di una compagnia che rappresentava nei castagneti vicende cantate ispirate ai poemi e ai romanzi cavallereschi. C’erano l’ex pastore Silvio Leoncelli che aveva scritto un poema in ottave sulla transumanza in Toscana e altre rime dedicate “Alle sue pecorelle”, Lino Casanova e altri che avevano composto, recitato o cantato poesie e poemi. C’era a Fornolo di Ramiseto Luciano Masini, ex partigiano e poeta, caparbio nel combattere contro l’abbandono della montagna. Girando per frazioni e case Scabia scovò Vera storia, un poema dall’andamento tassesco concepito dal merciaio ambulante Amilcare Vegéti: narrava i misfatti nazifascisti, i fatti eroici, le sofferenze e la vita quotidiana delle persone dell’alta Valle del Secchia nel periodo della Resistenza.
In quella zona, dalla famiglia di Minghìn e dagli altri amici, il gruppo del Gorilla Quadrumàno tornò poco prima del Natale 1974, per portare, con canzoni e filmati, il libro scritto collettivamente in estate dopo il giro di spettacoli, ricerche, incontri. In quelle sere fredde d'inverno i giovani studenti e le giovani studentesse furono pure chiamati a spegnere un incendio su un pendio istruiti dai montanari, scivolando sull'erba bagnata e sulla neve, pungendosi con i ricci delle castagne.
Il legame con quei luoghi e con quelle persone di antico fascino si rinsaldò ancora di più. I giovani, cittadini e universitari, avevano scoperto la ricchezza culturale di quella montagna, ormai semiabbandonata a causa dell'emigrazione per povertà di risorse economiche: un tesoro non da esibire come un trofeo conquistato ma da conservare nella sua essenza e nutrire.
Il gruppo l'anno dopo si sciolse – si sa che le aggregazioni formate di studenti sono sempre temporanee. Il Gorilla fu liberato e andò a regnare "tra le fiere in mezzo al bosco", come dice l’animale ormai acculturato nel finale della commedia. Dove si nascose? Nessuno lo ha mai rivelato. Forse in luoghi diversi per ognuno, nella propria foresta interiore. Per Scabia doveva essere là quel reame di foglie stormenti e di pullulanti animali, tra il Monte Ventasso e il Cusna, dalle parti di Marmoreto, verso il Passo di Predarena.
Tornare. Il poeta e professore universitario prese a ritornare molte volte in quei luoghi, e poi dal 1990 ogni anno, con uno scritto di auguri per il nuovo anno in forma di operina in versi, di dialogo meraviglioso e filosofico, sul tempo che passa, sul vecchio e sul nuovo. Ma intanto il teatro per lui andava sempre di più esplodendo, guidato anche da alcune intuizioni di Gombrowicz: “Se volete che un cantante canti in maniera diversa, dovete legarlo ad altra gente – farlo innamorare di altri e in un’altra maniera”. E ancora, citava da un brano del Diario 1953-1956 dello scrittore polacco: “Coraggio! Rompete questo cerchio magico, andate in cerca di nuove ispirazioni, lasciatevi dominare da un bambino, da un moccioso, da un ebete, legatevi a gente di diversa condizione sociale!”, perché “colui con cui canti, modifica il tuo canto". Scabia era mosso dalla necessità di esplorare la lingua del tempo, un periodo fatto ancora di una socialità diffusa, minacciata sempre di più dal consumismo e dall'induzione all'individualismo e alla solitudine.
Quel lavoro che aveva concepito dalla fine degli anni sessanta, a scrivere testi aperti – schemi vuoti, canovacci – da mettere alla prova in varie situazioni, scuole, paesi, quartieri metropolitani, manicomi, zone industriali, periferie, per capire dove stavano andando il nostro Paese e la sua lingua, le sue lingue, proseguiva con azioni teatrali, con la scrittura di testi e poi di romanzi, con l’insegnamento universitario. E maturava intanto l'idea che il teatro è prima di tutto gioco, sdoppiamento felice, un mettersi alla prova con gioia per ritrovarsi, magari per raccontare la perdita. Era la pedagogia meravigliosa di Orfeo, danzata con la follia sacra di Dioniso.
Non poteva, questa ricerca, restare chiusa tra i sipari e i velluti: doveva a mettersi alla prova per le strade, nelle osterie, nei quartieri, nei luoghi dell'inclusione e dell'esclusione, laddove scorre la vita e si forma l'immaginario, proiettandosi in avanti, vivendo e provocando il presente, caricandosi sulle spalle o rifiutando il passato.
Il primo maggio del 1975 il gruppo del Gorilla Quadrumàno aveva partecipato all’inaugurazione della Galleria d’arte moderna di Bologna – chiedendo e ottenendo di svolgere le proprie azioni nella zona periferica del Pilastro. Perché la Gam non voleva essere solo collettore di opere artistiche, ma anche di attenzioni all’ambiente circostante e ai suoi vissuti. Il gruppo si presentò con un carretto Teatro vagante, con commedie, canti e anche con un cantastorie costruito con gli abitanti della zona, che raccontava le lotte per trasformare un villaggio ghetto in un luogo vivibile.
Proprio in quel Primo Maggio Saigon cadeva e gli americani abbandonavano il Vietnam dopo una guerra lunga e sanguinosa. In quel giorno pieno della speranza che si sarebbe aperta una nuova era (di lì a poco le sinistre avrebbero conquistato il governo delle più grandi città) arrivarono al Pilastro anche i giovani del gruppo della Briglia di Vaiano, che erano incuriositi da alcune esperienze di teatro a partecipazione di Scabia. Il poeta li definisce “Cavalieri della Valla Rossa”, e una di loro li caratterizza come abitanti di un villaggio fabbrica alle appendici dell’Appennino tosco-emiliano. Sono ragazzi politicizzati (area Pci), molto attenti al sociale, un gruppo di paese che vuole fare teatro per divertirsi e divertire, senza dimenticarsi degli altri, impegnandosi ad affrontare i problemi del lavoro a domicilio di un’area caratterizzata fortemente dall’industria tessile e da quelli dell’inquinamento che flagella le sue zone.
Con questi ragazzi Scabia, che ha una sua base a Firenze, instaurerà un rapporto particolare e proprio insieme a loro dal 1977 inizierà a tornare sull’Appennino reggiano con operine e rappresentazioni, a partire da Noi siamo di Toscana, inscenata nel 1976, e dall’Operina dei dodici mesi del 1977. Quelle visite saranno poi ricambiate dagli emiliani: i momenti di incontro tra i Cavalieri Maggerini e i Cavalieri della Valle Rossa costituiscono l’argomento di questo libro.
Il dialogo tra paesi costituisce uno degli assi portanti del teatro segreto di Giuliano Scabia, un darsi, creare, sorprendersi. Non si rivolge a un pubblico ampio e indifferenziato ma è un minuto, amicale, gioioso lavoro a incontrare persone precise, per anni, lontano dalla luce dei riflettori. È un teatro che prova a curare la solitudine, la disgregazione, un teatro che si fa forza dell'intimità, cercando verità (di sentimenti, di rapporti) nella finzione della rappresentazione. Gli agguati busanesi all’arrivo di quelli della Briglia, ripresi da vecchi usi festivi per i matrimoni, diventano simulazioni di conflitti che servono a cementare l'amicizia, per conoscersi, per riconoscersi. Questo teatro riattiva, senza trombe pubblicitarie e neppure istituzionali, luoghi: per esempio mette in moto i giovani dell'Appennino, spingendoli a confrontarsi con tradizioni che sembravano cancellate, cose sepolte nelle memorie familiari, fornendo orizzonti diversi dall'omologazione televisiva.
Il libro come tutte le ultime opere di Giuliano Scabia (Scala e sentiero verso il Paradiso, Il ciclista prodigioso) percorre molti anni e finisce per ridisegnare, non per caso ma con consapevolezza, i tentativi sviluppati negli ultimi cinquant’anni di opporsi a una cultura del consumo e della polverizzazione sociale con attività di comunità; rintraccia esempi di esperienze politicamente orientate succedute alla caduta del muro di Berlino e al trionfo del neoliberismo, ripercorrendo tentativi di resistere o di articolare diversamente l'impegno in campi più sociali o culturali e meno politicamente schierati.
Ogni anno, anche quando i gruppi si sono nuovamente disgregati, anche per il sopravvenire degli impegni dell’età adulta, magari in pochi si ricrea la magia di un momento di incontro, intorno a Capodanno, ad ascoltare rapiti le operine di auguri, a girare per le case per andare a trovare persone ormai anziane, a inventare nuove occasioni di incontro. E tutto è reso possibile da quel genietto mai stanco, Scabia, con il suo maglione di lana grossa, la lunga sciarpa rossa, i pantaloni di velluto, la bianca chioma, sorridente e ammiccante quando legge, poeta non solo perché scrive versi ma soprattutto perché sa leggere il desiderio di proiettarsi negli altri mondi delle persone comuni, il bisogno di poesia.
Cosa sia poi questa poesia, questa signora impressionante, come lui la chiama nel libro omonimo pubblicato da Casagrande nel 2019, è il problema. Dappertutto la ha cercata, anche tra i poeti di Marmoreto e tra i ragazzi della Briglia, nel loro teatro dilettantistico amatoriale, fatto di amore e di diletto, e perciò da conservare segreto, lontano dalle luci troppo forti, spesso false, che trasformano in mestiere e (quasi) sempre in routine.
È fuoco, è vento, è scoperta continua.
È – ha scritto Giuliano Scabia in Una signora impressionante:
Sì – è una signora impressionante.
Ha accompagnato la specie umana – ha provato a guidarla.
Quando incontri dopo tanti anni il primo amore settantenne lui, che era lepre, farfalla, goccia di rugiada e usignolo ora ha la bocca di cartone e seni di cartapesta – e non si ricorda niente.
Ma tu l'ami – e gli svegli la primizia.
È germoglio, linfa travolgitrice.
Ha la voce/carne che viene dall'origine della voce – lungo il tempo del logos.
È il logos.
È gli dei.
È comedìa, tragoudìa – vento.
Vento luce, mente luce, trauma luce.
Non veggente, cieca.
Cieca come la luce.
Non ha bisogno di essere letta, la poesia.
Agisce nel profondo del magma vivente. Senza che lui lo sappia lo svela e lo calma, lo guida illuminandolo.
È azzurra, color oro, nera, sapiente, cipolla, rosmarino, gloria e ragazza zappatrice, bianca e melodiosa.
Attraversa boschi e autostrade, case rotte e grattacieli, costruisce e disfa, si rintana, inventa vertigini, è vergine e puttana, si seduce e si innamora nel mare lingua denso dei suoni vivi.
È pescosa.
Emerge dappertutto – nei manicomi, nelle malattie, nei letti delle operazioni, nei baci, nei capitomboli, è carro, volo, rondine, arpa, glicine, violoncello, madre, amante, sorella, sposa, figlia, latte, erba, albero, notte, canto, padre.
Chi sei, signora?
Giuliano Scabia, Dialoghi segreti di paesi. Visite e canti nell’Appennino Tosco-Emiliano 1974-2020, La casa Usher, pagine 280, illustrato, euro 28.