Nell'anniversario della morte del pittore / Van Gogh. La verità dei fatti

29 Luglio 2016

Lo sappiamo tutti. Van Gogh si è tagliato l’orecchio nel dicembre 1888. Un anno e mezzo dopo si è tolto la vita con un colpo di pistola. È l’artista che più di ogni altro ha incarnato nel Novecento il mito dell’artista maudit. Il cliché visivo più famoso, che ha fatto il giro del mondo, è l’interpretazione di Kirk Douglas in Lust for Life, Brama di vivere, il film di Vincente Minelli (1956) basato sulla biografia romanzata di Irving Stone del 1934.

E proprio dall’archivio di Stone spunta oggi un documento sepolto da quasi un secolo che ha spinto il Museo Van Gogh a fare il punto della situazione su due momenti della biografia di Vincent che appartengono alla leggenda.

 

Emile Schuffenecker, copia di Autoritratto con l’orecchio bendato di Vincent van Gogh, 1892-1900

 

Sull’orlo della follia. Van Gogh e la sua malattia è la nuova mostra aperta ad Amsterdam (fino al 25 settembre, a cura di Nienke Bakker, Louis van Tilborgh e Laura Prins) che prova a districarsi nel fitto labirinto di un argomento spinoso. Non dà soluzioni o risposte; per questo ci sarà, a metà settembre, un convegno internazionale di medici, psichiatri e storici dell’arte. L’intento di questa mostra è piuttosto quello di mettere in fila con chiarezza fatti e documenti (alcuni mai esposti prima), far luce su miti e misteri dell’ultimo periodo di vita di Vincent, tra alcune delle opere più significative legate alla sua malattia. L’obiettivo di queste scelte (con due soli prestiti di quadri il Museo ha costruito il percorso) non è quello di legare la sua produzione artistica al suo stato mentale, ma di chiarire che Van Gogh lottava per lavorare, nonostante la sua malattia. Molte fotografie dell’epoca documentano i luoghi e i protagonisti della vicenda ospedaliera.

 

 

Il mistero dell’orecchio

 

“Il 23 dicembre in cassa c’erano ancora un luigi e tre soldi. Quel giorno ho ricevuto da te il biglietto di 100 franchi. Ecco le spese. Dati a Roulin per pagare il mensile di dicembre alla domestica, 20 franchi. Pagato gli infermieri che mi avevano medicato, 10 […] Pagato per far lavar lenzuola, coperte, biancheria insanguinata ecc. 12,50. Acquisti vari, come una dozzina di pennelli, un cappello ecc. ecc., diciamo per 10”. Questo è il quadro di Vincent al suo ritorno alla Casa Gialla di Arles, e il puntuale resoconto economico al fratello Theo il 17 gennaio 1889. È stato dimesso dieci giorni prima.

 

Dell’episodio dell’orecchio (sera del 23 dicembre) non ricorda niente. La polizia lo trova il mattino del 24, senza sensi (inanimé) nel suo letto pieno di sangue e lo porta all’ospedale di Arles. Com’è noto, la sera prima Vincent si taglia l’orecchio, lo avvolge in un cartoccio e lo porta in dono alla prostituta del bordello del paese: “Custodiscilo con cura”. La ragazza sviene all’istante. La notizia è riportata sul giornale locale. Un testimone è Gauguin, il quale però dichiara che Van Gogh si comportava in modo così strano che lui aveva deciso di dormire in albergo. Quindici anni dopo, nelle sue memorie Avant et Après, Paul Gauguin scrive una versione diversa: dopo un’accesa discussione Vincent lo avrebbe rincorso e minacciato con un rasoio.

 

 “[…] ho ripreso il lavoro e ho già tre studi finiti nell’atelier, più il ritratto al signor Rey che gli ho dato come ricordo”. Un giovanissimo dottore, gentile e “instancabile”, come lo descriverà più tardi, è il primo all’ospedale che lo assiste e lo cura. Quando sta meglio lo tiene nel suo studio a far quattro chiacchiere per distrarlo.

 

Vincent van Gogh, Ritratto del Dott. Félix Rey, 1889, Pushkin Museum, Mosca

 

Il 30 dicembre Félix Réy scrive a Theo “Quando ho cercato di fargli dire cosa lo avesse spinto a tagliarsi l’orecchio, mi ha risposto che era una questione personale”. Nelle sue lettere Van Gogh non ne parlerà mai, “un colpo di testa d’artista”. Si limiterà a segnalare la “grande perdita di sangue” e il fatto che doveva “riprendere le forze”, per poi scherzarci sopra: “dovrei farmi fare un orecchio di cartapesta”.

 

Forse bisognava prenderlo sul serio, perché, a quanto pare, era rimasto solo il lobo: l’esatto contrario di quello che si credeva fino ad oggi. La storia è lunga. Da un lato c’era il giornale locale che scriveva che il pittore olandese aveva donato “il suo orecchio”, e Gauguin che sosteneva la stessa cosa. Dall’altro Jo, la moglie di Theo (“si era tagliato parte dell’orecchio”), il figlio di Gachet (“si notava a malapena”), e Paul Signac (che era andato a trovarlo a Arles) in un modo o nell’altro dissero tutti che si era tagliato solo la parte bassa.

Però nel quaderno degli appunti di Gustave Coquiot, critico e scrittore francese (che pubblicò una biografia di Van Gogh nel 1923), questa discrepanza è chiarissima: prima trascrive la lettera ricevuta da Paul Signac “si era tagliato il lobo dell’orecchio (e non tutto l’orecchio)” ma poi sotto scrive in rosso: “Rey mi dice: tutto l’orecchio, lasciando solo il tragus”.

Più tardi, nel 1936, gli psichiatri Doiteau e Leroy pubblicano un articolo con un disegno dell’orecchio tagliato a circa metà nella parte bassa. E nel 1969 Marc Edo Tralbaut riprende quel disegno nel suo documentato studio Van Gogh. Le mal aimé. Il gioco è fatto. Da allora la questione sembrava dovesse rimaner chiusa così.

 

Ma dall’archivio della corrispondenza di Irving Stone, conservato in California, arriva oggi la sorpresa. Una storica dell’arte, Bernadette Murphy, ritrova un documento che svela il mistero. È una lettera del dottor Rey, datata 18 agosto 1930, che illustra a Stone come sono andate le cose: “l’orecchio è stato tagliato con un rasoio seguendo la linea tratteggiata”.

La linea tratteggiata recide tutto il padiglione auricolare, tranne il lobo, come descritto sotto: “L’aspetto di quello che restava del lobo dell’orecchio”.

 

Lettera del Dott. Félix Rey a Irving Stone, 18 agosto 1930, Bancroft Library, University of California, Berkeley

 

Un atto radicale. “Il sacrificante è libero, libero di lasciarsi andare lui stesso a un tale sgorgo […]” scrive Georges Bataille nel 1930 (La mutilazione sacrificale e l’orecchio reciso di Vincent van Gogh, Documents, 1971). Niente sarà più come prima. Ma Van Gogh affronta la sua malattia con stoica pazienza. Ogni pittore rischia di “diventare un po’ tocco”, scrive a un certo punto… La parola fou, toqué, compare spesso nelle lettere in francese. La romantica associazione tra genio e follia gli è molto chiara, parla spesso di pittori poveri sfortunati o suicidi, e, nell’agosto precedente, poco dopo aver acquistato uno specchio per la Casa Gialla, aveva paragonato il suo sguardo a un dipinto di Emile Wauters, su La pazzia di Hugo van der Goes, che già a vent’anni lo aveva colpito per la sua intensità.

 

Con una dozzina di pennelli e un cappello nuovo per mascherare la fasciatura ecco che s’interroga per raccontare la sua verità in pittura: è un uomo tranquillo che fuma la pipa, in fondo era quello il suggerimento del “grande Dickens” contro il suicidio. “Per il momento non sono ancora pazzo”.

L’autoritratto con l’orecchio bendato e la pipa è parte di una collezione privata, e in mostra vediamo una copia a pastello di Emile Schuffenecker, che a quel tempo possedeva diversi quadri di Van Gogh e amava copiarli minuziosamente.

Ma quello che forse non viene sottolineato abbastanza è la decisione di Van Gogh di dipingere due ritratti di sé con l’orecchio bendato (un secondo, con stampa giapponese sullo sfondo, è conservato a Londra alla Courtauld Gallery) che portano con impressionante semplicità la traccia e la cronaca del suo dramma. Una decisione audace e lucida. Audace perché forse solo Dürer prima di lui aveva indicato con tanta chiarezza un suo dolore; lucida perché costruisce la scena con cura. Il rosso e il verde sono i colori che usa qui, contrasti simultanei, e sono gli stessi che aveva usato per dipingere Il caffè di notte di Arles, l’estate precedente. Lì con il colore aveva cercato di esprimere “la potenza delle tenebre di un mattatoio”. Non commenterà mai questi due autoritratti.

 

 

Da un ospedale all’altro

 

“Rimarrà pazzo?” scrive Theo a Jo al suo ritorno a Parigi, “i dottori per ora sono positivi”. Theo si era precipitato ad Arles il 25 dicembre, ma era ripartito la sera stessa con Gauguin. Presto sarebbe andato una settimana in Olanda, per la festa del suo fidanzamento del 9 gennaio. Si sposerà in aprile. Van Gogh rimane in ospedale due settimane, e al ritorno alla Casa Gialla riprende subito a dipingere. Ma il 7 febbraio ha una ricaduta, è convinto lo vogliano avvelenare. Per la seconda volta viene messo in isolamento. I dottori sono meno positivi, consigliano un ricovero in una casa di cura. Il reverendo Frédéric Salles lo prende sotto la sua ala protettrice, lo va a vedere ogni giorno, gli fa scaldare la cella, tiene i contatti con Theo.

 

La storia è nota, i vicini nel frattempo “si sono montati la testa l’un l’altro” come scrive Salles a Theo, e a fine febbraio sottoscrivono una petizione per farlo internare. Gli rimproverano un comportamento “indecente”, ma in realtà fanno leva sull’episodio dell’orecchio per non vederlo più in giro. La petizione è un misero foglio, carta a quadretti, sottile, ormai consunto, indirizzato al Sindaco di Arles e firmato “i suoi devoti elettori”. Sotto, trenta firme, molte illeggibili.

 

“Ed eccomi di nuovo da lunghi giorni chiuso sottochiave, con chiavistelli & guardiani, in cella, senza che la mia colpevolezza sia provata e neppure provabile. […] se non contenessi la mia indignazione, verrei subito giudicato pazzo e pericoloso, mi restano la pazienza e la speranza.” È il 19 marzo 1889, in seguito alla petizione Vincent è rinchiuso all’ospedale di Arles. Ma lì non poteva rimanere a lungo. A quel punto c’era il rischio di un internamento che sarebbe stato devastante, in un manicomio pubblico, Marsiglia o Aix-en-Provence. L’ordine era già pronto ma non fu mai firmato.

Il reverendo Salles tiene la situazione sotto controllo e sollecita una risposta da Theo: preferiva che suo fratello ritornasse a Parigi, o che si cercasse un istituto privato, o voleva lasciare la decisione alla polizia di Arles? “Spero, malgrado il commissario centrale sia convinto e sembri deciso a fare internare vostro fratello, che riusciremo a tenerlo qui e che saremo in grado di evitare quello che temete. Come vi ho scritto ieri, tutti qui in ospedale l’hanno in simpatia e, dopotutto, sono i medici e non il commissario che possono giudicare in materia”. Salles proporrà a Vincent e a Theo l’istituto che tutti conosciamo: Saint-Paul de Mausole a Saint-Rémy.

 

Prima di lasciare l’ospedale di Arles Van Gogh ne dipinge la corsia: eccolo tra i malati, mentre legge il giornale. Ha il cappello di paglia.

 

Vincent van Gogh, La corsia dell’ospedale, 1889, Oskar Reinhart Collection ‘Am Römerholz’, Wintertur 

 

“Quanto a me, andrò a stare 3 mesi in una clinica a St-Rémy, non lontano da qui. In totale ho avuto quattro grandi crisi durante le quali non sapevo minimamente cosa dicevo, volevo, facevo. Senza contare che, prima ancora, sono svenuto 3 volte senza un motivo plausibile e senza serbare il minimo ricordo di ciò che provavo in quel momento.” Queste le parole alla sorella Willemien, a fine aprile 1889.

A Saint-Rémy ci rimane un intero, lunghissimo anno. Ha anche uno studio per dipingere. All’inizio non può uscire ma in giardino e in cortile i soggetti non mancano. Nei suoi lavori c’è la farfalla notturna, tête de mort, l’edera, le panchine vuote, l’albero con il tronco mozzato, “colpito da un fulmine e segato”. È “il gigante tenebroso – come un orgoglioso sconfitto” ributta “un ramo laterale”.

 

Vincent van Gogh, Il giardino dell’ospedale, 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

 

I malati dapprima lo spaventano un po’, anche se è arrivato a considerare “la follia una malattia come un’altra”. La pittura è la sua miglior medicina, il “controveleno” il “parafulmine” contro il suo male. Varie crisi a Saint Rémy, dove si sente in prigione, tanto che dipinge una copia a colori dell’opera di Gustave Doré, l’ora d’aria dei condannati di Newgate: uno di loro ha i capelli rossicci.

Questi pazienti non ricevono cure, “sono lasciati vegetare nell’ozio”. Bagni caldi e freddi alternati due volte alla settimana era la cura dell’epoca. Nient’altro.

 

A settembre 1889, dopo una lunga crisi, dipinge un ritratto straordinario che da solo merita il viaggio, non viene quasi mai esposto. È quello di un malato. Occhi liquidi non definiti, un fumo sale dal cervello, a destra e a sinistra, come se il cervello stesso dovesse evaporare, stesse già evaporando. Una vestaglia che trema.

 

Vincent van Gogh, Ritratto di un paziente, 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

 

Dipinge due piccole tele in quei giorni dopo la crisi, il ritratto del malato che ha come specchio da mesi, e l’autoritratto per la madre, alla quale sta scrivendo:

“La mia lettera deve partire – al momento sto lavorando al ritratto di uno dei pazienti di qui. È strano come uno da tanto tempo con loro e lì insieme a loro, non arriva più a pensare che quelli sono pazzi.”

 

Il 16 maggio 1890 Van Gogh lascia la clinica psichiatrica di Saint-Rémy-de-Provence per tornare al Nord. Andrà a Auvers-sur-Oise, nella campagna parigina, a pochi chilometri dal fratello, da Jo e dal piccolo Vincent. Spera in una resurrezione, lo spera a tal punto da mettere il suo volto al posto di Lazzaro, in una grande tela dipinta poco prima di partire, e inondata di giallo. È una copia dall’incisione di Rembrandt, La resurrezione di Lazzaro, ne sceglie un particolare. Un sole giallo rotea in cielo, è un sole d’invenzione. Il suo ultimo sole.

 

 

Il mistero dell’ultima lettera

 

Auvers-sur-Oise, Mercoledì 23 luglio 1890

“Ebbene nel mio lavoro rischio ogni giorno la vita e vi ho perduto metà della mia ragione – va bene – ma tu non sei tra i mercanti d’uomini per quanto io sappia e possa giudicare trovo che stai agendo realmente con umanità ma cosa vuoi”

Non sappiamo se le macchie che vediamo siano macchie di sangue. È una lettera a Theo non finita e non spedita, considerata un addio. Van Gogh l’aveva in tasca il giorno del suicidio. È raro vederla esposta.

 

Lettera di Vincent van Gogh al fratello Theo, 23 luglio 1890 [RM25], Van Gogh Museum, Amsterdam

 

Le ultime quattro parole, mais que veux tu, sono senza punto interrogativo, anche se la costruzione in francese lo vorrebbe. Eppure nelle varie versioni vengono caricate di enfasi: ‘Ma cosa vuoi mai?’ ‘Ma che vuoi mai?’ Invece Van Gogh sta scrivendo senza punteggiatura e senza virgole, come faceva spesso nel malinconico flusso del pensiero.

La lettera è interrotta. Va aggiunto però che il foglio non fu mai spedito non perché si suicidò e non fece in tempo, ma perché non volle spedirlo: siamo infatti di fronte a una prima versione della lettera subito successiva, sempre del 23 luglio (qui non esposta), oggi ritenuta l’ultima lettera, firmata e spedita. Le due lettere iniziano proprio allo stesso modo: Vincent ringrazia il fratello per i cinquanta franchi appena ricevuti. Nella seconda versione però il tono di fondo non è così cupo, e la lettera è arricchita da quattro disegni e un’ordinazione di colori, anche se ridotta a “un minimo ben ristretto”. Chiede il minimo… forse per evitare a Theo una spesa troppo alta, da tempo si sente un peso per il fratello, o, forse, perché non vuole avanzare tubi di colore…

Il suo ultimo quadro, Radici, non è finito. Una danza astratta come mai prima, tra radici contorte e torrenti di luce, dipinta all’aperto senza esitazioni, nei sottoboschi di Auvers.

 

Vincent van Gogh, Radici, 1890, Van Gogh Museum, Amsterdam

 

Nel rileggere le righe di un uomo che si suiciderà quattro giorni dopo, nelle due versioni (inseparabili) della stessa lettera, della stessa penna, si percepisce l’altalena lacerante tra la melanconia “attiva”, quella del lavoro, e melanconia “della disperazione”, già descritta dieci anni prima, ai tempi del Borinage. Sono più di duecento le svariate diagnosi formulate nel tempo, ma la più lucida autoanalisi del pittore riemerge qui, negli ultimi due scritti.

 

 

Il mistero dello sparo. Ritrovata l’arma fatale?

 

“Non siamo convinti del recente suggerimento che Van Gogh non si sia suicidato ma che fu accidentalmente ferito a morte dai due giovani studenti ” scrive nel 2012 Louis van Tilborgh (ricercatore senior al Museo Van Gogh) in una piccola nota in fondo a un articolo nei Van Gogh Studies. È una prima risposta a Steven Naifeh e Gregory W. Smith, i due autori della corposa e pubblicizzata biografia Vincent van Gogh. The life (più di 900 pagine, 2011) che, facendo leva su dicerie degli anni ’50, sostenevano una tesi a dir loro rivoluzionaria, e cioè che Van Gogh sarebbe stato ucciso da una revolverata di René Secrétan, un ragazzotto di Parigi che col fratello accompagnava il pittore nei campi, facendogli scherzi d’ogni tipo. Dalla pistola sarebbe partito un colpo frutto di chissà quale gioco. Van Gogh non denunciò il ragazzo avvalorando la tesi del suicidio. Lo sparo, precisano altresì gli autori americani, era partito “troppo da lontano” (too far out), e non poteva essere di Van Gogh.

 

Nel 2013, in un articolo sul prestigioso Burlington Magazine, Louis van Tilborgh e Teio Meedendorp (The Life and Death of Vincent van Gogh) riprendono ampiamente la questione e chiariscono il problema così: la tesi dei due autori americani si baserebbe su un’errata interpretazione del bollettino medico, che è in francese. Lo sparo era stato “troppo esterno” (trop en dehors) –, dunque non aveva potuto raggiungere il cuore di Vincent (che morì due giorni dopo). E non “troppo da lontano”…! Insomma un granchio colossale. La questione è chiusa: nient’altro che rumors.

 

Lefaucheux revolver, 1865-93, collezione privata

 

La sezione della mostra intitolata The end propone, senza commenti, un angolo di reperti.

Entrano in scena una pistola arrugginita e un quadro di Paul Gachet junior (figlio del dottor Gachet), una veduta del luogo dove Van Gogh si sparò, a poca distanza dall’Auberge Ravoux: c’è una stradina, alcuni covoni. Nulla che rimandi al Campo di grano con i corvi.

La pistola che vediamo è stata rinvenuta intorno al 1960 da un contadino che arava i campi oltre i covoni dipinti dal giovane Gachet, dietro al castello di Auvers. Dalle analisi effettuate emerge che dall’arma fu sparato un colpo prima di rimanere nel terreno per decenni. È una pistola tascabile, una Lefaucheux di piccolo calibro, molto comune a quel tempo, lunga una spanna. Dato il luogo del ritrovamento e la natura della ferita di Van Gogh (il calibro corrisponde), è ‘quasi certamente’ l’arma del suicidio. Sappiamo che la rivoltella che Van Gogh usò apparteneva a Gustave Ravoux, il proprietario della locanda dove alloggiava, ma come se ne impossessò rimane un mistero. Le tracce di polvere da sparo intorno alla ferita, citate nel rapporto medico, suggeriscono questo: lo sparo fu estremamente ravvicinato.

 

“Se non avessi la tua amicizia sarei rispedito senza rimorsi al suicidio e per quanto io sia codardo, finirei per andarci.” È l’aprile 1889 quando Vincent scrive queste righe al fratello, poco prima di entrare nella clinica di Saint- Rémy. Colpisce l’espressione finale della sua frase. Il suicidio è un luogo.

 

 

Immagine e mito

 

Un obiettivo non secondario di questa mostra è quello di offrire nuovi dati per correggere il mito Van Gogh, una missione alla quale i ricercatori del museo si dedicano da decenni. Dal centenario dalla morte (1990) ad oggi, la priorità è stata data all’epistolario e alle ricerche scientifiche sui metodi di lavoro di Vincent, i cui risultati costituiscono oggi l’ossatura imprescindibile di ogni studio sull’opera.

Per fare un solo esempio che ben rende l’idea, Il campo di grano con i corvi, immortalato come luogo del suicidio, non è l’ultimo quadro. Inoltre il conteggio computerizzato dei fili della trama delle tele degli ultimi quadri di Van Gogh (dipinse tredici opere di un metro per cinquanta, double square) ha permesso di ricostruire la sequenza dei tagli dal rotolo di tela di 10 metri che Vincent ricevette da Theo in luglio.

 

La filmografia sulla vita del pittore ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione e disseminazione dell’immagine del mitico “Van Gogh”. Il romanzo di Irving Stone Brama di vivere fu un successo, tradotto negli anni in quaranta lingue. Ma è a Hollywood con Vincente Minelli che si cristallizza il mito dell’artista torturato, impulsivo, spontaneo, povero, sfortunato in amore, ignorato dai critici.

Il film fu accolto abbastanza bene in Olanda, nonostante i primi cattivi auspici. Sia il Kröller-Müller Museum di Otterlo che lo Stedelijk Museum di Amsterdam si rifiutarono di collaborare perché il film si basava su un romanzo “di second’ordine”, e liquidarono malamente Minelli come un “regista di musical”. Come se non bastasse, Vincent van Gogh junior (figlio di Theo) non concesse di filmare i suoi quadri. Ma Hollywood poteva farne a meno, e non si fermò… I critici olandesi non acclamarono il film, rimasero tiepidi, ma notarono positivamente “la somiglianza sorprendente dell’attore principale a molti autoritratti di Van Gogh”. Sono trascorsi 60 anni da quei giorni e il Museo sta ancora lavorando al labirinto di miti e fantasmi.

 

Still da Lust for life, Vincente Minelli, 1956, scena nel campo di grano con i corvi

 

Non per niente il labirinto è stato il grande omaggio a Van Gogh dello scorso settembre, in occasione del 125° dalla morte dell’artista e del nuovo ingresso del museo. Ben 125.000 girasoli altissimi, disposti in forma di labirinto-giardino, occuparono per quattro giorni parte del Museumplein, per essere donati ai passanti alla fine dell’evento. Girasoli per tutta la città, portati in bicicletta, in tram o a piedi, un’idea geniale per smontare tutto e disperdere festosamente il fiore preferito di Vincent che fu anche compagno del suo ultimo viaggio. Dalla locanda Ravoux di Auvers-sur-Oise al cimitero, sulla sua bara che non aveva potuto entrare in chiesa perché il prete si era opposto, c’era un mazzo di girasoli, Tournesols. Era il 30 luglio 1890, si era sparato una pallottola in petto tre giorni prima, la domenica 27, rimanendo in agonia per quasi due giorni.

 

On the Verge of Insanity. Van Gogh and his illness. Amsterdam, Van Gogh Museum, 15 luglio – 25 settembre 2016.

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