Goethe Institut Turin / Il Grande Vecchio ovvero La guerra delle immagini

13 Marzo 2017

 

Il 15/16 marzo a Torino due giorni di incontri sul tema delle immagini e della violenza: come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un contributo di Oliviero Ponte di Pino per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Si spara e si muore, tra le colline, nei deserti, nelle foreste.

Si muore nelle città e nei villaggi.

Si muore sulle mine e sotto il mirino dei droni.

Si muore davanti alle telecamere, sgozzati da un ragazzino.

Si muore falciati da un kalashnikov su una spiaggia.

Sono sofferenze indicibili. Una violenza insensata, disgustosa, inaccettabile. Sta togliendo vita e dignità a decine di migliaia di esseri umani. È impossibile trovare le parole per questo dolore, per queste sofferenze.

 

Ma le guerre, oggi più che mai, non si combattono solo con le armi. Una delle guerre più lunghe e profonde, in atto da millenni, vede fronteggiarsi parole e immagini. Parole contro immagini, immagini contro immagini. Che ci entrano nel cervello (o nell'anima o nell'inconscio, per chi ci crede). Che determinano le nostre emozioni, i nostri pensieri. Che ispirano le nostre azioni (o reazioni). Questa guerra dell'anima - dell'immaginario - sta plasmando le nostre visioni del mondo. È insieme profondamente radicata nella nostra attualità, nella sfera della comunicazione 2.0. Ma ha anche radici antichissime, che a volte riemergono con forza sorprendente. È una guerra che spesso usa come giustificazioni l'ideologia e la religione. Queste motivazioni posticce offrono solo un utile alibi a pulsioni che non hanno nulla a che vedere con la religione e con la metafisica, e sono solo macelleria. Interrogarsi su questa guerra di immagini e di parole è molto doloroso, e per alcuni può essere insopportabile. Per la violenza delle immagini, per le sofferenze che testimoniano. E anche perché si rischia di ridurre il dolore all'icona del dolore. O peggio ancora di sfruttare la materialità della sofferenza per un piacere sadico e voyeuristico. Siamo morbosamente affascinati dall'orrore. Anche per questo i media occidentali hanno deciso di censurare molte delle immagini prodotte in questi mesi dagli apparati di propaganda dell'Is (o Daesh).

 

Ancora più delle singole immagini, o dei singoli formati, rischia di risultare perturbante (o blasfemo) il loro montaggio. Dietro al meccanismo dell'accostamento e del montaggio è sempre in agguato una potenzialità ironica, una pulsione dissacrante. Fare dell'ironia sui cadaveri è moralmente scorretto. Fare dell'ironia “ai tempi del jihad” può essere pericoloso, come sappiamo dalla vicenda di “Charlie Hebdo”. Salman Rushdie, vittima del 1991 della prima fatwa che condanno il suo romanzo I versetti satanici, ha avuto modo di riflettere sull'argomento, a partire da

“un punto di vista che ho sentito esprimere la prima volta da Wim Wenders. Il regista mi disse che nella nostra epoca complessa e disorientante era importante che nel narrare storie gli artisti evitassero accuratamente l'ironia. Ormai non potevamo più permettercela. Bisognava invece essere limpidi e cristallini, così che il pubblico, o il lettore, non avesse dubbi circa gli intenti dell'artista.”

(Salman Rushdie, La lingua ai tempi della Jihad, in “la Repubblica”, 19 ottobre 2014)

 

L'ironia è stretta parente dell'ambiguità e dell'interpretazione, ovvero di quello che tutti i fondamentalisti temono, rifiutano e perseguitano. È alla base di qualunque pensiero critico, ci consente di cogliere la complessità del reale.

Malgrado i rischi, dare (o ridare) la parola alle immagini, tessere una narrazione (o una contro-narrazione), diventa un indispensabile esercizio critico, una ginnastica certo dolorosa ma forse utile.

 

 

Il Vecchio della Montagna

 

Il Vecchio della Montagna (o Veglio della Montagna) è il protagonista di una vicenda raccontata nel Milione da Marco Polo. La storia, diffusa non solo in Europa, racconta di un castello fra i monti, che era stato allestito come un autentico paradiso terrestre con cibo, bevande, divertimenti e altre delizie, simile a quelli promessi da Maometto ai fedeli mussulmani.

 

Il veglio della montagna

 

“Quando lo Veglio ne facea mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e quelli dormía bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea isvegliare. Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte queste cose, veramente credeano essere in paradiso”.

 

In quel giardino incantato i giovani selezionati potevano godere di tutti i piaceri della vita terrena e ultraterrena, comprese le vergini promesse come ricompensa ai martiri. Da questo Eden posticcio i predestinati potevano entrare e uscire solo profondamente addormentati, un po' come accade al Principe Costante nella Vita è sogno di Calderón de la Barca. Quando il Vecchio aveva bisogno di eliminare un nemico, imbottiva il più valoroso dei suoi guerrieri di oppio o di hashish. Così diventava un hashishin: il termine “assassino”, che usiamo oggi in diverse lingue, deriva proprio da lì. Quando il giovane si risvegliava, si ritrovava in un luogo desolato, con un adepto del Vecchio accanto a sé: disperato e confuso, si sentiva spiegare che avrebbe visto il paradiso solo dopo aver portato a termine una pericolosa missione, uccidere un nemico del Vecchio. Se fosse morto, l'attendeva il vero Paradiso destinato ad accogliere i martiri del Jihad. Se fosse sopravvissuto, poteva tornare nel Paradiso Terrestre da cui era stato escluso.

 

“E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello che sia lo più vigoroso, e fagli uccidere cui egli vuole. E coloro lo fanno volentieri, per ritornare al paradiso; se scampano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole morire, credendo di ritornare al paradiso”.

 

La vicenda narrata da Marco Polo ha un riscontro storico. Alla fine dell'XI secolo, nelle montagne a Sud del Caspio, il fondatore della setta degli Ismailiti, Hassan-ibn-Sabbah, si arroccò nel castello di Alamut. Usò il metodo descritto da Marco Polo – sorreggendolo con motivazioni teologiche – per eliminare gli avversari politici, compresi molti mussulmani ortodossi. Lo stesso Saladino sfuggì per poco a un attentato degli “assassini”. La tattica fu seguita dai successori di Hassan-ibn-Sabbah, fino a Ala-uddin Mohammed (1220-1255), il personaggio descritto da Marco Polo, e a suo figlio Rukn-uddin, sconfitto e ucciso nel 1265 dal fratello del “Gran Cane”, Hulaghu (e non dai cristiani o dai mussulmani, con i quali alternativamente gli ismailiti si alleavano e guerreggiavano). Oggi ci sono diversi gruppi di Ismailiti, dalla Turchia all'India; uno di essi è guidato dall'Aga Khan, l'imprenditore che ha creato alcune delle località più prestigiose della Costa Smeralda, sulla costa settentrionale della Sardegna.

 

In Occidente la figura del Vecchio della Montagna ha suscitato (e continua a suscitare) un misto di orrore e attrazione. Dopo Il Milione, il Veglio ricompare tra l'altro in Dante, nel Novellino e nel Decameron (III 8 31). Nella poesia dei trovatori e in Dante, la devozione degli “assassini” al loro capo politico e spirituale diventò la metafora della fedeltà assoluta dell'amante all'amata. “I' sì son tutto presto / di farvi pura e fina fedeltate, / più ch'Assessino al Veglio o a Dio il Presto” (Fiore II 11) significa più o meno:

“Ti amo così tanto che se tu me lo chiedessi mi farei saltare in aria come un kamikaze”.

 

Questa storia, profondamente radicata nel nostro immaginario, riemerge spesso quando dobbiamo confrontarci con un Altro che non conosciamo e comprendiamo. L'archetipo era riverberato inconsapevolmente nell'immagine che i media italiani hanno offerto dei “terroristi”: anche per le Brigate Rosse si è cercato a lungo il “Grande Vecchio” che indottrinava e addestrava i giovani terroristi per poi mandarli a uccidere (e spesso a morire).

 

La figura dello hashishin è riemersa di recente, riconoscibilissima al di là di qualche attualizzazione:

“Secondo quanto ha rivelato ai primi di giugno un giornale svizzero, quest'organizzazione criminale [l'IS, n.d.r.] disporrebbe di una droga rara, una sostanza psicotropa particolarmente pericolosa per l'equilibrio mentale, denominata Captagon: una pillola che ha il potere di vincere la stanchezza, sopprimere la paura e minimizzare la morte, consentendo oltretutto a chi l'assume eccezionali prestazioni sessuali. Prodotta in Bulgaria, è vietata ovunque nel mondo, ma l'Is sarebbe riuscita a procurarsela e ne farebbe uso per gli attentati suicidi. Siamo dunque lontani dallo spirito di sacrificio ispirato dall'amore di Allah.”

(Tahar Ben Jelloun, “la Repubblica”, 25 giugno 2015)

 

Per il “Corriere della Sera”, anche il giovane tunisino che ha ucciso a colpi di kalashnikov decine di turisti sulla spiaggia di Soussa nel giugno 2015 sarebbe stato sotto l'effetto del terribile Captagon.

 

Osama Bin Laden

 

Osama Bin Laden ha prodotto, interpretato e diffuso, soprattutto via internet, una serie di video in cui si presentava con la tranquillizzante icona di un vecchio saggio, in contrasto con le minacce espresse verbalmente. I videoclip erano attentamente calibrati nello scenario (uno sfondo dal chiaro valore metaforico ma difficile da localizzare geograficamente), negli abiti, nell'acconciatura. Allo stesso modo erano utilizzate consapevolmente le tecniche retoriche che gli attori, i predicatori e i politici conoscono da sempre.

 

 

Fenomenologia dell'uomo nero

 

Abu Bakr al-Baghdadi, che nel luglio del 2014 si è proclamato “califfo” nella Mosul appena conquistata, “ha 44 anni e viene chiamato ‘il fantasma’ o lo sceicco invisibile, perché appare in pubblico di rado e con i suoi subordinati porta una maschera” (Bernardo Valli, Europei contro musulmani questo per l'Is è l'unico obiettivo, “la Repubblica”, 27 giugno 2014).

 

Da sinistra: il califfo al Baghdadi con il Rolex al polso, in un raro video; Che Guevara nella pubblicità della Rolex

 

Il Vecchio della Montagna si sovrappone così a un'altra figura, quella dell'Uomo Nero, che popola le fiabe, i fumetti e la politica contemporanea. Di recente, hanno fatto ricorso a questa maschera il Subcomandante Marcos nel Chiapas e Beppe Grillo in Italia. Nei due casi, quella maschera stava a significare che i due esponenti non erano leader ma solo portavoce di un movimento collettivo, e che dunque la loro identità personale era irrilevante. Nel caso di Marcos, si trattava anche di dissimulare la propria identità rispetto al “nemico”; in quello di Grillo, di irridere l'invadenza dei media.

 

Da sinistra: il subcomandante Marcos e Beppe Grillo

 

Dall'alto in basso, da sinistra a destra: Zorro, Batman, Topolino contro Macchia Nera, Fantomas

 

I dittatori cercano di costruire monumenti che glorifichino in eterno la loro potenza: statue gigantesche, portali, piazze, stadi... Al contrario, il Vecchio della Montagna non ha volto. Costretto a nascondersi, si nega allo sguardo dei nemici. È una figura sfuggente, misteriosa, che si mostra di rado, in circostanze eccezionali. Visto da vicino, rischia di sembrare solo un povero vecchietto, un nonno magari incarognito che però di sicuro ama tanto i nipotini... Meglio che non si faccia troppo vedere. Oltretutto non può nemmeno edificare monumenti alla propria gloria, come fanno tutti i dittatorelli, perché sa che avrebbero vita breve.

 

Tra i suoi caratteri, collegata all'invisibilità, c'è l'inafferrabilità. Anche quando il suo esercito viene sconfitto, quando il Signore del Male viene finalmente ucciso, resta in qualche modo immortale. Nelle fiabe, quando l'Orco viene catturato, la minaccia scompare. Nella realtà, la minaccia non può svanire. Amici e nemici faticano a credere alla sua fine. Philip Dick (La svastica sul sole) e Robert Harris (Fatherland), ma anche i 94 cloni di Hitler che popolano I ragazzi venuti dal Brasile di Ira Levin, ci hanno raccontato un mondo in cui Hitler, l'incarnazione del Male, non si sarebbe suicidato nel bunker di Berlino, assediato dai tank sovietici...

 

La forza del Vecchio della Montagna stava soprattutto nelle parole, nell'oralità dei racconti che lo riguardavano, e che diffondevano con il passaparola le sue terribili gesta. Hitler e Mussolini erano anche efficacissimi oratori, nei raduni oceanici delle piazze e nei primi comizi radiofonici. Con le loro parole infuocate accendevano gli animi dei loro seguaci e atterrivano i nemici. Sappiamo però che la forza dei potenti (e dei dittatori) sta anche nel potere di costruire e manipolare le immagini: prima quadri e statue, e monumenti che ne glorifichino la potenza, poi film e immagini televisive. La Russia di Stalin doveva diventare una “opera d'arte totale” plasmata dal “Piccolo Padre”. A che serve l'arte in un mondo perfetto, se non a proclamarne la perfezione? A glorificare il suo creatore?

 

Da sinistra: Navy Seals, Guerriglieri Is, Scontri

 

La stratificazione si fa ancora più complessa quando i corpi interagiscono con le immagini. I militanti e i militari dell'ISIS si fanno riprendere con il volto coperto, in genere da passamontagna neri. La scelta trova motivazioni di diverso livello. C'è in primo luogo, come abbiamo visto, la necessità di non farsi riconoscere mentre si compiono atti che possono esporre alla vendetta (da parte del nemico, o dei parenti delle vittime). Particolarmente interessante la figura di “Jihadi John”, il boia che si compiace nello sgozzare i giornalisti. Nella civiltà occidentale, il boia è una delle poche figure che ha il diritto – e il dovere – di presentarsi in pubblico a volto scoperto (indossare una maschera in spazi pubblici è vietato dalla legge italiana, salvo circostanze eccezionali “che confermano la regola”). Gli occidentali sono ossessionati da “Jihadi John”: vogliono togliergli la maschera, dargli un nome e un volto. È una ossessione poliziesca, naturalmente, che però affonda nel profondo. “Jihadi John” è peculiare anche per un altro motivo. Nella cultura occidentale il boia non deve parlare. Deve solo fare un lavoro sporco (impersonale) per conto di chi detiene il potere, che emette la condanna capitale ma non si sporca le mani. Usa la forza, ma delega il suo esercizio a una entità che non deve avere né nome né volto né parola. Dare la parola al boia significa legittimare la violenza su un piano molto diverso.

 

Donne afghane in coda per il voto

 

I “guerrieri” dell'ISIS, con la loro divisa, introiettano e ripropongono la scelta che impongono alle donne che indossano il burqa: nascondono il volto e il corpo, si rendono irriconoscibili, perdono la loro identità. Nascondere i volti e i corpi delle donne non riduce certo la violenza contro di loro, ma al contrario la facilita. Così mascherata la donna perde la propria individualità e diventa un bene fungibile, equivalente a qualsiasi altra e sostituibile da qualunque altra.

 

“Pensiamo al ridicolo divieto talebano di portare tacchi di metallo – come se, perfino quando le donne sono ricoperte di stoffe dalla testa ai piedi, il rumore dei loro tacchi potesse ancora provocare gli uomini... Il bisogno di imporre il velo alle donne implica un universo estremamente sessualizzato, in cui il mero incontro con una donna costituisce di per sé una provocazione a cui nessun uomo è in grado di resistere. La repressione dev'essere così forte perché il sesso stesso è così forte – che razza di società è quella in cui il ticchettio di un paio di scarpe fa esplodere gli uomini di desiderio?”

(Slavoj Žižek, L'Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme, Ponte alle Grazie, Milano 2015, pp. 40-41)

 

Nella primavera del 2015 una giovane artista afghana, Kubra Khademi, per protestare contro la violenza sulle donne, ha costruito un’armatura, una corazza di metallo e con quella addosso ha passeggiato per le strade di Kabul. Alcuni uomini l'hanno insultata, altri le hanno messo le mani addosso (ma era “corazzata”), altri l'hanno addirittura minacciata di morte. Lo stesso è accaduto alle donne che l’hanno seguita durante la sua manifestazione (vedi Alessandra Boga, “Afghanistan, un’armatura contro la violenza di genere creata da una giovane artista”, 4 marzo 2014).

 

Kabul, 2015: uomini in burqa manifestano per i diritti delle donne

 

A qualche giorno di distanza dal provocatorio gesto della studentessa è seguito, sempre a Kabul, un altro flash mob. Un gruppo di ragazzi ha indossa un burqa per poi sfilare nelle strade della città, per ricordare l'oppressione e la violenza sulle donne, Anche quei ragazzi sono stati scherniti, sia da uomini con i turbanti, sia da persone vestite all’occidentale (“Afghanistan: la performer con la corazza, gli uomini in burqa”). Kubra Khademi ha spiegato di non apprezzare il modello femminile che propone l’Occidente:

“Vorrei che gli uomini capissero che una donna non è un oggetto sessuale ma una persona. Non ho grande stima per il modello di donna occidentale: preferisco le iraniane e le turche che si tolgono il velo per protesta. Vorrei che accadesse anche qui”.

 

Donne siriane lasciano i territori dell’Isis e si spogliano dei burqa neri

 

Qualche settimana dopo, i media (e la rete) sono stati invasi da immagini di donne fuggite dalla Siria che non appena passato il confine con la Turchia si toglievano il burqa, rivelando abiti gioiosamente colorati, in un gesto di liberazione reale e di forte valore simbolico.

 

 

Le strutture elementari dell'immaginario

 

La guerra che si stiamo combattendo – che ci piaccia o no - è una guerra che si combatte contro i corpi (il corpo del nemico, il corpo dell'altro). Ma è anche – e prima ancora – una guerra che ha per campo di battaglia il corpo (il nostro e quello dell'altro). E insieme si combatte nell'immaginario e nel nostro inconscio.

 

Attentato alle Torri gemelle dell'11 settembre

 

“Le notizie dei disastri sono l'unica narrativa di cui la gente ha bisogno. Più sono cupe le notizie, più grandiosa la narrativa”, dice lo scrittore Bill Gray uno dei protagonisti del romanzo di Don De Lillo, Mao II (Einaudi, Torino). La notizia del disastro per eccellenza è quella dell'11 settembre. il crollo delle Twin Towers, probabilmente il filmato più visto e rivisto della storia.

Ma quella scena l'avevamo già vista. L'avevamo già vissuta.

 

Da sinistra: Airport, The Towering Inferno

 

L'attacco contro le due torri dell'11 settembre del 2001 è il remake – non si sa quanto inconsapevole - di un disaster movie hollywoodiano. Come tutti gli atti terroristici, è un gesto dimostrativo e intimidatorio, che non ha nessuna capacità reale di incidere sui reali meccanismi ed equilibri del potere mondiale. Quella sequenza, riprodotta all'infinito, ha plasmato e continua a plasmare il nostro immaginario. E tuttavia l'immaginario tecnologico (la potenza dell'aereo, del camion, dell'automobile come arma distruttiva) e cinematografico che ha ispirato il gesto è tutto occidentale: è il frutto tardo-futurista di un immaginario inconsciamente dettato dal nemico e introiettato, per poi essere rivolto contro il suo creatore.

 

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Jihadi John e i Teletubbies

 

Ma allora, che cosa anima l'immaginario dei jihadisti? Il Corano, naturalmente, e i manuali di addestramento alla guerriglia. Ma anche – e forse soprattutto - i fumetti e i cartoni animati, Hollywood e i videogame, Shaqira e il rap. Questo è l'immaginario che ha nutrito e continua a nutrire i capi e i kamikaze di Al Qaeda, i giovani miliziani e i boia dell'IS. Nicholas Henin, catturato dal Daesh nel 2013 con altri tre giornalisti francesi, sostiene di aver parlato più volte con i suoi carcerieri. Ha raccontato al “Daily Star” che il boia dell’ISIS “Jihadi John”, ovvero il 26enne Mohammed Emwazi, guardava i Teletubbies prima delle esecuzioni degli ostaggi:

“Mi è sembrato di capire che quei jihadisti avessero poco a che fare con la cultura locale, araba o musulmana che sia. Sono figli della nostra società occidentale. Parlano la nostra lingua, guardano i nostri film ed i nostri cartoni animati e giocano con gli stessi videogames dei nostri figli.”

(“Corriere della Sera”, 11 marzo 2015).

 

Così come il Vecchio della Montagna lavora da secoli nell'immaginario occidentale, così anche l'immaginario dei guerrieri del Daesh, così ossessionati dalla purezza della loro lettura dei testi sacri, sono in realtà molto vicini a noi. Ci assomigliamo più di quanto non pensiamo, molte delle gesta di Al Queda e del Daesh si nutrono dello stesso immaginario di cui siamo nutriti noi: a volte lo pervertono, a volte lo prendono alla lettera.

 

Uno dei settori in cui l'immaginario e le modalità produttive dell'Occidente è stato preso alla lettera è la creazione di video da diffondere viralmente in rete. Quelli di Osama Bin Laden erano rudimentali, rispetto a quelli diffusi dallo stato islamico. Dimostrano una elevata consapevolezza registica e una maniacale attenzione alla grammatica filmica. Non a caso uno degli artefici della filmografia del califfato è un giornalista occidentale che per salvarsi la vita (o rinviare la condanna a morte) recita la parte del bravo reporter nei territori controllati dal Daesh.

 

I video delle esecuzioni, a parte il soggetto agghiacciante, sembrano il compitino diligente di uno studente delle scuole di cinema. Chi l'ha concepito e realizzato deve aver studiato in qualche film school di Londra o Parigi l'inquadratura e la messa a fuoco, il campo e il controcampo, la carrellata, il close up, la suspence, l'effetto drammatico.

 

Video dell'esecuzione del giornalista americano James Foley

 

Questa cura è il frutto della volontà di dare credibilità, autorevolezza e legittimità al messaggio: “Guarda, sappiamo fare filmati degni dei professionisti di Hollywood e della grandi catene di news televisive. E i nostri filmati sonio molto più terribili, e dunque più appassionanti”. A giudicare dalla diffusione di questi video, la tattica ha funzionato. Tuttavia, dietro alla padronanza tecnica, qualunque spettatore minimamente avveduto s'accorge della capacità manipolatoria della regia e del montaggio: è un film di propaganda, che suona insieme “ufficiale” e falso. Perché quei filmati ripercorrono il paradosso che caratterizza il cinema porno:

“Il cinema pornografico è dominato da questa contraddizione continua: da un lato l'eccesso del corpo (la rappresentazione reale dell'atto sessuale), dall'altro un difetto di realtà (l'artificiosità di tutto ciò che non è riconducibile alla sfera sessuale”.

(Bruno Di Marino, Hard Media. La pornografia nelle arti visive, nel cinema e nel web, Johan & Levi, Milano 2013, p. 19)

 

La cornice è artificiosa, professionale, pulita. Quello che manca è – paradossalmente - l'eccesso del corpo. Quello che manca – per esempio - è il terrore della vittima con il coltello alla gola, il suo gesto imprevedibile di fronte alla certezza della morte imminente, quello che sporcherebbe l'inquadratura, il suo grido che potrebbe contraddire il sermone del boia. Questo è però possibile solo grazie a un trucco, raccontato da Goto, un disertore che operava come traduttore nello Stato islamico. Gli ostaggi appaiono relativamente calmi prima della loro decapitazione perché non sanno quello che sta accadendo e hanno già subito delle finte esecuzioni. Vengono dati loro anche dei nomi in arabo per farli sentire fra 'amici'. Goto ad esempio si chiamava Abu Saad. Inoltre la struttura di comando e controllo che l'Isis ha nella città siriana di Raqqa è dominata dai foreign fighters, che rappresentano il 70% dei jihadisti, a capo del restante 30% formato da siriani. L'uomo racconta di aver ricevuto l'ordine di dire agli ostaggi: “Non ci sono problemi, solo un video. Non vi uccidiamo, vogliamo che il vostro governo smetta di attaccare la Siria. Non abbiamo alcun problema con voi”.

 

Dietro alla perfezione patinata di quei video c'è l'uso perverso di una tecnica teatrale, che permette in qualche modo di esorcizzare la paura della morte, sia per la vittima sia per gli spettatori del supplizio.

Ma non è così che si muore davvero. Solo nei fumetti e nei videogame. Oggi, dopo la diffusione di massa di videocamere e telefonini smart, l’“effetto verità” è stato ricodificato. Lo ha dimostrato qualche anno fa The Blair Witch Project, realizzato nel 1999 da due giovani registi esordienti, Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, per un costo di 60.000 dollari e un incasso di 240 milioni.

 

The Blair Witch Project

 

The Blair Witch Project usa la tecnica del found footage, una retorica che ricorda quella usata in letteratura da Alessandro Manzoni per introdurre I promessi sposi quando finge di trascrivere un manoscritto seicentesco. Il materiale video montato nel film sarebbe stato lasciato da tre ragazzi: la loro misteriosa sparizione viene presentata come un fatto reale. The Blair Witch Project è dunque un mockumentary, un falso documentario, girato con una cinepresa a sedici millimetri in bianco e nero, destinata al racconto della storia, e di una piccola videocamera otto millimetri a colori, per le riprese di una sorta di backstage. L'artigianalità delle riprese, l'uso della macchina a mano, la fotografia sporca sono molto lontani dalla tecnica di un prodotto commerciale. Si avvicinano invece alle riprese amatoriali: anche in questo caso il porno ha indicato la strada, con i filmati autoprodotti del porno 2.0).

 

Questa antiretorica punta a un “effetto di verità”, che ricorda quello di pellicole pionieristiche, con Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1979). The Blair Witch Project utilizza un meccanismo che il teatro conosce bene: è un falso che sembra vero, e tutti ci credono. Quando il pubblico scopre che è fiction, il progetto non interessa più a nessuno, il secondo film della serie è un flop, il terzo non viene mai girato e i due giovani registi scompaiono dalla scena. Ma da allora gli “effetti di realtà” usati da The Blair Witch Project vengono sistematicamente sfruttati dagli uffici marketing di tutto il mondo per costruire pubblicità falsamente “autentiche”, magari “prodotte dai consumatori”. In parallelo, i telegiornali e youtube sono colonizzate da immagini girate con lo smartphone da testimoni spesso occasionali di omicidi, incidenti e catastrofi varie (smascherando a volte soprusi e ingiustizie, come in alcuni casi di omicidio di neri da parte di poliziotti negli USA).

 

Il video dell'attentato al Museo del Bardo a Tunisi fa parte di questo genere: sono immagini spesso confuse, mosse, con movimenti di macchina bruschi e inquadrature “sbagliate”. Il punto di vista deve anche essere il “punto di vita”, evitando le pallottole degli aggressori...

 

I video diffusi dall'Is hanno un rapporto profondo e irrisolto con il cinema porno. Al cinema

“dal punto di vista storico i due tabù da sempre considerati inviolabili erano il sesso e la morte, ed entrambi sono stati ampiamente forzati. Per quanto riguarda il cosiddetto snuff movie – reificazione di tutti i nostri fantasmi, paure e perversioni: assistere alle sevizie e all'uccisione di un essere umano – si tratta senz'altro di un concentrato di realismo e di orrore insostenibile ed esso rimane ancora avvolto nell'aura del leggendario e del fantomatico. Tutto questo perlomeno in quanto genere o forma specifica, dal momento che la cronaca televisiva ci ha ormai abituato ad assistere a snuff movies 'legalizzati', dall'uccisione di Ceauşescu a quella di Saddam Hussein, solo per citare i casi più lampanti.”

(Bruno Di Marino, op. cit., p. 21)

 

Un altro precedente – anche alla luce dell'impatto mediatico dell'11 settembre – è la ripresa dell'omicidio di John Kennedy nel novembre 1963 a Dallas, realizzata da Abraham Zapruder. Anche le immagini scattate dai militari (e dai contractors) americani all'interno della prigione di Abu Grahib, nell'Iraq occupato dall'esercito USA ricordano gli snuff movies. Raffigurano le sevizie imposte da alcuni prigionieri iracheni, in scenari rubati alle peggiori fantasie sadomasochistiche.

 

Le torture di Abu Grahib

 

Erano scatti privati, un ricordo personale di un'esperienza evidentemente gratificante. Non erano destinate a essere diffuse pubblicamente: rappresentavano un piacere privato, un ricordo da scambiare e condividere con i commilitoni, i partner, forse qualche famigliare. Quando sono state rese pubbliche, anche queste immagini hanno fatto il giro del mondo, suscitando scandalo e indignazione (e fornendo prove per una serie di processi contro gli aguzzini). E si sono sedimentate nell'immaginario collettivo, con una serie di icone destinate a essere riprese in seguito: la vittima con il cappuccio nero del boia (o del Ku-Klux-Klan), la tuta arancione del prigioniero terrorizzato, la catena al piede o al collo...

 

Guantanamo Bay

 

Altre immagini simili non erano e non sono invece private. Sono le fotografie della prigione nella base americana di Guantanamo, a Cuba, dove sono stati rinchiusi per anni i sospetti di terrorismo arrestati soprattutto in Afghanistan e in Iraq (una forma di detenzione giudicata in diverse occasioni illegittima anche dai tribunali americani, e tuttavia ancora praticata). L'iconografia è molto simile a quella di Abu Grahib, con i prigionieri umiliati, le tute arancioni. C'è in evidenza un altro elemento: la gabbia in cui sono rinchiusi i prigionieri (che ai più colti avrà forse ricordato la gabbia che dopo la Seconda Guerra Mondiale ospitò il poeta Ezra Pound, colpevole di complicità con il nazifascismo).

 

Il supplizio di David Haines

 

Lo scenario cambia, ma ritornano gli stessi personaggi e gli stessi elementi figurativi, a volte ribaltati: la divisa nera del membro del commando o del boia, la tuta arancione del prigioniero, la gabbia...

 

Il supplizio del pilota giordano Muad Kasasbeah

 

L'esecuzione capitale di Muad Kasasbeah, il 27enne pilota dell'aviazione giordana catturato dall'ISIS, è il grottesco remake del tipico sottofinale dei film di James Bond o di altri prodotti analoghi. Al culmine della sua pericolosa missione, l'eroe è stato catturato da un sadico avversario. Ora è in sua completa balia (magari accanto a lui c'è la sua bella amica, pure lei masochisticamente legata e seminuda). Ma il cattivo – che è un vero cattivo – non lo uccide subito: prima deve inventare un supplizio lento e doloroso, soprattutto vuole che il suo avversario sia consapevole dell'imminenza della morte e degli atroci tormenti che l'aspettano: una lama rotante che lentamente s'avvicina, l'acqua che sale piano fino all'affogamento, gli animali feroci (a scelta: alligatori, tigri, serpenti, scorpioni giganti...)

 

È come se il Vecchio della Montagna – che si tratti di Osama o di al-Baghdadi - avesse deciso di impersonare, nel reality della storia, il capo della Spectre braccato da James Bond, o il malvagio (ma ridicolo) Macchia Nera contro cui combatte Topolino nei fumetti di Walt Disney. Per scegliere il supplizio più spettacolare, l'Is adotta lo stesso metodo usato dai produttori cinematografici, e soprattutto dagli autori di fan fiction: assecondare le aspettative del pubblico, chiedendo l'aiuto degli spettatori per scrivere il finale della storia. Non sorprende dunque che quelle immagini, costruire a partire dalle richieste dei fans, diventino virali: sono state concepite per avere la massima diffusione nella mediasfera, scimmiottano generi di successo e facendo emergere i desideri repressi. Che però non sono “naturali”, ma sono stati plasmati dalla visione di film, telefilm videogames, almeno a giudicare dalla galleria di immagini che il “Corriere della Sera” ha pubblicato il 24 giugno 2015 (violando in qualche modo l’embargo contro queste immagini “contagiose”).

 

Supplizi: morte per acqua

 

Questi fotogrammi sembrano citazioni di pellicole celebri (per esempio Il cacciatore, non a caso un'opera che riflette su una guerra post-coloniale come quella del Vietnam) o da telefilm (la macchina che brucia e salta in aria, ripetuta all'infinito nel finale di moltissime puntate).

 

The Deerhunter (Il cacciatore)

 

Uno dei supplizi praticati dai boia del Daesh prevede la morte per affogamento dei condannati chiusi in un gabbia calata nell’acqua. L’orrore è stretto parente dell’idiozia, come confermano due particolari della vicenda.

Il primo:

“Telecamere sott’acqua hanno confermato che l’esecuzione è andata in porto e che sono tutti annegati.” (Annegati in una gabbia, colpiti con l’Rpg: così uccide l’ISIS, fotonotizia sul “Corriere della Sera”, 24 giugno 2015)

 

L’“effetto di verità” prevede dunque che – come nei documentari sulla fauna sottomarina – vengano predisposte telecamere subacquee, per confermare che un essere umano sott’acqua non sopravvive a lungo. Il secondo dettaglio riguarda l’espressione utilizzata dal quotidiano: la “morte per acqua” degli sventurati prigionieri, è stato scritto con macabra involontaria ironia, “è andata in porto”.

 

 

Il paradosso dell’iconoclastia

 

Un altro paradosso dell’Is è la cura e la diffusione delle immagini da parte di chi per altri versi pratica l’iconoclastia: una tendenza che difficilmente può praticare chi vuole riscuotere consensi nella società dell’immagine. L’episodio inaugurale nella lunga e tortuosa storia dell’iconoclastia è la distruzione dell’idolo – il Vitello d’Oro – dopo la discesa di Mosè dal Monte Sinai con le Tavole della Legge. Ebraismo, cristianesimo e islam sono religioni della parola. O meglio, sono religioni del libro. Il loro rapporto con le immagini è complesso, ambiguo.

 

Per il cristianesimo delle origini l’iconoclastia ha rappresentato una tentazione fortissima, faticosamente sconfitta. Tra l’VIII e il IX secolo gli imperatori bizantini Leone III Isaurico e Costantino V Copronimo scatenarono una violentissima campagna iconoclasta, che sconvolse la vita civile. Dipinti e statue vennero sistematicamente distrutti, coloro che li difendevano perseguitati o uccisi. Editti, dispute e persecuzioni, finché l’iconoclastia non venne condannata dal Concilio di Nicea (787) e definitivamente sconfitta dall’imperatrice Teodora. A quel punto, la nuova religione iniziò a usare le immagini con straordinaria efficacia: le icone, i codici miniati (che conciliano parole e immagini), Giotto e la Cappella Sistina…

 

A volte l’iconoclastia sembra riemergere ancora improvvisamente. Basti pensare alla polemica suscitata nel 2011-12 sia a Parigi sia a Milano dallo spettacolo Sul significato del volto del figlio di Dio di Romeo Castellucci. Con il suo gruppo, la Socìetas Raffaello Sanzio, negli anni Ottanta Castellucci aveva riflettuto proprio sul tema dell’iconoclastia in spettacoli come Santa Sophia. Teatro Khmer (1985). Sulla scena di Sul significato del volto del figlio di Dio campeggia all’inizio una gigantesca riproduzione del Cristo di Antonello da Messina: nel corso dello spettacolo quel volto sublime viene lacerato e strappato. Il gesto – la distruzione dell’effigie del Dio – è stato considerato blasfemo da alcuni gruppi cattolici e lo spettacolo pesantemente contestato sia a Parigi sia a Milano (curiosamente nella Roma del Papa non era successo nulla).

 

Idomeneo

 

Un caso analogo aveva riguardato qualche anno prima la messinscena di un classico apparentemente innocuo come Idomeneo di Mozart. Nel 2006 il sovrintendente del teatro della Deutsche Oper di Berlino, Kirsten Harms, aveva deciso di cancellare – in seguito a una segnalazione della polizia – le repliche dell’opera nell’allestimento di Hans Neuenfels (previste per il settembre di quell’anno, dopo che lo spettacolo era andato regolarmente in scena tre anni prima). Il problema era sorto a causa della possibile irritazione della comunità musulmana per una scena dove comparivano le teste mozzate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e di Nettuno (l’unico effettivamente menzionato nel libretto). La decisione censoria era stata decisamente condannata dalla stampa internazionale (sulla vicenda vedi la voce di Wikipedia).

 

C’è stata in quell’occasione una profonda differenza tra le reazioni dell’ambiente teatrale (a cominciare dai critici), per il quale andavano garantite la libertà d’espressione (quasi all’unanimità) e l’autonomia dell’estetico, rispetto a chi si faceva carico di preoccupazioni più esplicitamente politiche. Per i teatranti e gli intellettuali in genere, che da sempre combattono la censura, la scena (e in genere l’arte) sono e devono essere zone franche in cui può accadere (quasi) di tutto, a prescindere dalla sensibilità di alcune fasce di spettatori.

 

La riflessione sull’iconoclastia affiora nell’opera di Chaim Potok, rabbino e romanziere che ha riflettuto a fondo sul rapporto tra l’individuo e la tradizione, tra l’aspirazione alla libertà e alla realizzazione individuale da un lato, e la fedeltà alle radici e all’identità collettiva dall’altro. Il ciclo dedicato ad Asher Lev (Il mio nome è Asher Lev, 1972, Il dono di Asher Lev, 1990) ha per protagonista un giovane pittore ebreo, cresciuto in una comunità ortodossa che dunque rifiuta le immagini, che nel Novecento decide di superare il divieto di dipingere la figura umana. Anche l’Islam, come l’ebraismo, tende all’iconoclastia. Per evitare il culto delle immagini, in genere non vengono raffigurati né esseri umani né figure animali. Per aggirare l’ostacolo, gli artisti islamici hanno inventato meravigliosi calligrammi, che compongono esseri viventi intrecciando le parole.

 

Da “Calligraphie arabe vivante”

 

“Alcuni calligrafi escono dalle forme tradizionali creando lettere simili a disegni. Altri nelle loro ricerche si spingono fino a creare composizioni che hanno forme figurative. L’islam scoraggia la raffigurazione di esseri viventi, anche se il Corano non la proibisce esplicitamente. Questo non impedisce la creazione di miniature dipinte o di calligrafie figurative. Il calligrafo scrive un testo religioso, o un elenco di nomi dei santi e, attraverso l’intreccio delle lettere, raffigura un volto, un corpo, un animale. Il calligrafo ha disegnato con le lettere. Il pittore, dal canto suo, ha amato la scrittura che ha così intimamente intessuto nella alla miniatura; del resto il calligrafo e il pittore sono spesso la stessa persona.”

(Hassan Massoudy, Calligraphie arabe vivante, Flammarion, Paris 1981, p. 118)

 

Charlie Hebdo

 

La strage nella redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi è un feroce rigurgito di iconoclastia, che segna l’ennesima tappa dell’eterna guerra contro le immagini, l’ultima battaglia di una faida iniziata intorno alle vignette “blasfeme” sul profeta pubblicate in Danimarca (e anch’esse duramente condannate da alcune autorità religiose musulmane, sulla scia della fatwa del 1991 contro Salman Rushdie per il romanzo I versetti satanici). Con grande consapevolezza e determinazione, i vignettisti francesi di “Charlie Hebdo” avevano deciso di rilanciare la sfida contro questo divieto. In nome della libertà di parola e della laicità, avevano messo in pratica il loro illuminismo radicale, rilanciando la militanza volterriana contro le superstizioni e l’oscurantismo.

 

Le vignette sul profeta sono state considerate blasfeme da diversi osservatori. Lo stesso papa Francesco ha mostrato di comprendere le motivazioni dell’attentato: “Non si può reagire … violentemente, ma se uno dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno”, ha dichiarato a caldo, il 15 gennaio 2015. Da un lato, la libertà d’espressione, uno dei capisaldi delle democrazie occidentali (almeno in apparenza: anche in Europa ci sono molte cose che non si devono e non si possono dire). Dall’altro, considerazioni di opportunità e di rispetto dell’altro che suggeriscono di porre un limite a quelle che vengono ritenute provocazioni.

 

Il problema è ovviamente quale deve essere il confine tra libertà e opportunità, e chi deve stabilirlo (e magari far rispettare l’interdetto). Chi deve decidere quali immagini devono essere permesse, e quali devono essere vietate? Molti jihadisti sanno qual deve essere il confine. Sono rigidi iconoclasti. Considerano le immagini irritanti, inutili. Una pericolosa distrazione rispetto alla parola del profeta. Tanto che distruggono a colpi di cannone o con martelli più o meno pneumatici inestimabili reliquie del passato come i Buddha di Bamian in Afghanistan o i reperti sumeri e assiri conservati nei musei di Mosul e Nimrud in Iraq e in Siria. Qualcuno insinua che il primo obiettivo di questi rottamatori fosse la razzia di reperti archeologici da immettere sul mercato nero, ma il gesto simbolico mantiene una inequivocabile potenza.

 

Distruzione dei siti archeologici in Siria

 

Uno dei video più disgustosi circolati nei primi mesi del 2015 mostra l’esecuzione di un folto gruppo di lavoratori copti, colpevoli solo di essere cristiani, su una spiaggia libica affacciata sul Mediterraneo. La sequenza dei prigionieri condotti a capo chino, in fila indiana, dai loro carcerieri è identica alle immagini scolpite nei bassorilievi all’epoca dei primi imperi della storia, a glorificazione delle vittorie del sovrano e della sua potenza.

 

 

Dall'alto: Prigionieri copti dell’Is; Prigionieri degli assiri; Prigionieri nubiani

 

Le stesse immagini figurano nelle opere che in quelle stesse settimane i “guerrieri demolitori” fracassavano con zelo e nei video prodotti dalla loro organizzazione. Al bassorilievo sulla dura pietra si sono sostituiti i file digitali .mov, ma l’immagine è identica. Al Qaeda e soprattutto l’Is, malgrado un’iconoclastia professata e praticata con impegno, sono anche (e forse soprattutto) produttori di immagini. I filmati più visti e rivisti negli ultimi anni li hanno prodotti loro. Spesso sono stati in gradi di produrre immagini di notevole efficacia simbolica. Con effetti a volte contraddittori, paradossali.

 

 

Effetti collaterali

 

Un primo aspetto, emerso con notevole forza con la diffusione delle rete e delle tecnologie digitali, è la capacità di riutilizzare le immagini, ricontestualizzandole e dando loro un diverso significato. Il détournement, inventato e utilizzato dalle avanguardie, è diventato pratica di massa. Per certi aspetti, lo stesso meccanismo lo stanno usando gli uffici marketing dell’Is, per costruire una contro-iconografia in grado di opporsi a quella occidentale: speculare, e per certi aspetti destinata a essere intrappolata nella stessa logica. Un secondo aspetto, presente da sempre ma evidenziato di recente da chi studia i mass media. Chi produce immagini o filmati trasmette una serie di valori e significati, consapevolmente o inconsapevolmente. Ma lo spettatore è libero di attribuire loro un significato diverso, al di là delle intenzioni dell’emittente. Sia a livello di interpretazione, sia nell’uso.

 

Camorristi napoletani "look Isis"

 

Di recente, sono stati arrestati in Campania diversi camorristi che per intimidire i nemici hanno provato a scimmiottare il “look Isis”.

 

Il kalashnikov del killer dei Casal-Isis

 

Non basta la cultura per evitare di confondere immaginari (a sproposito). Un teatro romano, per lanciare la programmazione, ha utilizzato l’ironico slogan “Una stagione da perdersi la testa!”, accompagnata da un remake della coppia boia mascherato-prigioniero in tuta arancione; pochi giorni dopo, a causa delle proteste, la pubblicità è stata modificata e l’immagine rimossa. L’ironia è un’arma a doppio taglio…

 

Una stagione da perderci la testa!, campagna 2015/2016 del Teatro dell'Orologio

 

Una moderna incarnazione del Vecchio della Montagna è il colonnello Kurtz, il protagonista di Apocalypse Now! di Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Il folle colonnello Kurtz, asserragliato nel suo territorio, circondato da fedeli guerrieri, è al centro di un regno di terrore.

 

 “L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore, l’orrore e il terrore morale ci sono amici, in caso contrario allora diventano nemici da temere, sono i veri nemici”.

 

 

L’Is è una società dominata dall’orrore e dal terrore sociale, che usa il terrore e l’orrore sociale come strumento di comunicazione e di propaganda sia all’interno sia all’esterno. Esistono altri possibili modelli di società, che usano altri strumenti, altre modalità di comunicazione. I diversi immaginari si confrontano e si combattono, attraverso rispecchiamenti, détournements, perversioni. Non è facile smontare questi meccanismi, e combatterli con efficacia. È una lotta che è iniziata ben prima del fatidico 11 settembre 2011, come aveva visto chiaramente Don De Lillo già negli anni Novanta. Spiegava il suo Bill Gray in Mao II (1992):

“C’è un curioso nodo che lega romanzieri e terroristi. In Occidente noi diventiamo effigi mentre i nostri libri perdono il potere di formare e di influenzare. Chiedi mai ai tuoi scrittori cosa ne pensano di questo? Anni fa credevo che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. Ormai fanno delle vere e proprie incursioni nella coscienza umana. Era quanto solevano fare gli scrittori prima di essere sacrificati”.

 

La parola contro le immagini. La narrazione contro l’icona. Hanno ancora spazio gli “uomini del libro”? Quale può essere il compito degli “uomini della parola”? In apparenza viviamo in un regime di assoluta libertà di parola e d’espressione. Ogni giorno vengono caricate in rete quantità inimmaginabili (fino a poco tempo fa) di testi, immagini, musiche, video… Al tempo stesso si moltiplicano esempi di controllo e di censura, espliciti e impliciti. Ogni giorno l’elenco dei divieti si allunga, con proibizioni apparentemente assurde, spesso in nome del politicamente corretto: vietato mettere Peppa Pig nei libri per bambini, vietato farsi un selfie nudi in cima al vulcano, vietati i libri gender nelle biblioteche del Veneto, vietato mettere le foto dei capolavori della storia dell’arte su wikipedia…

 

Uno degli episodi più inquietanti di questa incessante guerriglie parte dalle università americane. Alla Columbia University a New York, i classici – dalle tragedie greche a Francis Scott Fitzgerald – vengono guardati con crescente sospetto. Le Metamorfosi di Ovidio è “un testo che, al pari di molti libri del 'canone' occidentale, contiene materiale offensivo e violento che marginalizza le identità degli studenti nella classe”.

 

Leonaert Bramer, Il sacrificio di Ifigenia, 1623

 

Racconta Serena Danna:

“La mitologia greco-romana diventa oggetto di ‘trigger warning’. Il termine, nato per descrivere le immagini in grado di far riemergere i traumi dei veterani del Vietnam, è diventato popolare nei forum femministi degli anni Novanta per indicare la presenza di contenuti che potessero offendere o turbare le vittime di violenze sessuali. (…) ‘Materiale potenzialmente offensivo’ è stato riscontrato in decine di opere letterarie, responsabili di raccontare – senza alcun filtro preventivo nei confronti dell'uditorio – l'orrore del passato: colonialismo, tortura, pedofilia, schiavitù.”

(Serena Danna, “Corriere della Sera”, 23 maggio 2015)

 

Anche la Bibbia è peraltro ricchissima di episodi politicamente scorretti, infarcita di violenze e di stupri in grado di suscitare trigger warning.

 

La giornalista cita anche lo sbalordito commento di “The New Republic”:

“È tempo per i nostri studenti di imparare che la vita è offensiva. Una volta che lasceranno il college, saranno costantemente esposti a immagini ed episodi che li offenderanno e aggrediranno”.

 

Da un lato, nei telegiornali e su internet, una proliferante pornografia di immagini insostenibili, con vittime private di identità e carnefici senza volto e senza responsabilità. La realtà diventa un teatro di forze indecifrabili, incomprensibili, oscure, e dunque inarrestabili, incontrollabili. Dall'altro, nelle aule di scuole e università, l'impossibile tentativo di cancellare dalla nostra società la dimensione tragica, evitando ai nostri figli qualunque turbamento, creando un'arcadia post-moderna attraverso un sistematico meccanismo di rimozione. In questo scenario, quale può essere il compito delle donne e degli uomini di cultura? Forse provare a raccontare.

 

Le storie ci aiutano a convivere con il terrore dell’esistere, senza rimuoverlo.

Le storie ci aiutano a mettere alla prova la nostra etica, senza definirla.

Le storie ci aiutano a definire la nostra identità, senza chiuderci all’Altro.

Le storie ci aiutano a trovare un senso alle immagini che ci vengono incontro, e a quelle che ci lanciano addosso, senza esaurirne il senso.

 

 

 

Intervento presentato per la prima volta al Residenziale della Scuola di Psicoterapia Etno-Sistemico-Narrativa; Barcis, 3 luglio 2015.

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