Nolan e il “genere" / Dunkirk, il tempo e la menzogna

23 Settembre 2017

Dunkerque, nord della Francia. L’Inghilterra è a una quarantina di chilometri, al di là del canale della Manica. È il 1940, la Seconda Guerra Mondiale è iniziata da circa un anno e la Germania sembra inarrestabile. 400.000 soldati inglesi e francesi sono rimasti intrappolati in questo minuscolo lembo di terra, accerchiati dall’esercito del Terzo Reich, pronto a fare con loro il tiro al bersaglio. In un modo o nell’altro, devono essere portati oltre la Manica perché rimanga qualche futura speranza di vittoria.

In questo contesto storico, Dunkirk inizia senza preamboli: uno sparuto gruppo di soldati si aggira smarrito per le strade di una cittadina deserta, splendidamente fotografata dal DOP Hoyte van Hoytema (Her, Interstellar, Spectre) nella tanto chiacchierata pellicola IMAX 65mm. Non si sa chi siano e come siano arrivati qui. Non ci sono dialoghi, il silenzio è violato solo dalla colonna sonora che propone l’incessante ticchettio di un orologio.

 

Prima che irrompano gli spari, viene naturale – come dice giustamente Roberto Manassero – richiamare le parole di Cobb in Inception: «Non ti ricordi mai veramente l'inizio di un sogno, giusto? Ti ritrovi sempre nel bel mezzo di quello che sta succedendo». È ciò che avviene in Dunkirk, che – nonostante sia l’unico dei dieci lungometraggi di Christopher Nolan a non mostrare sogni, ricordi o flashback dei suoi personaggi – dà la nettissima sensazione di catapultarci all’inizio di un incubo, senza sapere come e perché. 

 

In questo war movie atipico, Nolan è insolitamente avaro di premesse. Un rimprovero che i suoi detrattori spesso gli rivolgono è di tendere a “spiegare” troppo le sue mind-game stories, quasi avesse bisogno di inserire nei dialoghi dei suoi script un vademecum che permetta di orientarsi nel labirinto narrativo di strutture così complesse. Succede – e più volte – che in puzzle come Inception o Interstellar i personaggi espongano “le regole del gioco”, siano esse suggestivi ingranaggi onirici o complessi teoremi di fisica quantistica. Dunkirk, al contrario, è estremamente parsimonioso di punti di riferimento. Solo all’inizio del film veniamo messi a conoscenza, mediante sovrimpressioni, che tre storie si intrecceranno e avranno durate diverse: “il molo” – durata: una settimana – vede protagonista Tommy (Fionn Whitehead), un soldato fra i tanti che cercano la fuga; “il mare” – un giorno – racconta di mr. Dawson (Mark Rylance), marinaio civile che con il figlio Peter e il suo amico George si precipita al di là della Manica con il suo yacht, insieme ad altre migliaia di piccole imbarcazioni, per tentare il recupero dei soldati; “il cielo” – un’ora – vede il pilota della RAF Farrier (Tom Hardy) impegnato in un duello con la Luftwaffe. I tre ingranaggi si mettono in moto insieme e iniziano a girare, con il montaggio à la Griffith che ce li fa percepire come simultanei, anche se in realtà viaggiano su assi temporali differenti. 

Da qui, a noi il compito di risistemare i pezzi.

 

Le regole dell’astrazione

 

C’è un rapporto molto particolare tra Nolan e il “genere”. Anche senza scomodare paragoni con Kubrick o altri nomi inviolabili – cosa che invece ha fatto recentemente e con ottime argomentazioni David Bordwell – può essere rintracciato un modus operandi ricorrente nell’uso che il regista di Memento fa dei luoghi comuni dei generi cinematografici. Nolan si serve del genere per raccontare in forma simbolica e metaforica questioni emotive spesso traumatiche e complessi processi psichici. Il massimo della grandeur hollywoodiana, insomma, per il massimo dell’intimità, per andare nel profondo delle emozioni e dei moti più reconditi, in un intreccio – unico nel cinema contemporaneo – tra cerebralità e visceralità. Ad esempio, si dovrebbe guardare Inception più correttamente come un mélo che racconta, in forma iperbolica, la difficoltà straziante dell’elaborazione del lutto, o Interstellar come un racconto grandioso sull’abbandono e sul perdono, in cui Nolan “usa” la fantascienza per arrivare a mettere, l’una di fronte all’altro, un’anziana donna sul letto di morte e il “fantasma” giovane di suo padre, giocando con il tempo e la sua relatività solo affinché il genitore possa, davanti alla figlia invecchiata, avere l’aspetto di quando, anni prima, il trauma si era consumato.

 

 

Allo stesso modo, Nolan approda al war movie in modo strumentale, cioè per dire “altro”, perché in fondo nel cuore dell’assurdità della guerra c’è, in forma più radicale, lo scontro che è al centro della sua visione del cinema e del mondo: la lotta dell’uomo contro il tempo.

Per arrivare a questo, Dunkirk viene sottoposto a un processo di astrazione estremo. 

Nessun personaggio possiede infatti una caratterizzazione degna di nota: i soldati vengono ridotti a puro istinto di sopravvivenza, non hanno un passato o una storia e spesso nemmeno un nome. Il nemico è perennemente fuori campo, quasi mai nominato, assente. Non c’è il sangue di Salvate il soldato Ryan, cui pure qualche critico blasonato l’ha recentemente accostato con qualche eccesso di foga ideologica, e non ci sono eroi o battaglie. I soldati vogliono solo tornare a casa e reagiscono in modi diversi sotto il peso della tensione cui sono sottoposti. La retorica è asciugata dalla stessa scelta di raccontare una sconfitta, dall’assenza di lunghi discorsi che abbiano il minimo respiro epico (a eccezione di quello celeberrimo, retorico ma bellissimo, di Churchill) e limitata all’uso della parola home, strumentale a inquadrare il paradosso di una salvezza visibile e a portata di mano eppure irraggiungibile.

Attraverso questa spersonalizzazione dei caratteri, il film rinuncia anche all’idea di collettività: tra le maglie della storia non c’è spazio per il singolo e per l’umanità, tanto meno per la solidarietà tra i soldati, al cui posto rimane solo un individuale e generico desiderio di salvezza. 

 

Il risultato di questo processo di scarnificazione, che spesso arriva a fare a meno dei dialoghi (Tommy, il soldato che compare dalla prima sequenza, praticamente non parla in tutto il film), è visibile anche dalla durata: 99 minuti, il film più corto della carriera di Nolan, tolto l’esordio di Following. Un’insolita economia narrativa, grazie alla quale i discorsi ricorrenti del suo cinema risuonano con una forza più intensa.

 

Ristrutturare il tempo

 

Abbiamo detto come il tempo sia uno dei temi che ricorrono in modo ossessivo nel cinema di Nolan. Qual è però l’angolazione da cui il regista inglese affronta questo tema? Che cosa del tempo costituisce, nella sua visione del mondo, un elemento così opprimente?

Bisogna fare a monte una distinzione tra due “qualità” di tempo. Il filosofo Henri Bergson distingueva tra il tempo “della meccanica”, in cui gli istanti sono tutti uguali, «come in una collana di perle», e il tempo interiore, quello dell’esperienza e della “durata”, che si allunga e si accorcia come un elastico in base alla percezione soggettiva. Il primo è misurabile, il secondo no. Nei film di Nolan tra queste due dimensioni temporali si apre tragicamente una faglia: ad esempio, mentre il tempo meccanico scorre implacabile su Leonard, protagonista di Memento, il suo “tempo interiore” è avvitato sull’istante traumatico della morte della moglie. Il dramma è il conflitto tra queste due “entità”, una frattura che viene “riempita”, almeno parzialmente, dal cinema, che è un dispositivo di affabulazione in grado di manipolare il tempo, anche quello meccanico, torcerlo e sigillare la crepa. 

 

In altre parole, per rendere tollerabile la sproporzione tra soggettivo e oggettivo, Nolan (si) costruisce l’illusione di poter controllare il tempo attraverso il racconto. Ora, se pensiamo che, in fin dei conti, anche un semplice orologio ci dà la sensazione illusoria di esercitare un dominio, è interessante notare che Dunkirk – che racconta una pura, semplice, continua lotta contro il tempo – funziona meccanicamente come un orologio. Le tre storie, infatti, ognuna con una durata differente, procedono insieme proprio come tre lancette, in aggiunta accompagnate da un ticchettio costante e incessante. Mentre il nemico manca, c’è sempre lo spettro di questa forza inarrestabile che assedia, stritola e incombe, che che tiene in scacco i soldati, noi, gli uomini, il mondo intero. La spiaggia di Dunkerque, spazio simbolico, aperto, luminoso e inquietante (che richiama il campo deserto di Intrigo Internazionale e Hitchcock continua a sembrarmi il Maestro con cui Nolan ha più cose in comune), diventa il luogo in cui il tempo (della storia) insidia e asfissia, perché indeterminato e inquantificabile, “fuori campo” come il nemico; il tempo (del racconto) invece viene riorganizzato molto più razionalmente di quanto possa sembrare, attraverso questa struttura che rimanda alla dimensione simbolica di un orologio.

 

Lo spazio e la menzogna

 

Un soldato intrappolato in un aereo precipitato che cerca di non affogare; altri sottocoperta in una nave da cui tentano di uscire prima che sia troppo tardi; altri ancora incastrati dentro un peschereccio recuperato sul bagnasciuga, mentre la maggior parte di loro su una spiaggia non possono che aspettare, con le onde che li ricacciano indietro e ne restituiscono i cadaveri. 

Ovunque, in Dunkirk, qualcuno è in trappola, mentre dal cielo piovono le bombe degli Stukas e il mare è solcato dai missili degli U-Boats. Eppure la salvezza, al di là del mare, visibile ma irraggiungibile, dista solo 34 km. Questo spazio ridotto può essere percorso solo al contrario rispetto ai classici war movie: l’operazione Dynamo di Dunkerque, in effetti, è il rovescio dell’operazione Overlord in Normandia, non sono i soldati che sbarcano per salvare i civili, ma i civili che si muovono per andare a riprendersi i soldati. Acqua, aria, terra (e il fuoco delle armi), dipinti da una fotografia plumbea e inquietante, delineano l’incubo di Dunkerque, un inferno in cui c’è quel “troppo” di reale con cui poi è necessario fare i conti. Così, nel finale del film, si affaccia in modo straordinario l’altro grande tema su cui sembra insistere Nolan dall’inizio della sua filmografia. Se per “sostenere” il tempo, l’unico modo è simbolizzarlo in strutture che diano l’illusione di poterlo controllare, l’unica via per accettare le ferite che lasciano gli incubi del reale è, perciò, mentire. 

 

Il cinema di Nolan è fatto di persone che mentono, o meglio, che ri-narrano i fatti per render(ce)li accettabili. In Dunkirk mente il giovane Peter al soldato interpretato da Cillian Murphy, quando gli nasconde la morte del ragazzino George, che lui stesso ha provocato per uno stupido incidente; mente Churchill, quando la sua retorica trasforma una disfatta in una mezza vittoria; mente ancora Peter, quando racconta al giornale locale la storia di George e trasforma la misera tragedia di un adolescente morto per una caduta in barca (per di più causata da uno dei soldati rimpatriati) in quella di un eroe di guerra. Sono, più che menzogne, ri-narrazioni, una modalità che il cinema di Nolan usa per assumere un punto di vista assai pessimista sulla società degli uomini: affinché regga – e affinché il reale sia in qualche modo sostenibile – alcuni fatti vanno celati, nascosti e ri-raccontati, solo così possono essere accettati e il meccanismo preservato. Da Leonard, che in Memento mente a se stesso per continuare a “stare” un passo prima dell’elaborazione del lutto, a Cooper, che in Interstellar non dice a sua figlia che sa di non fare ritorno a casa, passando per Batman e Gordon, che nascondono a Gotham la caduta intollerabile di Harvey Dent, «a volte la verità non basta. A volte la gente merita di più», dice il Cavaliere oscuro. Così la chiusura del film non può che essere l’uscita dall’incubo in cui siamo caduti all’inizio: sul molo quasi deserto, da cui ormai la maggior parte degli inglesi sono riusciti a fuggire, Nolan mostra letteralmente un soldato, uno solo, che si sveglia, probabilmente per cacciare indietro i fantasmi del tempo e del reale.

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