Il nuovo romanzo della scrittrice Han Kang / La Vegetariana

13 Ottobre 2016

Han Kang, l’autrice di questo romanzo, fino a pochi mesi fa non era conosciuta, per lo meno in Occidente (nel suo paese, in Corea, è da anni una scrittrice di successo), e la vicenda che narra si svolge nella lontana Seul, un luogo non familiare alla nostra memoria letteraria. Perciò stupisce non poco fin dalle prime pagine la sensazione di trovarsi in un mondo perfettamente riconoscibile dove esitazioni e paure, fantasmi e allucinazioni, angosce e visioni oniriche sembrano uscire in modo naturale dalla trama complessa, contraddittoria anche se spesso banale delle nostre esistenze. La forza di questo libro sta infatti tutta nel modo in cui distilla il pathos creandolo quasi dal nulla e facendolo progredire attraverso una storia del tutto ordinaria, iscritta nella quotidianità dei rapporti, tra persone altrettanto ordinarie, medie, anzi, nel caso dei protagonisti maschili, irritantemente mediocri.

A maggio di quest’anno Han Kang vince il Booker prize e il mondo editoriale comincia a interessarsi di lei. Ad agosto una recensione apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung definisce il suo libro “un capolavoro”. 

 

Ph Daido Moriyama.

 

In molti si sono chiesti quale sia il segreto di questa autrice. Certamente non il fascino esotico della lontananza, di cui qui non c’è traccia. A tenere avvinto il lettore fin dalle prime pagine è semmai la visione di una sofferenza pervasiva e inarrestabile che fa della protagonista la vittima non di un tragico destino ma della banalità del male con cui tutti ci misuriamo. Perché La vegetariana ha la capacità che hanno solo i grandi romanzi di metterci al cospetto di noi stessi senza farci entrare in una wunderkammer di effetti speciali o di avventure dell’estremo ma introducendoci quasi di soppiatto in una serie di eventi di ordinaria disperazione che creano ingorghi emotivi di rara potenza e trascinano chi legge in una partecipazione che cresce di pagina in pagina.

Ci accorgiamo subito che la storia ci riguarda, l’impotenza della protagonista è la nostra impotenza, il suo congedo dal mondo, il nostro congedo, la sua resa la nostra resa.

Cosa accade?

 

Nella vita della giovane moglie di un anonimo impiegato di una grande azienda, improvvisamente il meccanismo matrimoniale prevedibile e ormai sufficientemente collaudato s’inceppa: una notte il marito trova la moglie in cucina immobile davanti al frigorifero, tutto intorno decine di sacchetti da freezer ripieni di carne, una provvista preziosa, diligentemente accumulata, in procinto di finire nel sacco dell’immondizia. All’uomo sconcertato che le chiede ragione di quello scempio, Yeong-Hye sa solo dire che ha fatto un sogno. Poi la vita riprende il suo ritmo, il marito si precipita al lavoro ma da subito appare chiaro che di lì in avanti nulla sarà come prima. Il sogno che ha cambiato la vita di Yeong-Hye si rivela un incubo atroce e prolungato che dilagherà nel suo immaginario e non le darà più scampo: “una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne... non c’è fine alla carne, e nessuna via d’uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle.”

 

 

La carne sanguinante degli animali uccisi è l’immagine in cui si concentra tutta la violenza del mondo. A cominciare da quella maschile del padre di lei, autoritario, veterano della guerra in Vietnam, che quand’era bambina nei frequenti eccessi di rabbia picchiava lei e sua sorella. Alla violenza del padre è seguita l’indifferenza anaffettiva del marito. Come ci ricorda Luigi Zoja: “Nell’uomo il padre e il maschio (animale) sono due polarità recenti, in equilibrio precario l’una sopra l’altra”.

 

I silenzi e gli sguardi persi di Yeong-Hye fanno capire che diventare vegetariana è per questa giovane donna l’unica difesa possibile dalla violenza maschile, che nel nostro mondo evoluto non è solo dei maschi ma degli umani tout court. Una decisione quindi che non è frutto di un convincimento etico a lungo ponderato né di una ragione salutista o estetica. Il rifiuto di mangiare carne dà alla protagonista l’illusione di potersi sottrarre all’aggressione costante e pervasiva del mondo intorno a lei, che l’ha ridotta a un mezzo anziché considerarla un fine, per usare la celebre distinzione di Kant. Agli occhi del marito infatti è apparsa per molti anni una partner servizievole e obbediente, priva totalmente, almeno all’apparenza, di soggettività. Per la sua famiglia di origine è sempre stata la tessera docile di un mosaico governato col pugno di ferro dal patriarca. Per tutti una figurina esile, né brutta né bella, che passava inosservata, che non sollecitava confronti, che non creava problemi. Insomma Yeong-Hye è stata semplicemente un oggetto, non un soggetto di bisogni, di sentimenti, di diritti. 

 

Ph Daido Moriyama. 

 

A questa spogliazione d’identità lei non ha mai saputo opporre resistenza, le parole le sono state impedite da una rassegnata timidezza, che ha reso impossibile qualsiasi confronto. Yeong-Hye era a suo agio nelle letture solitarie nella sua camera dopo aver assolto ai suoi obblighi matrimoniali, compreso naturalmente quello sessuale. Quando annuncerà al marito la sua avversione alla carne, lui sulle prime non capisce, pensa che le abbia dato di volta il cervello: ma come, proprio lei che era un cuoca provetta, il cui “piatto forte consisteva in fettine di manzo sottilissime insaporite con pepe nero e olio di sesamo, poi passate in una panatura abbondante di farina di riso colloso, come i dolci di riso o le frittelle, e immerse nel brodo bollente dello shabu shabu. Preparava un bibimbap con germogli di soia, manzo macinato e riso messo precedentemente in ammollo e poi saltato in padella nell’olio di sesamo. Faceva anche una densa zuppa di pollo e anatra con patate tagliate a pezzi grossi, e un brodo speziato stracolmo di vongole e cozze tenerissime, di cui ero capace di divorare con piacere fino a tre piatti di seguito”. 

La sua scelta è un atto ostile, un gesto di ribellione all’ordine familiare, alle consuetudini sociali. Al marito che le chiede perché non fa più l’amore con lui risponde: “perché puzzi di carne”.

L’intera famiglia è incredula, il padre, il patriarca, davanti al clan riunito, si sente in dovere di dare alla figlia una sanzione pubblica, la costringe con la forza a inghiottire un boccone di carne, quasi a ripristinare un ordine compromesso dalla sua hybris. Yeong-Hye avrà allora una reazione estrema, il suo tentativo di suicidio dinanzi ai famigliari la porterà in ospedale e da lì in avanti il terrore della carne diventerà il rifiuto del cibo tout court. 

 

Ci proverà il cognato videoartista semifallito a offrirle una finta salvezza: quella di posare nuda per lui mentre il suo corpo si colorerà di motivi floreali. Ma anziché regredire, la metamorfosi giungerà alla svolta finale: il corpo dipinto inizierà a identificarsi con ciò che il cognato artista aveva rappresentato e l’immagine, il simulacro, l’icona si farà sostanza. Yeong-Hye inizierà a sentirsi e a comportarsi come un vegetale.

Ma le piante, si sa, non si alimentano come gli uomini, vivono di sintesi clorofilliane, è assurdo quindi continuare a mangiare, la sola cosa sensata è esporre il corpo nudo alla luce del sole.

La violenza inappariscente del quotidiano, quella che si annida negli affetti domestici, nelle famiglie all’apparenza coese, nello scorrere uguale delle giornate, ha un potere metamorfico, ci trasforma, ci sottrae umanità, ci spoglia della nostra individualità. Allora, se non ce la sentiamo più di tirare avanti, non c’è che la corsa disperata e insieme ilare nella follia. Han Kang ha saputo disegnare i contorni di questo viaggio iniziatico alla rovescia: il trauma della carne sanguinante è l’epitome della morte che si trascina insieme alla vita e che in ogni istante ci ricorda che cadere nel precipizio può essere paradossalmente la nostra sola salvezza.

 

Han Kang, La vegetariana, Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2016, p. 177, Euro 18.

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