Identità e libertà / Yehoshua, La figlia unica

5 Febbraio 2022

C’è una via di uscita nei romanzi di Abraham B. Yehoshua? Qualcosa che lo scrittore indichi come soluzione di quel rebus che talora sembra la vita? In parte, perché Yehoshua tratteggia la strada scrivendo del rebus, prende la vita e la distende sul lettino, o la adagia sul tavolo, la dipana, talvolta sembra addirittura mettere delle puntine per fissarne gli snodi essenziali e lui si mette lì, la osserva con la sua lente di ingrandimento, talvolta col microscopio, e man mano prende appunti sulle sue osservazioni, mette in fila i fatti, letteralmente li fa filare. E questo filare di fatti, conversazioni, incontri, personaggi, vite diviene il suo romanzo, dove non vi è mai un protagonista assoluto, ma come nella vita tutti concorrono alla storia, una storia corale. Così accade anche nel suo quattordicesimo romanzo, da poco uscito da Einaudi, La figlia unica, in cui trama, luoghi e personaggi ci sorprendono ancora.

 

Il precedente libro, Il tunnel [qui la recensione], ha come personaggio principale Zvi Luria ingegnere stradale in pensione, in una Tel Aviv caotica per un anziano con un inizio di demenza senile; si apre con una risonanza magnetica che per Luria è l’inizio di una lotta con la sua mente e le sue forze, una lotta che si indentifica soprattutto nel segno dell’affetto che tutti gli altri personaggi gli portano. Con La figlia unica Yehoshua ci racconta la storia di una ragazzina, Rachele, e del suo mondo in Italia. Non più la sua prediletta Tel Aviv, sfondo e personaggio di quasi tutti i suoi libri, non più coppie di persone adulte o anziane, e nemmeno una comunità ebraica estesa e identificabile. Insieme alla sua protagonista ragazzina nelle prime pagine appare, come Yehoshua fa di consuetudine, il motivo per cui ci sarà una “lotta”, il contrasto che mette in moto la scena, una questione di identità e conoscenza.

 

 

Rachele è, invero, una ragazzina che segue i precetti ebraici, si trova nella sua realtà del nord Italia e si interseca con nonni cattolici o atei, nonni ebrei ma non osservanti, compagne di classe che come lei studiano anche l’ebraico ma, al contrario di lei, possono frequentare gli ambienti cattolici. E Yehoshua ce la presenta così, bella, dell’alta borghesia, molto ricca, senza nessun apparente problema fino a quando qualcosa si incrina: è lei che sbircia al di fuori del confine identitario che le è stato cucito addosso e decide di vedere cosa ci sia oltre. Questo mettere fuori il naso dalla sua gabbia dorata fa sì che la sua curiosità di ragazzina intelligente si accenda, che l’altro, prima senza identità ma con un banco preciso nell’aula o nella scuola o nella vita, inizi a esistere ai suoi occhi.  

 

Entriamo così nella vita di una famiglia piuttosto variegata, negli anfratti di persone diverse che si sono trovate unite in vincolo. Per la prima volta non è l’amor coniugale a venir messo sotto la lente d’ingrandimento dall’autore – nelle due coppie presenti viene alquanto lasciato in sospeso – questo per lasciare spazio all’indagine dell’amor filiale, principalmente quello di Rachele con suo padre. Molti sono i personaggi che portano per mano Rachele nel passaggio tra l’identità imposta e quella in evoluzione: da una vecchia professoressa in pensione all’autista di famiglia, passando per i domestici etiopi di una nonna e una preside coscienziosa. Tutti, a partire dai genitori, daranno risposte alle domande di Rachele, istigando altre domande ancora; e il libro Cuore – lettura scolastica che compare già nella prima pagine del romanzo per condurre la sua lettrice, prima riluttante poi arrendevole, verso la propria autodeterminazione – diviene compagnia e strumento di riflessione. La forza delle personagge di Yehoshua si fa sempre più evidente di libro in libro e Rachele, come le altre donne in questo romanzo e in particolar modo le due nonne, pur nella sua giovane età, è di una forza decisa e al contempo tenera, espressione di una ebraicità femminile netta. 

 

Se la malattia apre Il tunnel con il referto della risonanza magnetica al cervello di Zvi Luria facendo divenire la malattia protagonista di ogni dialogo, in La figlia unica il padre di Rachele ha bisogno di cure invadenti proprio alla testa, così la malattia anche qui muove ogni azione e spazio in scena. Muove anche gli occhi di Rachele, oltre il suo confine, per guardare agli altri. E i suoi occhi e i suoi ragionamenti sono vivaci e rapidi, per questo motivo il romanzo si sposta per rapidità di scene, trasferimenti veloci, automezzi rapidi, sorprendendo il lettore abituato e affezionato alla peculiare pacata lentezza che contraddistingue la narrativa di Yehoshua, abitata dalle sue acutezze e osservazioni geniali, da spazi ampi, da descrizioni meravigliosamente minuziose, da ragionamenti vasti.

 

È il romanzo di Yehoshua che più di tutti mette in crisi il concetto di identità e di libertà, quello che mescola e spariglia maggiormente le carte, che confonde, che rende il lettore apprensivo verso le sorti di una ragazzina viziata e indifferente che si affaccia alla vita per capire che essere figlia unica, nipote unica, contesa e amata da tutti, non vuol dire esser l’unica, che il dolore abbraccia e colpisce ogni persona. E tra cani di razza, Diana bracco tedesco, che partoriscono un cucciolo che sembra di un’altra specie e pappagalli che approfittano di una distrazione per lasciare la gabbia e la casa, ci si domanda se il dipanare il rebus che fa Yehoshua in questo romanzo non ci stia mostrando la soluzione di questo pezzo di mistero.

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