Speciale
Expo. Code e Mercato Metropolitano
Gli amici che si incontrano la sera in città, reduci da una giornata all’Expo, sono colpiti soprattutto dal fenomeno delle code. Se qualcuno si lamenta, la maggior parte dei visitatori affronta code di 2, 3, 4 ore, senza battere ciglio. E così, in fila sotto il sole o con il primo fresco d’autunno, la maggior parte delle persone preferisce spendere una giornata a Expo e dire di aver visto i padiglioni di Brasile, Giappone e Inghilterra, ma anche l’Arabia Saudita e naturalmente l’Italia o il Padiglione Zero, piuttosto che farsi un’impressione generale a spasso per il sito. In coda si familiarizza, si scambiano informazioni su Expo, si arriva rapidamente alla conclusione che tutto il mondo è paese. Il problema è che in Italia abbiamo sempre detestato le code, cercato di fare i furbi, le code hanno esaltato il nostro individualismo. E ora: come possiamo spiegarlo? Certo, c’è l’effetto grande festa, Giochi senza frontiere, Gardaland, Disneyland e tutte le land che si possono aggiungere: sentirci parte della folla, mettere in cervello in ammollo, ma c’è qualcosa di più. Formare una massa è qualcosa di connaturato nell’uomo, come l’istinto di sopravvivenza, ci insegna Canetti, e una massa è sempre manipolabile come gli apprendisti stregoni del XX secolo hanno dimostrato ad abudantiam. Queste code paiono dei giganteschi Om, dei momenti yoga nella nevrosi della vita quotidiana. Che ci sia qualcuno pronto ad approfittarne è più che probabile.
Pensavo a queste cose mentre mi dirigevo al Mercato Metropolitano, il più grande successo di Expo in città. Ogni sera migliaia di persone raggiungono questo spazio incerto, sede un tempo della Fiera di Senigallia, oggi reso ‘fighetto’, con una serie di ristoranti sotto una grande tettoia di legno, sul modello dei mercati coperti europei, specializzati in carne, pesce, ostriche, paste, gelati ecc. All’aperto invece ci sono i produttori regionali che, a turno, hanno potuto in questi mesi esibire i loro prodotti. Mi ha invitato Vito Teti a presentare la nuova edizione della sua Storia del peperoncino (Donzelli) insieme a Davide Paolini. Non siamo in molti, ma come succede in questi casi, ci divertiamo a parlare di peperoncino, Calabria, questione meridionale, eccellenze e disastri della regione più disgraziata d’Italia. Poi, a cena, siamo invitati dal ristorante calabrese e scopriamo che, per accordi presi con l’organizzazione di Expo, non possono vendere acqua (!), che l’allestimento del ristorante è stato imposto e soprattutto che per una settimana di permanenza nel sito hanno dovuto sborsare 180.000 euro. Chi ha versato questi soldi sono una serie di piccoli produttori di biologico, forse avranno avuto un aiuto dalla Regione, ma la cifra resta sproporzionata rispetto a quanto viene offerto. Queste piccole aziende sono più che un’eccellenza, un’eccezione, nel tessuto produttivo calabrese. Tornare a casa ‘cornuti e mazziati’ è l’ennesima crepa nel divario tra Nord e Sud, un atto di prepotenza di chi è più forte verso chi è più debole.
Ci si avvia verso l’ultimo mese di Expo. Chi ancora non c’è stato si affretta ad andarci, chi aveva deciso di non andarci trova delle ottime ragioni per restare a casa visto l’eccessivo afflusso di queste ultime settimane. Si vedono molti stranieri in giro per la città: gruppi di bengali che vogliono raggiungere corso Como, il mugugno dei taxisti si è acquietato, non si trova un buco negli alberghi e anche chi fitta case ha prenotazioni fino alla fine di ottobre. Forse avrebbe dovuto essere sempre così, con un generale buon umore che si diffonde per la città. Popolo di cicale? Come cantava il Quartetto Cetra: sole, pizza e amore.