Firenze / Paesi e città

12 Gennaio 2012

La cecità, l’unica risorsa che mi concedo in città. L’anelito cittadino dovrebbe essere sempre quello di ritrovarsi gli occhi. Di capire chi te li ha rubati: Firenze stessa, per gelosia. O chi la visita giornalmente, in uno stupro di ciglia. O chi l’amministra, per prototipi venduti al chilo d’occhio autoctono. I vostri bulbi ingrassati dall’aria corposa della valle fiorentina sono stati forse strizzati da un qualche Ermete locale sul seno di una studentessa americana, nella cripta di una chiesa segreta, come Santo Stefano al Ponte, o la mimetica e devastata San Pier Scheraggio. Un rito già previsto dalle pagine degli editori locali, appagati dal segnaposto, dal fitto dato storico, dalla scoperta della reliquia. Firenze non solo città d’occhi rubati, ma del segnaposto. In ogni angolo: bandierine, memoriali, ordinanze, cifre, rebus, bestemmie. Non occulta, città totalmente forata, bucata, sbandierata.

 

 

Cieco è così l’unico modo con cui si può fare un nuovo slalom per la città, con la voglia di descriverla coi sensi, non con la vista. Scendete con la macchina da Settignano, dalla Via Bolognese, dalle colline di Giogoli sopra Scandicci, o dal Bellosguardo, dalle curve delle Gore che quasi si attorcigliano sull’imponente Certosa. Lasciate gli occhi sul cruscotto, giunti alle brutte soglie di Piazza Ferrucci o Piazza Pier Vettori, dopo esservi rintanati nel docile Viale dei Colli. La città non si deve vedere, anche perché l’hanno vista in troppi, troppo bene: toccatela, odoratela, lappatela, ascoltatela, piuttosto. Sfregate il dito indice sul bugnato militare del Palazzo Strozzi, sulle spallette umidicce del Lungarno Santa Rosa, rotolate giù per l’erta Piazza Pitti, cogliete qualche ciocca d’erba, qualche muffa, che si protende come una supplica tra le muraglie inviolabili dei giardini reclusi in Via Romana. Se avete il coraggio, mettete una mano tra le grate di una fogna – le peggiori, le più cariche, sono sicuramente quelle del San Frediano. Con la lingua, leccate il tepore meccanico che proviene da dentro le vetrine di via Cerretani, assaporando il residuo acido dei profumi sintetici che centinaia di acquirenti taccopuntate hanno umoreggiato su quei vetri violacei. Continuate a tentoni, per sniffate, per assaggi, per morsi, sempre più ciechi, per via dei Neri o via Pietrapiana, e la varietà di odori di bar e forni non vi deluderà. Ogni tanto, emerge quello di manzo bruciato nel sangue, o di pelli conciate, che vi assale, sboccando per caso da via Panicale nel mercato di giacche di San Lorenzo, ancora in testa l’accento smistato degli africani e quello lussato dei cinesi. Dalle loro lavanderie e centri di bellezza provengono aromi di lacca e ammorbidente.

 

Potete anche slanciare in aria il naso, di notte, dopo esser inciampati una giornata intera nelle buche del cemento rattoppato, del selciato sdentato, dei marciapiedi depressi sotto l’asfalto. Coi piedi scalzi e gonfi, rullati tra orde di liceali o sbeffeggiati dai venditori iraniani di borse. Siete presi alla gola da una brioche calda di un pastificio aperto all’alba in Santa Croce, venite però sviati a sinistra dall’ammoniacale piscio, o a destra, dallo speziato kebab, sbattendo quindi su di una folla impermeabile come in un ufficio di reclutamento, davanti ai locali di Via de’ Benci o nella Piazzetta di Sant’Ambrogio, con il loro notorio olezzo di ristagnato. Ed ancora... ma fin troppe strade, fin troppe bandierine. Firenze è adesso per voi solo un buio radicale, e senza vento, puro ricettacolo, khôra platonica. I suoi ponti, nell’iterazione verso i monti, o verso la foce pisana dell’Arno, sono una mise en abîme coadiuvata dalla plasticità di certe vallate ignote, che sembrano sognate. So che vi siete fermati a guardare il Ponte Vecchio, e avete sbadigliato di stupore! Perché qualcuno v’ha insegnato così, come buona educazione: guardavate solo un ponte di micragnosi artigiani, un tempo di macellai. Agognate invece il buio fiorentino!

 

 

Se avete la sorte di sopravvivere agli urti, e d’imbroccare una delle poche improvvise stradine fiorentine in salita - che non sia la ripida Costa San Giorgio, ché vi tradirebbe - sarete a sgambare sul Viale Poggi. Fino all’apoteosi: il panorama del Piazzale Michelangelo. Con quel dorso corazzato di palazzi, idrofobo, voi osservatori ciechi troppo appressati ad un plastico affresco così densamente innaturale da essere lancinante. Vi guarda però, a vostra insaputa, un lazzaretto di finestrelle irregolari e nere, quelle che trattengono la tenebra originaria, in quella corazza cittadina. Per questo Firenze è specialmente dolce d’inverno, nelle giornate di sole, di cielo terso: quando il fulgore si contrappone all’oscuro. Gli odori si schiariscono, i muri s’asciugano, gli scoli s’intimidiscono, le guance s’imporporano, si è vivi.

 

Strapparsi quindi sempre gli occhi al suo cospetto, se si può. O generarsi, nella cecità imposta, nuove topografie, come quando ci si stropiccia le palpebre, e frattali viola e verdarancio stanno lì, nell’oscurità potenziale, nel ricettacolo, ad accavallarsi l’uno sull’altro, robot in trasformazione.

 

 

Foto di Francesco Natali.

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