Francesco M. Cataluccio. La memoria degli Uffizi

17 Settembre 2013

Tutto nasce da un rito laico nel libro del fiorentino Francesco M. Cataluccio, La memoria degli Uffizi (Sellerio, pp. 184, euro 14, eBook 9.99). Un’educazione sentimentale che diviene passo dopo passo l’educazione al bello: ogni domenica insieme al fratello, l’autore si reca a vedere una sala sempre diversa della Galleria degli Uffizi, guidato dal padre e ispirato dalla struggente passione per l’arte della madre.

 

Cosa vede lo scrittore-bambino nella wunderkammer a due passi da casa?
Moltissimi dettagli. Lettere di un alfabeto dello sguardo, “aneddoti narrati dalle immagini” suggerisce l’autore, citando Ernst H. Gombrich, che lasciano sospesa la nostra incredulità: l’ombelico del crocifisso (Croce 432) di un Anonimo pittore fiorentino, “una sorta di leggera spirale che ruota in senso antiorario”, che gli ricorda l’omphalos – la pietra simile a “un uovo o a un fallo” – visto nel Santuario di Delfi molti anni dopo, il fascino emanato dai colori: la regalità dell’oro, la nobiltà trascendente del blu o l’intensità del rosso, il colore dell’amore. E la prima donna senza veli tutta per sé: la Venere di Sandro Botticelli. Enorme, bellissima che si dirige verso l’autore volando su una conchiglia, la versione al femminile della sensualità di Cristo che cammina leggero sulle acque. Un archetipo vivo – come tutte le splendide Madonne descritte con spontanea ammirazione – che si insinua nello sguardo e nei pensieri dell’autore spinto a cercare la propria Simonetta Cattaneo Vespucci, la modella del quadro morta a ventitré anni, rimpianta da poeti e pittori e celebrata da Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano.

 

 

 

E poi c’è il Cataluccio adolescente-adulto, che convive armoniosamente con le proprie memorie infantili e racconta una serie di episodi sorprendenti: l’entusiasmo di Bill Viola dopo una visita agli Uffizi, lo stupore del regista Andrej Tarkovskij rapito dalla maestosità delle “stanze metafisiche” dove risiedevano le tre Maestà di Cimabue, Duccio da Boninsegna e Giotto e l’ingresso nel “Terzo Corridoio”, il luogo delle scoperte, che coincide con l’ingresso nel mondo adulto: i segreti del Tondo Doni di Michelangelo, rivelati dalla lettura di Freud e la psicologia dell’arte di Ernst Gombrich, la passione per “il malinconico Pontormo” e per le opere del Sodoma. Accanto a questi istanti di felicità intellettuale e umana, vi sono le sue altrettanto sorprendenti letture – diramazioni nervose di una traccia bibliografica innestata nel corpo del testo – che gli consentono di descrivere le stanze degli Uffizi con l’abilità di un critico d’arte.

 

Gli Uffizi, divengono così un’architettura linguistica dove la memoria si trasmuta in narrazione e il ricordo si imprime sulla pagina. Cataluccio scrive come se stesse passando la punta di una matita lungo le figure dei quadri, nel medesimo modo di un bambino che inizia a scrivere: dapprima ogni lettera ha una forma bizzarra e poi giunge lentamente a prendere contorni regolari.
La pulsione descrittiva velata di nostalgia, induce il lettore a lasciarsi cullare fra le stanze di questo museo-palinsesto, in equilibrio tra vita, narrazione, candore dello sguardo, allo stesso modo dell’autore del libro, un “piccolo testamento” colmo di dettagli intimi e salvifici. 

 

Poiché la bellezza salva dalla morte, come suggerisce la vicenda di una ragazza con cui Francesco Cataluccio conclude il suo viaggio: “Vanessa Capodieci, 16 anni, che restò ferita nell’attentato di Brindisi in cui morì la sua compagna di scuola Melissa Basso, ha subìto cinque trapianti di pelle. È uscita ieri dal Centro Ustioni dell’ospedale Cisanello di Pisa e ha chiesto al padre di visitare gli Uffizi”. Da qui inizia la vera lettura, da qui tutto può rinascere, da qui ogni lettore può scrivere la storia del suo sguardo.

 

Questo pezzo è apparso precedentemente su Alfabeta2
 

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