Gian Piero Brunetta: Venezia, la Mostra del cinema e noi
Il volume che Gian Piero Brunetta ha dedicato alla storia del Festival del cinema di Venezia si può definire monumentale senza tema di smentite. Non solo per le dimensioni oggettive del volume, ma pure per la qualità della ricerca: una quantità di informazioni e interpretazioni tale da far pensare a quei cicli scultorei che nell’antichità facevano da corredo alle colonne celebrative e agli archi di trionfo.
Se l’ironia non fosse fuori luogo, si potrebbe dire che La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. 1932-2022 (questo il titolo del libro, co-edito dalla Biennale e Marsilio) è uno di quei buoni frutti di cui la clausura pandemica ha consentito la maturazione. Per darne contezza basterebbero i numeri: siamo dinanzi a più di mille pagine divise in sei grandi insiemi a loro volta suddivisi in ottantanove capitoli più un prologo la cui somma dà novanta, come gli anni della Mostra lidense.
Praticando un fitto intreccio tra cronaca, memorie personali e documenti d’archivio, Brunetta disegna un progetto ad ampio respiro organizzato secondo un ordinamento cronologico. Un modo per facilitare la lettura dei (tanti) fatti evocati e ricostruiti. Talvolta registro e stile cambiano a seconda del singolo argomento messo in luce, sul modello ideale dei “teleri dei grandi cicli della pittura veneta rinascimentale”, con “la loro indipendenza nell’illustrare un singolo evento e la loro continuità narrativa e stilistica”.
Scrive Brunetta: “Chiunque metta mano a questo soggetto è cosciente, dall’inizio, di smarrire lungo la via molti personaggi, dati e film importanti”. Eppure, a giudicare dagli apparati e dagli indici, posti a corredo di quest’opera magna, il rischio pare ampiamente scongiurato. Già ordinario di Storia e critica del cinema presso l’Università di Padova, lo studioso è noto al pubblico italiano e internazionale per aver portato a termine con successo molte sfide legate alla ricerca storico-cinematografica, che a distanza di decenni riteniamo seminali. Giusto per ricordarne un paio, la pionieristica Storia del cinema italiano in quattro volumi, pubblicata presso Editori Riuniti a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta (una seconda edizione, aumentata di un quinto volume, è tutt’ora disponibile per Laterza); e la monumentale Storia del cinema mondiale, sette tomi usciti per Einaudi fra il 1999 e il 2006, di cui è stato ideatore e “regista”, oltreché contributore.
Nato per caso a Cesena, dove la sua famiglia era stata sfollata durante l’ultimo conflitto mondiale, Brunetta cresce nel dopoguerra in una casa che sorge proprio al Lido di Venezia. Ammesso che si possa parlare del Festival in termini di gironi (e talvolta sembra lecito!), il lettore del tomo ha al proprio fianco un Virgilio d’eccezione, dal punto di vista privilegiato. Uno sguardo da “vicino di casa” si potrebbe dire – e al tempo stesso, ovviamente, da grande esperto della disciplina.
Venendo alla storia nonagenaria del Festival del cinema, siamo portati a dare per scontato che l’evento rifletta e subisca la storia politica nazionale, nonché le evoluzioni del costume. Anche per questo è caratterizzato da fughe nel futuro, da immobilismo e pure da regressioni: la Mostra è uno strano luogo in cui i film talvolta rischiano di passare in secondo piano.
Tutto inizia nel 1932, anno decimo dell’era fascista. Sono 25mila gli spettatori che affollano le proiezioni all’aperto fra il 6 e il 21 agosto: è la prima edizione di quella che allora venne definita “Esposizione internazionale d’arte cinematografica alla 18ma Biennale”, tanto per evidenziare e saldare due concetti chiave: cinema e arte. Brunetta osserva che l’impegno di quel che definisce “la madre di tutti i festival” si concentra “nell’affermare una volta per tutte la natura artistica del cinema, il nuovo medium nato come un fenomeno da baraccone e affermatosi in poco tempo come il più grande e popolare spettacolo di massa, conferendogli la dignità delle altre Arti delle quali la Biennale si era sino a quel momento occupata”.
Sullo schermo, allestito negli spazi della mirabile terrazza dell’Hotel Excelsior, il pubblico vede scorrere le ombre luminose (e poliglotte!) di Greta Garbo, Clark Gable, Boris Karloff, James Cagney, Loretta Young, Joan Crawford e Vittorio De Sica, tra gli altri. L’idea era già gravida di futuro, il “format” pronto per essere migliorato, aumentato, ripensato in grande. Ma c’è un secondo fine della kermesse, meno evidente, che lo rende parte di un più vasto progetto rigenerativo pensato per radicare un evento “turistico” di respiro internazionale nelle sabbie del Lido. Infatti, la prospettiva del Festival s’inscrive in un’idea ben precisa, quella della “Grande Venezia”: “capace di superare, già all’indomani della Prima guerra mondiale, l’immagine mortifera creatale dalla letteratura a cavallo del XIX e del XX secolo” (pensiamo soltanto a La morte a Venezia, celeberrima novella pubblicata da Thomas Mann nel 1912, al culmine della Belle Époque).
La “Grande Venezia”, dunque, prevede due parentesi entro le quali abbracciare il centro storico e assieme a esso tutti gli amatissimi stereotipi veneziani: da un lato l’isola del Lido, sorta di Giano bifronte disteso a separare le acque dell’Adriatico da quelle della Laguna; dall’altro un progetto ambizioso, che nel 2017 ha compiuto un secolo, ossia il sistema produttivo, all’epoca avanguardistico, che prende il nome di Porto Marghera. L’isola del Lido, “nel pieno sviluppo turistico e urbanistico, [è] vista […] come realtà complementare a Marghera per il decollo verso la modernità” di Venezia, immaginata in un’accezione pienamente novecentesca. Il Lido e Marghera vogliono cioè apparire come due facce – entrambe industriali, anche se in modo diverso – di una stessa medaglia.
Col senno del poi conosciamo le conseguenze drammatiche – sia per la salute della popolazione che per l’integrità ambientale – derivate dallo sviluppo del petrolchimico; tuttavia, la prospettiva della grandeur lagunare fa ormai parte della Storia, e come tale in questa fase va considerata. Il moto esecutivo atto a rivitalizzare Venezia è riconducibile alla figura del conte Giuseppe Volpi di Misurata (1887-1947). Un nome che spicca tra altri collaboratori fondamentali, Antonio Maraini e Luciano De Feo. Volpi, mentore della “Venezia del futuro”, è, tra luci e ombre, “un personaggio multiforme, a cui si può adattare bene la definizione di 'politropo' attribuita a Ulisse: un uomo dall’ingegno duttile e prensile, capace di aprirsi in varie direzioni e portare a termine progetti ad alto grado di complessità e difficoltà”. Il suo fine è rivalorizzare il litorale di Venezia, connotandolo agli occhi del mondo intero in una prospettiva attrattiva e diradando una volta per tutte l’aria pestilenziale e decadente che gli era stata attribuita, segnandone il declino. Ed è da questo progetto in fieri che la Mostra muove i primi passi.
L’edizione del 1932 si presenta come una creatura gracile, tenuta a battesimo dal regime fascista senza troppa convinzione. Una convinzione che oggi, considerati gli esiti, daremmo certo per scontata; ma è pur vero che all’epoca non c’era nulla di simile al mondo – né Cannes, né altri – con cui confrontare questa innovativa “esposizione”. Non passa troppo tempo, però, perché le pressioni del regime comincino a farsi sentire, malgrado le resistenze di Volpi, Maraini e De Feo, che tengono il punto riguardo alle scelte organizzative e ai palinsesti.
Dopo l’interruzione forzata imposta dalla guerra, il Festival riprende la propria corsa senza sentire ancora la competizione dei futuri rivali internazionali; i quali, nel frattempo, si moltiplicano a livello planetario basandosi sul modello lidense. Ma ecco che l’avversario, come spesso accade, giunge alle spalle, se non dall’interno della Mostra, e si affaccia sulla scorta delle contestazioni sessantottine i cui effetti di decrescita – come si direbbe oggi – si riverberano lungo il decennio successivo.
Superata anche quest’altra guerra, per quanto figurata, nel 1979 la Mostra è affidata alla direzione di Carlo Lizzani ed Enzo Ungari, i quali riportano il Festival a dialogare con il mondo. Un nuovo rilancio della manifestazione avviene nel 1998 con la trasformazione della Biennale da ente parastatale a Fondazione, ordinamento che ridà respiro all’evento e ci porta, tra alti e bassi, sino all’attualità.
Lo sguardo rigoroso dello storico si sofferma a individuare il legame tra l’evento e le diverse spinte imposte da fatti nazionali e internazionali dei quali il cinema è sismografo sensibile, talvolta involontario seppure attendibile. Per questo motivo Brunetta intende “far sentire, in ogni momento, come la campana della Storia suoni anche per lo spettatore del Lido”. Inoltre, dà attento conto delle giurie, dei premi, delle suddivisioni dei programmi nelle varie sezioni, nonché della partecipazione di divi e attori, di registi. Non mancano nemmeno i protagonisti della politica (uno per tutti: Winston Churchill), espressione di una sorta di “divismo collaterale”.
Un ruolo particolare hanno le digressioni rivolte ai singoli direttori, alle relative strategie organizzative e comunicative messe a confronto con “la realtà dei fatti”, talvolta non corrispondenti. Sono uomini-chiave ritratti da Brunetta in una accezione spesso simbolica, evocativa di un’idea di Festival, innovativa o conservatrice; così come di un punto di vista sul cinema più o meno aperto a istanze eterogenee, siano esse d’essai o di mercato, oppure responsabili di chiusure altrettanto drastiche e incomprensibili, se viste col senno del poi. Si tratta di personalità legate a una particolare collocazione politica, oppure testimoni (vittime?) dell’epoca della contestazione trascinati da flussi e pose forzate, nonché dall’attualità drammatica figlia del terrorismo.
Come è ovvio che sia, la Mostra deve la sua eterogeneità alla oggettiva longevità e al fatto che sia stata via via guidata da intellettuali e studiosi espressione di una precisa epoca (o più epoche, se pensiamo a Luigi Chiarini, l’uomo che visse due volte: fondatore del Centro Sperimentale di Cinematografia in pieno fascismo e dal 1963 direttore di sei edizioni del Festival), da conoscitori della macchina-cinema (ad esempio i registi Carlo Lizzani e Gillo Pontecorvo), da chi proviene dalla critica cinematografica o da un ambito culturale e divulgativo legato alla storia del cinema (tra altri, ultimi in ordine di tempo, Marco Müller e Alberto Barbera).
Accanto a ciò, Brunetta pone al centro dei capitoli i film presentati alla Mostra, considerandoli nella prospettiva più ampia possibile, nella “loro importanza anche oltre gli orizzonti della manifestazione”, dando conto dei “percorsi veneziani dei loro autori nel corso del tempo”: di fatto, una storia delle pellicole inscritta nella storia della Mostra. In parallelo alla cronaca dei titoli si affianca quella degli autori. Alcuni di essi hanno goduto di un riconoscimento immediato, poiché “il successo al Festival è diventato un certificato sicuro per il mercato internazionale”.
In questo senso la Mostra diviene anche un’arena – non solo per l’omonimo luogo presso il quale si proiettano i film – dove critica e pubblico possono esercitare il loro potere sentenziando di volta in volta pollice recto o pollice verso. Passione contagiosa per l’eterogeneo – e più o meno preparato – pubblico lidense, che si fa tessuto connettivo nei luoghi e nei tempi del Festival: una comunità effimera quanto importante, che emerge sin dalle prime edizioni. Così come affiora la faziosità che si esprime a vari livelli, nutrita di pregiudizi di tipo politico o culturale e che fa da filtro alla visione tanto dei critici quanto del pubblico: un’altra storia nella storia, nota e sempiterna.
Sul ruolo della critica cinematografica e i suoi rapporti con la Mostra, Brunetta offre la parola ad autori di ogni epoca per sottolinearne l’intelligenza, la qualità del giudizio e della scrittura; al tempo stesso, tuttavia, ne rileva anche “l’ottusità dello sguardo, dovuta a pregiudizi ideologici, o a limiti culturali” che nel tempo mietono vittime, per così dire, anche tra venerati maestri come Hitchcock e Fellini.
Il campo di battaglia esemplare rimane il cinema hollywoodiano, il quale “ha goduto dall’inizio di un doppio atteggiamento: di ammirazione e devozione, per i suoi fenomeni divistici e per alcuni suoi autori, e di presa di distanza causata dal prevalere delle ragioni industriali su quelle artistiche”. Una posizione ostile figlia di un antiamericanismo sorto negli anni Trenta e mantenuto durante il manicheismo proprio della Guerra fredda, ma che ancora riemerge qua e là, come un pregiudizio a serramanico, nonostante la correzione dei flussi politici. A partire dalla grave crisi cinematografica degli anni Ottanta, d’altronde, si presta sempre più attenzione alle produzioni indipendenti, tanto che spesso la vetrina veneziana è offerta a talenti sconosciuti e diviene anticamera per molti trionfi agli Oscar, creando una connessione ideale tra le due manifestazioni che continua tutt’ora.
Sempre a proposito di stereotipie e flussi lidensi, ma stavolta in senso positivo, la critica e il pubblico amano senza riserve la cinematografia francese, almeno fino alla fine del secolo scorso; così come la manifestazione si specializza a dare voce alle cinematografie emergenti, provenienti dai quattro angoli del mondo. In particolare, dal Duemila si assiste alla grande fortuna e diffusione del cinema asiatico, corsia divenuta preferenziale nelle selezioni veneziane.
Riguardo al cinema italiano, Brunetta rileva che la Mostra è stata testimone delle sue numerose fasi di sviluppo e di crisi, ma rappresenta l’evidenza di un rapporto conflittuale o, talvolta, indifferente. Nemmeno rispetto al neorealismo – fenomeno di portata internazionale – vi è stata grande attenzione, così come non sempre gli autori italiani hanno goduto dei riconoscimenti che meritavano: basti pensare a Visconti, a Rossellini e al già ricordato Fellini. Secondo Brunetta, in non poche occasioni Cannes ha contribuito più di Venezia alla consacrazione definitiva di alcuni autori italiani; anche se, aggiunge, “sarebbe ingiusto però non riconoscere che vari capitoli, momenti e protagonisti della storia del cinema italiano sono stati scoperti grazie al debutto nelle sale veneziane”.
Spicca infine, debitamente sottolineato dall’autore, l’aspetto rituale (già implicito alla fruizione cinematografica), che nel tempo promuove il Palazzo del Cinema e gli ambienti contermini a sorta di santuario laico, ossia “a meta di inedite forme di pellegrinaggio. Uno spazio circoscritto, di poche migliaia di metri quadri, di colpo rivestito di un’aura sacrale, che gli attribuisce nuovi poteri e richiama presto folle di fedeli e catecumeni sempre più grandi e variegate in senso sociale e culturale”.
Oltre a testimoniare una sentita dichiarazione d’amore per la Mostra e per il cinema, l’ambiziosa opera di Brunetta si pone l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di un fronte di ricerche che già conosce grande attenzione presso gli studi di settore, ovvero i “film festival studies”, dimostrando ancora una volta di adottare uno sguardo lungo, il più lungo che esista: quello del pioniere.