Hendrix, Zero
Il rock and roll degli anni ’50 (Bill Haley, Elvis Presley) e il beat degli anni ’60 (i Beatles, i Rolling Stones) erano ancora folklore, materiale per giornalisti e sociologi. Il rock (questo il nuovo termine) comincia a pensare una sua storia e a produrla solo nei primi anni ‘70, dopo Woodstock e l’Isola di Wight; ed è subito storia sacra. A scriverla non è quasi mai uno storiografo accademicamente inteso: sono gli apostoli di questa musica, i suoi evangelisti. “In principio era il Ritmo… e il Ritmo si fece Carne, e venne ad abitare presso di noi…”.
I divi del rock (nel rock non ci sono altro che divi) sono incarnazioni della Musica originaria, Corpi sacrificati, trasfigurati e infine assunti nell’empireo delle Vibrazioni e delle Sensazioni. Per entrarci, non basta morire soffocati da un panino davanti alla TV, come la povera Mama Cass dei Mamas & Papas: è indispensabile consumarsi velocemente in droghe ed eccessi vari, fino a essere travolti dall’overdose del proprio desiderio senza limiti. La triade canonica è quella che sappiamo: San Jim Morrison, Santa Janis Joplin, San Jimi Hendrix (appunto). Débauche e trasgressione sono d’obbligo.
Per questo, probabilmente, l’editore italiano della biografia di Hendrix (1942-1970) ha rifiutato il titolo originale, Starting at Zero (Partire da zero), che rischiava forse di suonare troppo patetico e borghese, e ha preferito Zero. Anche col nuovo titolo, comunque, la favola resta sostanzialmente quella del ragazzo di provincia che comincia dal nulla del suo sogno per approdare finalmente al successo: ecco l’infanzia nei quartieri popolari di Seattle, l’espulsione dalla scuola, l’esperienza nell’esercito (paracadutisti), la durissima gavetta nei locali e on the road, l’approdo a Londra (grazie all’interessamento di Chas Chandler, bassista dei disciolti Animals).
C’è però in questo libro una novità, rispetto alle solite agiografie rock: a raccontare le vicende del cenerentolo elettrico non è un giornalista, o un fan: è Jimi in persona. I due curatori, Alan Douglas e Peter Neal (che molto discretamente non compaiono in copertina) si sono limitati a raccogliere, selezionare e assemblare memorie, interviste, pagine di diario, lettere cartoline e materiali vari, integrandoli ove necessario con brevi, asciuttissime notizie storiche.
Il personaggio che emerge è quello di un dandy ad ogni costo, un eccentrico candido e metodico, con l’idea fissa dell’originalità e della trasgressione. Più che bravo (“il Paganini della chitarra elettrica”), Jimi vuole risultare diverso. Diverso dal pop imperante (Tom Jones, Engelbert Humperdinck, i Beatles, i famigerati Monkees) ma diverso anche da se stesso, quando sente che il suo stile sta diventando un cliché. Quella delle etichette (blues, psichedelia, etc.) è una vera ossessione: più di ogni altra cosa, Hendrix teme di essere inscatolato, impacchettato negli schemi dello show business, e a quegli schemi sfugge (e obbedisce) fino all’autodistruzione.
Le sue riflessioni sono interessanti proprio per la loro disarmata ingenuità. In esse sfilano tutti i luoghi comuni dell’ideologia rock: il mito della spontaneità, dell’improvvisazione assoluta, della fisicità, dell’energia cosmica, della visionarietà, dei poteri mistici della musica, delle correspondances psichedeliche tra suoni e colori, etc.
Gli anni di cui si parla sono quelli in cui esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, dei Beatles (1967), un album di svolta, che mescola in modo disinvolto e sorprendente i generi e gli stili più svariati. Da una logica puramente commerciale, il pop si evolve – grazie anche all’esempio di Bob Dylan – verso l’idea di una musica “alternativa”, imperniata sulla ricerca e sulla creatività più radicale. Hendrix – che raggiunge il successo in Inghilterra, e non in patria – appare come il precursore del filone tipicamente europeo che in seguito si chiamerà progressive rock; la sua musica si contrappone sistematicamente all’estetica del mainstream; dopo i successi di Hey Joe e di The Wind Cries Mary (1967), il suo sound si fa sempre più aspro e ruvido, lontanissimo dalla consumabilità dei prodotti anche meno spudoratamente “commerciali”.
Un altro elemento caratteristico è il primato, nella Jimi Hendrix Experience (che ostinatamente rimane un trio: chitarra, basso, batteria), del ruolo del perfomer, anche a dispetto dell’efficacia e della gradevolezza del prodotto. Niente arrangiamenti da studio, niente archi, niente coretti. L’importante non è produrre un pezzo che “funziona”, ma garantire la freschezza e l’autenticità del fare musica, fino a espedienti da baraccone come quello della chitarra suonata con i denti, o incendiata sul palco.
Confrontati con gli hits a loro contemporanei, i pezzi di Hendrix risultano difficilmente classificabili, ambigui, “sporchi”, spigolosi. Il sound è distorto, greve, duro; la voce è rauca, velata. Jimi stesso non si sente un buon vocalist; ma l’esempio di Dylan che canta “stonato” lo conforta. Dylan (di cui Hendrix ha prodotto una delle più belle cover di All Along The Watchtower) è anche un punto di riferimento per la composizione dei testi, che dal realismo blues di Highway Chile passano alla visionarietà (seppure un po’ di maniera) di Purple Haze o Burning of the Midnight Lamp.
Molto opportuna e elegante la scelta dell’editore di riproporre i testi in inglese, senza tradurli: meglio un testo indecifrabile in lingua originale che non la sua traduzione italiana, spesso altrettanto indecifrabile, ma per lo più terribilmente goffa e legnosa.