Ad ascoltare il fascistone risparmiato dalla giustizia popolare / I fatti di Piazza Carlo Alberto
Sarà stato il 1949 o il 1950, quando la mia mamma fu presa da un accesso di collera contro un certo Ezio Maria Gray, suo nemico personale. A causa di un titolo di giornale che diceva inoltre: “…parlerà stasera in piazza Carlo Alberto”. Infatti, nel già preistorico, allora, 1938, in una dotta conversazione all’EIAR, il fascistone aveva dimostrato la necessità di espellere dalla vita nazionale gli ebrei. Non certo dalla vita in generale perché il Gray, per quanto fascista, era un moderato, e forse di famiglia cattolica: lo avevano chiamato anche Maria. Bastava per lui che ogni ebreo diventasse disoccupato.
La mamma inoltre era una fanatica risorgimentale e non escludo che la scelta della Piazza dedicata al Re titubante innescasse il suo furore incendiario. Chi conosce il luogo può comprendere il sacrilegio: armonicamente unisce palazzi dell’Ottocento, come il retro fastoso di Palazzo Carignano e la settecentesca austera Biblioteca Civica attorno alla statua del Sovrano, il quale, per quanto “amletico”, ebrei e valdesi nel 1848 li aveva emancipati lui, seppure, dicono, dietro una certa insistenza di Massimo D’Azeglio.
La Biblioteca, per la verità, era bombardata e, con la sola facciata sbrecciata, fece da sfondo per molti anni alla Fiera dei Vini, meraviglia che chi mai non c’è stato mai saprà che cos’era il luogo magico dei primi wurstel fumanti della mia vita: dopoguerra, che nostalgia!.
È strano che la mia mamma, abitualmente così prudente, non valutasse i riflessi emozionali della sua indignazione sul mio acerbo me, e non capisse che mi spingeva al rischio di recarmi all’ignobile conventicola.
Così andai. Immaginandomi, sciocchino che ero, un misero crocchio di facinorosi stretto attorno al vecchio citrullo. Era gremita invece, e non da camicie nere, giovinastri o teppaglia. C’era gente normale, torinesi dall’apparenza perbene che ascoltavano attenti il fascistone risparmiato dalla giustizia popolare di pochi anni prima.
Chiunque si sarebbe tenuto un po’ in disparte per vedere, sentire e giudicare, io invece mi inoltrai subito in mezzo alla ciurmaglia che nel mio delirio immaginavo pronta a aggredire il vecchio criminale. Vecchio era, anzi vecchietto, e portava gli occhiali pince-nez, ma forse solo nel mio ricordo di ora.
“Benedetto Croce, che forse fu un grande filosofo, ma di certo un pessimo italiano…” farfugliò sogghignando, subito prima che perdessi i sentimenti. Una frase che oggi passerebbe inosservata, ma che un liceale gramsciano, marxista, crociano, lettore del De Sanctis non era in grado di tollerare negli illusori anni Cinquanta.
“Basta! Basta!” gridò il me fuori controllo “facciamola finita con questo schifoso!”. L’oratore di nulla si avvide e continuò nel suo miserabile vaneggiare, ma alcune centinaia di persone si voltarono, mi si fecero sotto, mi fissarono. Uno di quelli più vicini, basso di statura, sembrava molto seccato e mi espose il suo programma personale: rompermi gli occhiali per farmi entrare le scheggette negli “occhi di merda che così imparavo”. Fu in quel momento che, rientrato in quel di me che restava, mi avvidi del pericolo, anche perché c’erano due altri, meno bassini dell’oculista, che mi stavano prendendo a “pussoni”, a spallate, e altri sopraggiungevano in numero indeterminabile. Mi ero ficcato dentro il quadro di Boccioni del 1910 “Rissa in galleria”: il gorgo di minacce e spintoni mi portava quasi in silenzio un po’ in qua un po’ in là. Quasi in silenzio perché le peggiori avvisaglie me le sussurravano per non disturbare l’oratore e digrignavano i denti.
Il cervello umano è un organo, si sa, piuttosto indaffarato che controlla il se stesso, l’ambiente, le passioni, le memorie ed è solitario nella sua funzione che ha un unico scopo: la sopravvivenza del corpo che lo ospita. Il fisico quantistico Niels Bohr, scienziato dell’incertezza, asseriva, un dieci anni dopo la “Rissa in Galleria”, che quell’organo strabiliante rendeva perfino possibile l’emergere contemporaneo della logica e della mancanza di logica. Fu dunque il mio cervello che pensò di dire, per bocca mia: “Io sono ebreo”.
La teppaglia per un attimo si arrestò, come smarrita, per poi dividersi in due scuole: quella idealista e quella pragmatica. Gli idealisti stimavano che il mio essere israelita costituisse un’ottima occasione per completare subito la loro opera di giustizia, mentre i pragmatisti (agli ordini del mio cervello e non lo sapevano) mi facevano scudo, qualcuno a braccia larghe, sussurrando: “Fermi, fermi, loro hanno ragione di lamentarsi”, “Lasciatelo stare, è un poveraccio”, “Meglio lasciarli perdere, questi qui”.
Tre carabinieri, o quattro, ma a me sembrarono un reggimento, fendevano intanto la calca al comando di un ufficiale: Capitano? Tenente? Maresciallo? Brigadiere? Fregi d’argento, di rassicurante argento, che si avvicinavano a mia difesa e mi circondavano separandomi dalle opposte fazioni che dibattevano il da farsi, create dal mio meraviglioso sistema nervoso centrale. Mi stavano portando fuori piano piano, scostando in modo non violento i più arrabbiati. Una nave che esce dai flutti verso il porto sicuro, il buio marciapiede lontano, all’ingresso della Galleria Subalpina. I peggiori si calmarono, pensando a torto che la Benemerita mi stesse arrestando.
Con le mani guantate. Di guanti di pelle nera? ma allora il Capo era davvero un ufficiale.
Intanto il mio cervello, credendosi al sicuro, stimò essere giunto il momento: “Fascisti!” gridai, “stavate ben nascosti nei cessi il 25 aprile! Vigliacchi!”.
L’ufficiale mi strinse un braccio e mi sussurrò all’orecchio: “Guardi che fuori ancora non siamo…”. E il suo viso di giovane professionista concreto esprimeva allarme, sarcasmo, commiserazione. E solidarietà, se il mio cervello non m’inganna allo scopo di tenermi soddisfatto della mia spenta audacia. Del tempo che fu.
Roma, 5 aprile 2016