Il caso Montesi, 70 anni dopo
Dopo 70 anni, il caso Montesi ancora non ci abbandona. La morte misteriosa della figlia ventunenne di un falegname, il cui corpo senza vita fu trovato sulla spiaggia di Torvaianica, a 38 km da Roma, l’11 aprile 1953, desta ancora grande interesse. E questo non soltanto perché il caso di Wilma Montesi resta irrisolto ma perché diede vita a uno scandalo politico e mediatico senza paragoni. Quando stavo facendo ricerca per il mio libro su questo caso e sul suo contesto socio-culturale (Dolce vita: sesso potere e politica nell’Italia del caso Montesi, Rizzoli 2012), ho parlato con non meno di quattro autori di precedenti libri sull’argomento, compreso Angelo Frignani, che se ne era occupato come giovane reporter per Il Tempo, e Wayland Young, un giornalista britannico che a suo tempo aveva seguito le vicende e aveva poi scritto un libro sullo scandalo Profumo, che fece tremare i vertici del Partito Conservatore qualche anno più tardi. Più recentemente sono comparsi altri due libri, in aggiunta al volume delle lettere scritte da Leone Piccioni a suo fratello Piero dopo che questi fu arrestato in relazione alla morte della ragazza. Ogni autore ha presentato la propria visione del caso e alcuni hanno prestato attenzione anche agli scandali che provocò nei media, alle implicazioni politiche delle indagini, al sottobosco romano corrotto che venne alla luce durante l’inchiesta e al ruolo della vicenda nel dare forma all’immagine della Roma della dolce vita.
Gli avvenimenti alla base del caso sono piuttosto semplici. Il 9 aprile alle 17:30 Wilma Montesi lasciò la propria abitazione, un appartamento in un grande condominio degli anni Venti su via Tagliamento a Roma. Aveva detto alla madre e alla sorella che non aveva voglia di andare con loro al cinema a vedere La carrozza d’oro (un film di Jean Renoir su una compagnia itinerante di comici dell’arte nel Perù del Settecento) perché non le piaceva l’attrice protagonista, Anna Magnani. Propose invece di fare una passeggiata. La volta successiva in cui un membro della sua famiglia l’avrebbe rivista sarebbe stato solo per l’identificazione all’obitorio. Il suo corpo semi-svestito era stato trovato sulla spiaggia la mattina presto dell’11 aprile da un giovane lavoratore e lì era giaciuto per tutto il giorno durante le indagini, prima di essere trasferito a Roma. Come si era trovata lì e come era annegata? Presa dalla disperazione, la famiglia della giovane donna considerò inizialmente la possibilità del suicidio, per poi propendere per l’ipotesi che avesse preso il treno per Ostia per immergere i piedi nell’acqua allo scopo di alleviare un’irritazione della pelle. Lì, fu concluso, doveva essere stata colta da un malore ed essere caduta in mare. Trasportato dalla corrente lungo la costa, il suo corpo sarebbe quindi finito sulla spiaggia di Torvaianica.
Il caso attirò molto rapidamente l’attenzione di una serie di individui che dichiararono di aver visto o incontrato Wilma. Un testimone disse di averla notata sul treno per Ostia; un altro affermò che vi era andata in compagnia di un uomo; e un altro ancora la accusò di essere coinvolta nel traffico di droga. Ciò che tramutò il caso in una questione di interesse nazionale fu la velata insinuazione, pubblicata su un giornale satirico di destra, che il figlio dell’importante politico democristiano Attilio Piccioni avesse qualcosa a che fare con la morte della ragazza. Questa ipotesi prese concretamente piede soltanto quando fu sorprendentemente sostenuta da una giovane donna di nome Anna Maria Moneta Caglio, che aveva lasciato la sua famiglia benestante di Milano per trasferirsi a Roma, dove era diventata l’amante di Ugo Montagna, un uomo d’affari e intermediario immobiliare siciliano con amicizie influenti. Caglio era convinta che Montagna fosse coinvolto in attività illecite e che lui e il suo amico Piero Piccioni fossero responsabili della morte di Wilma Montesi. Le sue accuse ardite e la sua personalità affascinante le procurarono la simpatia del pubblico e dei media, che la ribattezzarono “il cigno nero”. Dopo aver fallito nei suoi tentativi di raggiungere il successo artistico, divenne la star del caso e veniva seguita dovunque andasse dai fotografi, non ancora noti come paparazzi. Il problema era che Caglio non aveva alcuna reale prova da offrire, come divenne chiaro durante il processo a Piccioni e Montagna tenutosi a Venezia nel 1957. La loro assoluzione fece spegnere lo scandalo mediatico ma lasciò il mistero irrisolto.
Non c’è alcun dubbio che il caso fu manipolato per scopi politici. Il dito è stato correttamente puntato, a questo proposito, sulla corrente di Fanfani della Democrazia Cristiana. Attilio Piccioni, che era stato vicepresidente del Consiglio e sarebbe diventato ministro degli Esteri nel gennaio 1954, era un membro della vecchia generazione che sbarrava la strada a più giovani politici ambiziosi, che puntavano a prendere il controllo del partito con l’affievolirsi della stella di Alcide De Gasperi. Il presidente del Consiglio di lunga data aveva fallito nel tentativo di far scattare il meccanismo della cosiddetta “legge truffa” nelle elezioni del 1953, e dette le dimissioni dal governo e dalla segreteria di partito nell’estate del 1954. Le insinuazioni della stampa satirica, a cui seguirono le più esplicite ipotesi di un giornale comunista, che Piccioni figlio fosse concretamente coinvolto posero fine alla carriera di suo padre. Piccioni figlio era un bersaglio facile: musicista jazz con legami nel mondo del cinema, aveva seguito la propria strada e sembrava ad alcuni la pecora nera di una famiglia estremamente rispettabile. La sua amicizia con Montagna, faccendiere avvezzo a farsi amici i figli dei potenti, era sospetta e correvano voci di una sua dipendenza da droghe. Caglio rivelò che Piccioni avesse un pied-à-terre non lontano da via Tagliamento. La sua relazione con l’attrice Alida Valli, moglie separata del suo amico e collega musicista Oscar De Mejo, era fortemente disapprovata da suo padre. Anche se non ci fu alcuna prova che egli avesse mai incontrato Wilma Montesi, i suoi sforzi per discolparsi furono deboli e poco convincenti.
Lo scandalo rivelò una serie di mondi nascosti che erano rimasti fino a quel momento celati alla vista del pubblico. Il traffico di droga in Italia era all’epoca limitato ma di portata sufficiente da generare preoccupazioni a livello internazionale, non da ultimo per il coinvolgimento di due mafiosi italoamericani estradati, Lucky Luciano e Frank Coppola. Montagna fu accusato da Caglio di avere un ruolo nel traffico illecito e molti dei personaggi discutibili che si fecero avanti come testimoni sostennero che Wilma fosse stata un corriere della droga. Un mondo bohémienne di artisti e modelle emerse dopo che una testimone, una giovane donna disturbata di nome Adriana Bisaccia, aveva affermato di aver visto Wilma a un’orgia. L’immagine dell’orgia ebbe un enorme impatto a quell’epoca: l’idea che uomini potenti adescassero giovani donne e le sfruttassero sessualmente eccitò l’immaginazione pubblica e condizionò la percezione dei supposti incontri alla tenuta di caccia di Capocotta, dove Montagna invitava i suoi amici influenti. Da qui si diffuse la convinzione che i potenti fossero profondamente corrotti. La passione del dopoguerra per la cronaca nera fu il prodotto di una società che aveva perso alcuni dei suoi equilibri nella transizione dalla dittatura alla democrazia e dalla guerra alla pace. Il crimine offriva allora avvincenti storie da condividere in un contesto di diffuso cinismo e disaffezione. La colorata galleria di bugiardi e di illusi che si facevano avanti come testimoni raccontando storie più o meno probabili testimonia la misura in cui l’immaginazione veniva scambiata per fatti. La competizione tra quotidiani e riviste per le notizie in esclusiva offriva agli opportunisti la chance di godersi le luci della ribalta. La marea di testimonianze inattendibili fu il risultato del sovrapporsi alla pratica della denuncia, diffusasi durante la dittatura, della ricerca di notorietà e ricchezza, che prosperò negli anni immediatamente successivi.
Le autorità investigative non uscirono dal caso sotto una buona luce. Le loro azioni sembrarono essere guidate fin dall’inizio da pregiudizi e stereotipi. La volontà di chiudere il caso, che apparve sospettosamente affrettata, portò solamente acqua al mulino di coloro che si convinsero che ci fosse uno Stato sommerso, composto in parte da uomini che erano stati al potere fin dall’epoca fascista, che stava lavorando per assicurarsi che nessuno degli accusati fosse mai chiamato a rispondere. Una volta che il procedimento fu messo nelle mani del magistrato Raffaele Sepe sorsero nuove speranze che i fatti potessero infine diventare chiari. Ma nonostante il favore dell’opinione pubblica, Sepe non riuscì a trovare sufficienti prove per ottenere una condanna e sconfiggere una potente rete che si era attivata perché gli accusati di alto livello venissero scagionati.
Il caso fu una tragedia per la famiglia Montesi: una famiglia modesta, piuttosto chiusa, originaria delle Marche, che fu scossa da un avvenimento terribile. A peggiorare la situazione contribuirono le indagini e l’attenzione della stampa, che misero in dubbio la reputazione di Wilma e, di conseguenza, la rispettabilità della famiglia. L’incrollabile attaccamento dei familiari alla storia improbabile del pediluvio a Ostia derivava da un rifiuto a dare credito alla possibilità che un uomo avesse attaccato Wilma e ne avesse causato la morte. La loro insistenza che la data della sua morte fosse registrata per il 9 aprile (il giorno in cui scomparve) piuttosto che l’11 (il giorno in cui il suo corpo fu ritrovato), dimostrò che ribadire la purezza di Wilma fosse per loro più importante che scoprire cosa le fosse realmente successo. Nei suoi sforzi di arginare la storia, la famiglia interruppe le relazioni con il promesso sposo di Wilma, un poliziotto di stanza a Potenza, che era scettico riguardo le diverse versioni degli eventi e voleva condurre indagini in proprio. Ci fu anche una rottura temporanea con Giuseppe, il fratello minore del padre, un donnaiolo a cui era stato impedito di vedere Wilma e sua sorella e il cui alibi inaffidabile lo fece includere tra i sospetti. Appassionati spettatori di cinema, i Montesi cedettero soltanto in un’occasione alla tentazione della celebrità, quando acconsentirono ad essere scritturati per un film sul caso che non fu mai portato a termine. Non condivisero mai con estranei nessuno dei dubbi che potrebbero avere avuto: ancora decenni più tardi, la sorella e il fratello di Wilma si rifiutavano di parlare del caso, come scoprii io stesso quando cercai di entrare in contatto con loro.
Anche se su una scala minore, fu una tragedia anche per la famiglia Piccioni, che serrò i ranghi davanti alle accuse. I fratelli di Piero sapevano senza dubbio delle sue amicizie discutibili, ma il fratello Leone continuò instancabile a sostenerne l’innocenza. Quando Piero fu recluso nel carcere di Regina Coeli, in seguito all’arresto per ordine di Sepe, Leone gli scrisse in modo così assiduo che Piero lo pregò di ridurre la frequenza delle sue lettere. Pubblicate per la prima volta nel 2018 con il titolo Lungara 29: il “caso Montesi” nelle lettere a Piero, le lettere danno l’impressione che Piero avesse il supporto morale non solo dei suoi familiari prossimi ma anche di un ampio gruppo di amici dello stesso orientamento politico e classe sociale: era colpevole, sostenevano, soltanto di essere figlio di Attilio Piccioni e musicista jazz. Le lettere forniscono soltanto pochissimi accenni al fatto che Piero fosse un uomo che coltivava amicizie femminili al di fuori di una cerchia ristretta, come quando Leone gli porta i saluti di una ragazza americana. Curiosamente, Leone condivide con lui un certo divertimento nel tormentare giovani ragazze appartenenti a famiglie di amici, come una – descritta come “piuttosto elettrica e montata” – che alcuni amici maschi invitano a una festa inesistente. Sebbene fosse difficilmente nella condizione di saperlo, Leone scrisse al direttore dell’Europeo per affermare con orgoglio che Piero “non sa cosa siano intossicazioni, stupefacenti, sigarette alla marijuana”. Della sua amicizia con il faccendiere Montagna e il suo appartamento segreto nemmeno una parola. Da Piero, Leone o alcun altro membro del clan Piccioni non venne poi mai alcuna espressione di simpatia per la famiglia Montesi.
Che tipo di ragazza era Wilma Montesi? Per la sua famiglia, era una giovane donna riservata che era soltanto impaziente di sposare Giuliani. Aveva ricevuto un’educazione minima e non aveva lavoro; il suo mondo ruotava interamente intorno alla famiglia, che includeva diversi parenti che vivevano nei dintorni. Era un modello di purezza e discrezione, la cui morte fu il risultato di un incidente anomalo. Questa immagine a tinte rosate fu contraddetta da testimoni che affermarono di aver udito numerosi litigi nell’appartamento e dal fatto che fosse solita uscire da sola verso le 17:30, incluso il giorno in cui scomparve. La sua apparenza era cambiata negli ultimi tempi: aveva comprato vestiti più eleganti e aveva iniziato a fumare. La sua avversione per Anna Magnani suggerisce che fosse attirata da sogni di mondanità. Non era più dell’idea né di sposare Giuliani, un uomo che conosceva a malapena e col quale non aveva mai avuto rapporti sessuali, né di trasferirsi a Potenza. Come molte ragazze dell’epoca, desiderava una maggiore indipendenza ma aveva pochi mezzi per ottenerla. Era cosciente dei pericoli – era stata seguita da un veicolo mentre camminava lungo via Tagliamento – ma questi non erano sufficienti a scoraggiarla. L’ingenua Wilma era stata convinta da persone a lei note o da sconosciuti a prendere parte in qualche attività illecita o aveva semplicemente incontrato un uomo che le piaceva più del suo banale fidanzato?
Nel suo libro La verginità e il potere: il caso Montesi e le nuove indagini (2015) Pasquale Ragone sostiene che le grandi cospirazioni nate dal caso distolsero l’attenzione da alcuni fatti più banali. La chiave del caso, afferma Ragone, sta nei vestiti che Wilma indossava nel momento in cui aveva lasciato casa e in quelli che erano sul suo corpo quando fu ritrovata. Stava ancora indossando una giacca ma la sua gonna era andata perduta, così come il reggicalze – un fatto che diede vita all’epoca a molte speculazioni volgari. Partendo dall’ipotesi che i capi d’abbigliamento usurati presi in esame nel corso delle indagini fossero i suoi, Ragone conclude che Wilma lasciò l’appartamento di famiglia senza essere molto preparata a quella che lei pensava sarebbe stata una breve uscita. Il suo grande merito sta nell’aver riscoperto all’Archivio di Stato di Roma, grazie all’aiuto dei diligenti archivisti, i documenti che furono raccolti durante l’indagine di Sepe – mentre altri autori, incluso me stesso, hanno invece provato a trovarli e hanno fallito. Sulla base delle descrizioni minuziose dei vestiti contenute in questi documenti, Ragone ritiene probabile che Wilma avesse un appuntamento con un uomo sposato di status sociale superiore, col quale aveva da poco fatto amicizia. L’uomo l’aveva portata in auto a Torvaianica, dove aveva accesso a un immobile di qualche tipo e aveva provato a usare la forza per avere un rapporto sessuale con lei. Wilma, che soffriva di un difetto cardiaco non diagnosticato che sarebbe stato individuato dall’autopsia, si allarmò e collassò. A questo punto, l’uomo fu preso dal panico e abbandonò il corpo sul bagnasciuga.
Questa potrebbe essere un’ipotesi tra le tante, ma Ragone ha trovato riscontro nelle carte di Sepe di una lista di nomi di possibili candidati che non furono mai esaminati a fondo perché il focus si era spostato su una cospirazione più grande. È forse questa dunque la vera faccia del caso Montesi – una banale storia che per una serie di fattori determinanti e accidentali fu coinvolta in più ampi intrighi che includevano la politica, il potere e il mondo sommerso di Roma? È possibile, forse anche probabile, ma ciò che manca da questa ricostruzione è ciò che cambiò la vita di Wilma nelle sue ultime settimane. Come aveva incontrato l’uomo che, come è stato ipotizzato, l’aveva attirata nella situazione che la condusse alla morte? Come ho riferito nel mio libro, Wayland Young si era fatto l’idea, basata sulla sua esperienza come reporter straniero a Roma, che Wilma fosse stata coinvolta in un giro di accompagnatrici. C’era a quei tempi a Roma una tipologia di ragazza che offriva compagnia ai tavoli dei caffè ma non favori sessuali. L’“innocenza” – vera o presunta – di queste ragazze aveva un valore economico finché durava. Potrebbe forse essere stato uno degli uomini che l’aveva incontrata a un bar o a un caffè Piero Piccioni? Il libro più recente sul caso, Non mi piacciono i film di Anna Magnani: il caso Wilma Montesi di Mario Pacelli (2019) torna sull’esito del processo di Venezia. È sorprendente, spiega l’autore, che il giudice avesse accolto l’alibi fortemente dubbio di Piccioni e stabilito la sua innocenza non per insufficienza di prove ma piuttosto perché non aveva commesso il crimine del quale era accusato. Nessuno volle mettere in questione un alibi che si basava su un certificato medico falsificato perché i fatti riguardanti gli spostamenti di Piero e la sua malattia erano sostenuti dalla testimonianza di Alida Valli, nonostante questa nel 1957 avesse da tempo concluso la sua relazione con l’accusato.
Lo scandalo Montesi ha mantenuto il suo fascino perché fu il primo grande mistero irrisolto del dopoguerra. Molti dei suoi aspetti rimarranno sempre oscuri, tanto quanto il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’attentato alla stazione di Bologna e lo schianto del volo Itavia 870 presso l’isola di Ustica. È stato anche un caso che ha influenzato le idee di genere e classe sociale: benché ognuno di questi episodi sia diverso, un filo rosso collega lo scandalo Montesi al massacro del Circeo, all’omicidio di Via Poma e ad altri casi di giovani donne di bassa estrazione sociale che sarebbero andate incontro a una morte prematura. In ognuno di essi, alle vittime fu dato poco valore da uomini che credettero di poterle usare e poi sbarazzarsene impunemente.
Traduzione di Michele Maiolani.