Il disagio di riconoscersi carnivori

12 Aprile 2013

Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle, deve essere un pericolo...

È la frase di Emil Cioran che appare anche nella homepage di Liberos, il progetto recentemente vincitore del premio Che fare. Non un caso, perché frase tra le più adatte tra quelle che si possono scegliere per dare un senso alla parola quando questa diventa condivisa in una comunità di lettori, così come, soprattutto, quando un libro, riuscito, rinnova la misteriosa alchimia tra scrivere e leggere, il patto non scritto tra autore e lettore.

 

La stessa sensazione di frugare come disturbo fisico può valere ugualmente per una fotografia, un quadro, il passaggio di un film, persino un documentario. Accade quando parole o immagini, come un brusio, parlano confusamente alla nostra memoria e alla parte grigia delle nostre conoscenze - quelle non ancora perfettamente consapevoli - perfino ai nostri sensi...

Un brusio, un frugare che scava e si allarga dentro, che non va più via... se non fosse che come disagio tendiamo a rimuoverlo, ad allontanarlo da noi, almeno fino alla prossima occasione.

Ma finché dura è una sensazione fisica “dentro”, un’inquietudine che produce inevitabilmente domande e... il bisogno di risposte.

 

È quello che può accadere dopo aver visto il documentario televisivo su Temple Grandin trasmesso nei giorni scorsi su un canale della tv di stato; ė quello che può accadere leggendo il suo libro La macchina degli abbracci (Adelphi 2007, Gli Adelphi 2012) o andando a rivedersi il film Temple Grandin una donna straordinaria, uscito negli Usa per HBO nel 2010 e successivamente in Italia.

Grandin Temple ė stata una bambina autistica nell’America degli anni 50, quando della malattia esisteva da poco tempo una diagnosi ma nella prassi la medicina tendeva ancora a collocarla tra le minorità mentali, quando accettare la minorità, oggi come allora, significa sempre un “destino al ribasso”. Cosa che non ebbe la nostra, curata dall’affetto e dalla ostinazione della madre, da buoni insegnanti fin da subito, ancor prima che, adolescente, le venisse finalmente diagnosticata la sindrome di Asperger, forma tra le meno gravi dello spettro autistico e ad alta funzionalità, in grado cioè di consentire la comprensione e la costruzione del linguaggio, di arrivare - previa adeguata istruzione e training - a buoni o alti livelli di conoscenze, persino eccellenti nella ricerca e nella vita professionale. Rimanevano e rimangono certamente in queste persone forti limiti nella costruzione dei rapporti interpersonali, nella comprensione delle emozioni altrui e nella gestione delle proprie, caratterizzati come sono questi individui da limitate relazioni sociali, problemi di comunicazione, interessi e comportamenti ripetitivi, ossessivi, difficoltà ad accettare qualunque novità ambientale.

 

Diversità che sono della patologia e che la Grandin - diventata con impegno e intelligenza docente universitaria in Scienze del comportamento animale nonché consulente dei principali allevatori americani - rilegge attraverso la comprensione della sua malattia. Una comprensione avvenuta con l’evoluzione delle scienze mediche e con la sua percezione di essere umano che fin dall’infanzia si rivela (così racconta) in grado di comprendere meglio gli animali delle persone. Una forma di comprensione fatta all’inizio di empatia minimale, fin da quando adolescente, nella fattoria di sua zia, scopre l’effetto calmante della macchina usata per immobilizzare le mucche durante la vaccinazione (venivano leggermente costrette tra pareti di legno poste a V); un’esperienza che ripete su di sé con lo stesso risultato e che la porterà anni dopo a progettare per sė stessa una macchina simile (la macchina degli abbracci appunto), che continuerà ad usare fino in età adulta.

 

Quest’empatia verso gli animali in seguito diventa vera e propria comprensione dei loro comportamenti, dei loro bisogni e paure, del loro modo di “vedere il mondo”. È del resto proprio il modo di vedere il mondo secondo la Grandin quello che avvicina la mente autistica a quella degli animali.

“Pensare per immagini”, dice la Grandin, è infatti ciò che accomuna i mammiferi (le attenzioni di una vita sono state in particolare sui bovini) e la mente autistica. Il mio cervello e il mio modo di guardare il mondo, dice la Grandin, è come google, non riporta concetti astratti, ma una carrellata di immagini per ogni oggetto di ricerca. Non esiste nel mio cervello un’idea astratta di chiesa se viene pronunciata questa parola, ma tante chiese quante quelle che ho visto e memorizzato. Il cervello autistico - e quello degli animali - è relativamente incapace di astrazioni ma più adatto a registrare la realtà per quello che appare, con tutti i suoi particolari, con tutti i suoi dettagli. Per questo le mucche negli allevamenti sono spaventate da particolari che l’occhio umano nemmeno vede: un drappo giallo, una catena appesa a una staccionata, un’imperfezione del pavimento, un brusco cambiamento di luce, una deviazione secca nel percorso obbligato in cui i bovini vengono avviata al macello...

Il mondo per i mammiferi è fatto di cose reali e di particolari e in questo sembra evidente l’affinità con le menti autistiche, in cui prevale l’ossessione dei particolari e la propensione alla ripetizione; un particolare per i soggetti autistici non è la variazione di un concetto ma sempre un elemento del reale con cui fare i conti.

 

La Temple racconta spesso nei libri e nelle interviste la sua crescita personale attraverso diversi fili conduttori che si intrecciano. Il progressivo controllo e affrancamento dalla malattia naturalmente, lo studio e la comprensione del mondo animale, lo studio della mente umana e del suo funzionamento, le relazioni con l’autismo via via che le conoscenze mediche progredivano. La Grandin non cita il concetto dei “neuroni specchio”, concetto che si affaccia sul palcoscenico delle conoscenze neurologiche negli anni ‘90, peraltro tuttora dibattuto e in fase di studio. I neuroni specchio vengono attivati in aree motorie e pre-motorie del cervello dei mammiferi, dei primati e dell’uomo in particolare, sia quando si effettua un azione sia quando quella stessa azione la si osserva in un altro soggetto. Nell’uomo sarebbero stati inoltre scoperti neuroni specchio coinvolti anche nel linguaggio. In estrema sintesi una stessa parola o espressione attiverebbe gli stessi neuroni sia nella fase di fonazione sia nella fase dell’ascolto. In pratica questi neuroni sarebbero coinvolti nell’apprendimento dei comportamenti, come del linguaggio, come nell’empatia, capacità verbale e non verbale con cui riusciamo a comprendere e sentire nostri i comportamenti di chi abbiamo di fronte.

 

In ogni caso, anche non considerando questo aspetto, la Grandin è consapevole che “i geni autistici”, almeno in alcune forme in cui si esprimono (vale a dire quelle dei soggetti ad alta funzionalità e in cui è sempre possibile l’apprendimento del linguaggio) definiscono altri modi di funzionalità del sistema nervoso, altri modi di rapportarsi con gli altri, un altro modo di vedere il mondo.

Si tratta di menti fondamentalmente visive, predisposte a registrare la realtà, che non possono prescindere da tutti i suoi particolari e sono incapaci o relativamente incapaci di astrazione. Capacità che la Grandin evidenzia per contro come quella tipica dei soggetti “normali”, menti linguistiche in cui l’apprendimento e la costruzione del linguaggio consente la possibilità di astrazione e quella di costruire universi paralleli a quello reale, in cui gli infiniti particolari che lo compongono vengono razionalizzati, enucleati, assimilati, associati...

 

Così procedendo nella conoscenza della studiosa americana, sfumano lentamente all’orizzonte delle nostre percezioni i diversi aspetti della malattia e affiorano semplicemente le differenze... e viene allora in mente come secondo George Steiner la scomparsa di una lingua (anche se parlata da poche centinaia o decine di persone) è sempre la scomparsa di un “modo di vedere il mondo”, di riconoscerlo, di interpretarlo.

Un destino e una dannazione quella linguistica propria della nostra specie, che fissa attraverso il linguaggio il rapporto con la realtà e che ci stacca dal resto dei viventi, “dannazione” di cui sembra possibile trovare echi insospettati già nella Genesi(2,19 ): “Allora il Signore plasmò ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi quello avrebbe dovuto essere il suo nome”.

 

Dentro l’Eden l’uomo impone il nome agli animali e con questa azione inevitabilmente si distacca da essi, riconoscendoli, enucleandoli dalla natura, associandoli, assimilandoli, razionalizzandoli....

Ma quali sono alla fine le domande che il libro, il film, il documentario sulla Temple e la sua avventura umana sono in grado di provocare? Dove collocare il disagio e il brusio di fondo che provengono dalle immagini e dalle parole della Temple?

 

Innanzitutto l’idea che lentamente si fa strada di come il “diversamente abile” non sia concetto astratto né tanto meno un’invenzione pietista per dare un nome all’handicap ma qualcosa di concreto, di difficile percezione magari, celato dentro le certezze della normalità e delle normali modalità con cui guardiamo il reale, le nostre abituali e le scontate certezze conoscitive.

E non tanto per la riuscita professionale della Grandin ma per perché quel successo evidenzia anche il palesarsi di capacità che non abbiamo, smarrite nel complesso processo con cui costruiamo il linguaggio e il nostro modo di pensare e di vedere il mondo.

Ma c’è qualcos’altro ancora...

 

In un campo completamente differente, emerge anche il sottile disagio che i miglioramenti introdotti dalla Grandin nei grandi allevamenti bovini degli Usa ci lasciano. La progettazione di percorsi obbligati (sinuosi e curvilinei tracciati finali) attraverso cui le bestie, docili e inconsapevoli del loro destino, vengono avviate al macello - destinate ad essere trasformate in bistecche ed hamburger a milioni - mette stranamente in una luce diversa la nostra condizione di carnivori seriali (quanto inconsapevoli?).

Che ognuno di noi sia più o meno felicemente carnivoro, resta che nessuno vuole sapere della macellazione né tanto meno vedere o anche solo immaginare come gli animali vengono uccisi. Un rifiuto comprensibile in una società che ha reso la carne un alimento banale (la fettina) e che nello stesso tempo ha sterilizzato ogni idea di fine materiale, riducendola ad un brusio lontano e confuso.

In tutto questo la vicenda umana della Grandin sembra possa farsi rivelazione, sorta di cartina di tornasole in grado di aumentare quel disagio...

 

La carne di cavallo per gli inglesi, quella di coniglio per gli americani, o ancora quella di altri animali per altre società, sono esempi di tabù alimentare, rifiuto di considerare cibo ciò che è in qualche modo riconducibile ad un’affettività sotto forma di animale contiguo a se stessi e alla famiglia, all’incirca quello che in inglese è compreso nel concetto di pet.

Un tabù quello del pet che mette in evidenza, solo a volerlo vedere, la nostra difficoltà ad essere carnivori convinti e allo stesso tempo restare fedeli all’idea della sacralità della vita.

Ma il concetto di pet, di per sé, è appunto solo un concetto, vale a dire l’evidenza di relazioni tra diversi aspetti del reale per le quali le “menti normali” sarebbero portate.

Così, conseguenza accessoria del conoscere il lavoro di Temple Grandin è quella di imbattersi allo stesso tempo nella conferma e nelle contraddizioni del nostro modo di rapportarci con l’ambiente e con gli animali, ormai fuori da ogni Eden.

 

Mente autistica che nel corso della vita ha provato empatia con i bovini più che con gli esseri umani, continua a progettare sistemi perfetti per allevarli e macellarli, sistemi perfetti davanti ai quali, per un momento, riusciamo ad interrogarci su come siamo diventati carnivori... su come lo siamo quotidianamente, mentre essere carnivori, prima di tutto, forse è solo un concetto, un’idea.

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