Il figlio di Saul. Nemesis?

6 Febbraio 2016

Il film inizia con una immagine sfocata, rivolta verso un “di fuori” che pare quasi incomprensibile, come se fosse la proiezione di un “di dentro” che ha smarrito per sempre la capacità di vedere (e di vedersi). Il campo di sterminio è il luogo dell’insondabilità, di una percezione stravolta poiché si fonda sulla cancellazione di qualsiasi residuo di umano e, quindi, di soggettivo. Il Lager non ha futuro, ossia non ha tempo: è un eterno presente, che si ripete ossessivamente, incessantemente, senza un perché ma con un solo come, quello del meccanismo dell’annullamento totale su scala industriale. Il campo è in sé una totalità e, quindi, non necessita di spiegazioni.

 

“Warum?”, chiedeva improvvidamente Levi, sentendosi rispondere: “Ist nicht warum!”.

 

Il manifesto civile della pellicola è chiaro fin dai primi fotogrammi: vorresti vederci chiaro ed invece, alla prova dei fatti, tutto si fa scontornato e privo di messa a fuoco. Quasi un esordio con sfida, per lo spettatore, il quale vorrebbe forse chiedere al regista e all’operatore, invece, per l’appunto di “mettere a fuoco”. Qui entra in gioco la dialettica negativa tra l’immagine e il contesto. Con essa, la “messa a fuoco”, nel senso letterale del termine, quasi dantesco, ossia quello dell’inferno dei crematori, diventa la contropartita che viene offerta per tutta la durata della visione – anche questa parola assume, nel contesto del film un significato a sé, di rivelazione intollerabile e quindi “non visibile”, non almeno del tutto, poiché visione è perversione – della pellicola.

 

Saul fia, in italiano Il Figlio di Saul, diventa così una parabola su come si debbano guardare le cose che non si possono in alcun modo vedere. Perché altrimenti si diventa cenere. Non a caso, infatti, la sua conclusione è quasi un capovolgimento dei furiosi minuti, degli infiniti, ossessivi, maniacali, ripetitivi fotogrammi che lo compongono: il protagonista, Saul Ausländer, ebreo ungherese, deportato ad Auschwitz e temporaneamente adibito alle tragiche funzioni assegnate al Sonderkommando, in attesa di essere a sua volta assassinato, osserva con lo sguardo pietrificato, che si addolcisce prima e si rende sorriso poi, un bambino. Dopo di che, con la fuga di quest’ultimo verso un qualche dove immerso nella natura placida e silente, e il contorno di spari che fanno da cornice all’eliminazione del piccolo gruppo di fuggitivi di cui Saul è parte, il film non finisce ma semplicemente cala l’ultimo passo nelle tenebre dalle quali è perennemente accompagnato. Saul non c’è più – lo intuiamo – e con lui anche la nostra capacità di dire qualcosa di sensato. Sarebbe forse bene partire da questi due estremi, l’inizio e la fine, per ragionare della pellicola, tragica come anche prodigiosa, abrasiva del pari alla carta vetrata, di László Nemes, giovane talento del cinema ungherese, nato nel 1977 e cresciuto con soli tre cortometraggi alle spalle. Siamo molto lontani dai lavori di Steven Spielberg ma anche di un Tim Blake Nelson di The Grey Zone, quest’ultimo comunque ingiustamente sottovalutato dalla critica italiana.

 

I dialoghi non esistono, e neanche i pensieri, ma solo il coacervo di rumori, strepitii, comandi e latrati che fanno da accompagnamento sonoro all’intera parabola raccontata: un uomo salva se stesso, ma non l’umanità, attraverso l’ossessione per un lutto di cui si appropria, quello per un ragazzino sopravvissuto pochi minuti alla camera a gas, da essa estratto ancora vivo e poi assassinato da un medico delle SS. Seppellirne il corpo diventa la missione, l’ultima possibile, prima di congedarsi dal mondo. Questa, in estrema sintesi, la trama. Il film è una miscela tra tre elementi prevalenti, ancorché non esclusivi: il volto dolente, fisso, rocciosamente inespressivo, scavato nella terra e nella roccia, di Saul; la presenza delle ceneri, che sembrano fuoriuscire dalla pellicola per incollarsi ai vestiti degli spettatori; le urla e le disposizioni secche, ripetute con abituale contorno di gratuite vessazioni, prevaricazioni e violenze, tra strattoni, spinte, insulti, nel mentre si fa il “lavoro del diavolo”, gestire la catena della morte. La cornice di senso rimanda a un plot narrativo rarefatto, disidratato del pari agli oggetti che si ammonticchiano un po’ ovunque, dai bagagli dei deportati ai corpi inanimati che emergono uno dopo l’altro dalle camere a gas. Dopo di che, dal momento dell’uscita nelle sale europee del film, realizzato con un budget ai limiti dell’irrisorio, lontano anni luce dalle disponibilità delle produzioni americane, il centro dell’attenzione tra critici e pubblico si è spostato su quel complesso di contraddittori convincimenti, di interdizioni così come di sollecitazioni, che rimandano all’etica dello sguardo, quasi che l’unico parametro da adottare per valutarne non tanto la qualità artistica quanto la sua intrinseca liceità fosse questo. Le polemiche al riguardo, quando si parla di sterminio, risalgono peraltro a molto tempo addietro. Quanto meno al celebre anatema di Jacques Rivette, pronunciato più di cinquant’anni fa contro la scena di Kapò, firmato da Gillo Pontecorvo, nella quale la protagonista Emmanuelle Riva si suicida gettandosi contro il filo spinato elettrificato del Lager. Prima ancora, peraltro, già qualsivoglia tentativo di andare “dentro” era stato bollato come un espediente per muoversi “oltre”.

 

Così Adorno, nella sua interdizione, pronunciata in anni nei quali l’attenzione su Auschwitz e sul “male assoluto” non aveva ancora assunto le proporzioni che poi gli avremmo tributato. L’accusa, da allora in poi, è quella di rendere oscena la morte ogniqualvolta la si raffiguri nei suoi particolari. Un veto, quest’ultimo, di antica data e innervato nel rituale del rispetto dei vivi piuttosto che del corpo dei morti. Una considerazione che trova in quelle fabbriche dell’annullamento che erano i campi di sterminio la sua epitome, poiché lo sterminio è distruzione a potenza ennesima. L’oscenità, infatti, era parte costituente dell’omicidio di massa, dove impudicizia si sommava a spoliazione, esibizione si coniugava ad abiezione, massificazione corrispondeva a cancellazione. La morte, ad Auschwitz, perdeva infatti qualsiasi dimensione privata. Una catastrofe totale perché senza neanche il sembiante di un qualche residuo raccoglimento, quando la persona che abbandona questo mondo si incontra con se stessa e cerca, tra angoscia e remissione, ribellione e depressione, assenza e consapevolezza di congedarsi da ciò che, plausibilmente, gli potrà sopravvivere. Effettivamente, c’è allora molta oscenità in quelle raffigurazioni cinematografiche. Ma non perché dedite a riprodurre, fosse anche solo in forma traslata, fatti che si prestano alla commisericordiosa e pietosa omissione. L’“oscenità”, semmai, ti precipita addosso per la sua naturale disposizione a realizzarsi non dentro una pellicola ma in quei luoghi senza tempo, storia, narrazione. Nemes parrebbe averlo capito e provoca lo spettatore, impedendogli letteralmente la “visione”. Sì, perché al centro del suo film c’è sempre e comunque una visione interrotta, incompleta, incompiuta. C’è narrazione ma anche interdizione al godimento narrativo. Non c’è nessun genere discorsivo al quale rinviare, come invece hanno fatto altri registi, in tale modo saccheggiando l’immaginario dello spettatore. In questo caso, invece, è lo spettatore ad essere colonizzato con lo schiaffo dell’improponibilità. Le stesse soluzioni tecniche (già è stato ricordato che la vera cifra espressiva di Nemes ruota intorno al formato della ripresa, ovvero al rapporto d’immagine, il 4.3 di taglio televisivo, dove il restringimento degli spazi lascia allo spettatore l’ossessione per ciò che sta fuori campo) vanno rigorosamente in questo senso, adottando lo sguardo del protagonista o, in alternativa, la sua schiena, come se fossero non solo intervallabili ma sostituibili. Vediamo il volto di Saul, guardiamo con la sua schiena. Tutto quello che avviene ed accade intorno a lui è destinato comunque ad occupare l’intera scena, a prescindere dal fatto che per parte nostra lo si veda per davvero fino in fondo, potendolo documentare “fotograficamente”. Ciò accade perché lo intravediamo in maniera volutamente incompleta e quindi siamo da subito attirati a leggervi in effige il non vedibile. Pensiamo così di vedere tutto, o quasi, ma la presenza del protagonista funge perlopiù da spioncino, una sorta di voyeur collettivo. Il campo ottico è strettissimo, laterale, anzi quasi “collaterale”, e ci impone, per l’appunto, di spiare l’orrore. Che è poi l’unico modo per non esserne fagocitati.

 

Il figlio di Saul è un film sulla impossibilità di uno sguardo oggettivo su quei fatti. Quei fatti esistono perché il vederli annienta la vista, l’acceca, e il raccontarli secca le parole e la lingua. C’è un paradosso in tutto ciò: Nemes affronta di petto, sapendo di provocare una congerie di reazioni, la sfida del tabù dell’indicibilità intellettiva, cognitiva, percettiva ma anche simbolica, semantica ed espressiva dell’abiezione totale. Ma lo fa per ritessere la trama di una «morale dello sguardo» (Giampiero Frasca) senza scadere nel racconto di una morale. Esattamente l’opposto della disposizione d’animo, spesso sentimentale, comunque emotiva, con la quale ci disponiamo verso quell’universo che si fa in noi obbligo di narrazione, come nel caso del ricorso al testimone (Annette Wieviorka). Il regista fa dire al suo protagonista che non c’è nulla da raccontare all’interno di un circuito fatto di pavloviane azioni e reazioni. L’unica sensatezza è lo sforzo inane e inetto, ostinato e perdente, di seppellire qualcosa. Non qualcuno. L’aderenza tra la residua individualità di Saul ed eventi integralmente criminogeni si consuma nell’impossibilità di un lessico che possa contenere ciò che resta dell’una e quanto va riproducendosi degli altri. L’immagine filmica ne registra la tragedia. Non è solo la morte industriale dei corpi ma anche quella del senso. Nulla di teologico ma, purtroppo, niente di morale. La pellicola del giovane cineasta ungherese è informata ad una intransigenza che schiaffeggia lo spettatore. Si tratta di una radicale presa di posizione, dove all’empatia con le vittime (pressoché indistinguibili) o all’avversione verso i carnefici (vicini e distanti, nel medesimo tempo, comunque anch’essi per più aspetti sfocati) si sostituisce l’indagine emica, all’interno di un labirinto senza fine. Memorabili, tra le tante, le scene in cui Saul si toglie di scatto la cinica e miseranda berretta del deportato, così come il sistema di regole interno al campo di sterminio imponeva ogniqualvolta un membro del Sonderkommando fosse entrato in contatto con una guardia. Di quest’ultima quasi mai vediamo alcunché, mentre aderiamo al gesto automatico del prigioniero. Nemes rispetta in tale modo il principio di irrapresentabilità ma lo fa costringendoci a cercare di guardare il fuoco e la cenere.

 

Ne usciamo comunque sconfitti, disperanti, angosciati. Non ci offre falsi conforti e neanche banali immedesimazioni. Ci dice che la pietà, in quei luoghi, era per davvero morta. Un’altra Europa, quella dei campi, appena dietro l’angolo delle nostre esistenze.

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