Il lutto del tutto

19 Ottobre 2011

Amore e morte, per eccellenza, sono i temi della poesia. Uniti in un vincolo tenace, stabile proprio perché soggetto a tutte le metamorfosi, tutte le contraddizioni. Ed è così almeno da quando i fondatori della nostra lingua, nonché della poesia moderna, Dante e Petrarca, hanno avuto in sorte la “grazia ben formidabile” (così una volta, più tagliente che mai, Edoardo Sanguineti) del fatto – storico quanto mitobiografico – che “l’amata muore”.

 

Poeta per antonomasia petrarchesco si è mostrato, sin dagli esordi di Dietro il paesaggio (1951), Andrea Zanzotto. Così lo presentava infatti, nel ’54, il suo primo grande sponsor Ungaretti: di fronte al “segreto d’un panorama”, ogni giorno riscoperto e nondimeno sempre uguale, non si poteva che pensare al “Canzoniere del Petrarca dove da sonetto a sonetto appare sempre lo stesso fantasma, ma l’animo da sonetto a sonetto si modula a un grado diverso”. Esibitamente e quasi provocatoriamente Petrarca, dunque: nel tempo, il secondo Novecento, del massimo culto per Dante. Così fra l’altro celando quella corrente alternata, quella tensione ostinata e contraria che nel sistema venoso-arterioso della sua lingua rappresenta appunto Dante: matrice sempre più evidente, di questa poesia, col progredire dal big bang della Beltà (1968) all’ultimo, sin dal titolo materico, Conglomerati (2009) – passando per l’ingens sylva della “pseudotrilogia” (come l’autore stesso la definiva) composta dal Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986). L’ipersonetto che si staglia adamantino al centro del “gnessulogo”, il magma verbale che dilaga nel paesaggio sconvolto del Galateo in Bosco, è il più virtuosistico monumento che si possa concepire in omaggio, ironico e insieme serissimo, alla “forma” – spazio “templare” in cui trovare riparo dalla bufera della storia (il Galateo è il libro in cui da terra affiorano i traumi delle Grandi Guerre novecentesche). E dunque a Petrarca, certo. Ma scritto in una lingua “aspra e chioccia”, irta e frusciante di dentali e sibilanti, che in modo molto più sostanzioso è a Dante che guarda.

 

Quella costituita da Dante e Petrarca è però solo la prima coppia dicotomica, il primo fantasma bimembre che struttura quelle che Zanzotto, al momento di raccogliere una prima volta i suoi fantastici saggi letterari, chiamerà le proprie “fantasie di avvicinamento”. Presto si affaccerà un’altra coppia di modelli, due occulti poli magnetici del poetico una prima volta scoperti parlando, nel ’79, di Ungaretti: Artaud e Mallarmé. Nel primo individuando “il rifiuto di uscire dalla fisicità, dalla corporeità, cioè un continuo ricadere del dire/scrivere in se stesso”, “secondo una modalità da chirurgia o addirittura da macelleria”; nel secondo “una spinta all’uscita totale”, un’ansia di “cancellazione” mediante la “dissoluzione del corporeo nel verbale”. Astrazione ed empatia, immaginario e materialità, lingua e corpo in Zanzotto si fondono in una stessa ossessione identitaria (e non potrebbe parlare più chiaro, circa l’alternarsi e il continuo capovolgersi reciproco di queste polarità, la morte di Mallarmé soffocato dalla carne della propria stessa lingua).

 

Ogni volta nella psiche zanzottiana (secondo quella che è una costante delle personalità ascrivibili al “manierismo” – diagnosi psicologica, prima che letteraria, che proprio Ungaretti per tempo aveva al suo riguardo formulato) si accampano insomma – nell’isterica coazione a definirsi, definendo e ri-definendo ogni volta l’essenza della poesia, della scrittura, dell’esistenza stessa – coppie di contrari che non trovano sintesi, che di continuo si attraggono per ogni volta confliggere. Quella che gli è in fondo più connaturata, storicamente parlando, contrappone appunto Ungaretti, “testimone della libertà”, a Montale “poeta della necessità”. Ma nella sua infinita stanchezza, anche pochi giorni fa – intervistato per lo speciale dedicato da Radio Tre ai suoi novant’anni – Zanzotto ha voluto citare un’ennesima coppia polare che, di nuovo, fa sprizzare scintille: Pascoli e Campana.

 

 

Amore e morte, come si diceva, non possono non essere grandi temi di tutti questi poeti. E invece Zanzotto è forse l’unico grande che non pare parlarne mai. Non c’è “amata” cui si rivolgano carmi e charmes, né viene nominata la di lei o la propria “morte” (a differenza, per dire, proprio del rivale Sanguineti: che una volta, intervistato in Olanda su quali fossero i temi della sua opera, secco rispose: “my wife and my death”). Ma naturalmente è vero il contrario. Proprio come per l’eros – mai nominato perché intride di sé ogni figurazione, imbibe ogni scorcio, rende ogni aspetto del mondo scivoloso ed esilarante – si potrebbe argomentare che un senso di morte incombe sempre, immanente a ogni poesia, ogni frase di Zanzotto. Non solo per la strenua interrogazione sul trauma storico dietro, o sotto, la coltre cauterizzante del paesaggio (un’“Arcadia” definiva la sua heimat nella grande lettera a Ungaretti, ma – specificherà in un’intervista tarda, concessami sempre per Radio Tre qualche anno fa – un’“Arcadia horror”: con la topica barocca del teschio che fa capolino nel fogliame… et in Arcadia ego, appunto).

 

Il grande tema del passaggio (cui esplicitamente è dedicato Pasque, nel ’73, ma che in filigrana si trova in ogni raccolta) si può infatti leggere come messa in scena mitologica, antropologico-culturale prima che psicoanalitica, di questo estremo limite del linguaggio: che proprio Zanzotto, quasi unico nel nostro tempo, corteggia lungo tutta la sua opera. A rileggere oggi Oltranza oltraggio, grande poesia incipitaria della Beltà e testo-manifesto dell’“oltranza” psicolinguistica che da quel momento in poi irresistibile pervade l’opera di Zanzotto, non si può che interpretare così: perfetto equivalente novecentesco, debitamente deformato e deformante, dell’Infinito leopardiano. Chi dice “io” si rivolge a un’entità innominata, un tu assoluto ma anche “vuoto”, che riscrive e trascende (e in certo senso capovolge, dunque) i lirici “tu” di Montale: “Salti saltabecchi friggendo puro-pura / nel vuoto        spinto             outré / ti fai più in là / intangibile – tutto sommato – / tutto sommato / tutto / sei più in là / ti vedo nel fondo della mia serachiusascura / ti identifico tra i non i sic i sigh / ti disidentifico / solo no solo sì solo / piena di punte immite frigida / ti fai più in là / e sprofondi e strafai in te sempre più in te / fotti il campo / decedi verso / nel tuo sprofondi / brilli feroce inconsutile nonnulla / l’esplodente l’eclatante e non si sente / nulla non si sente / no                    sei saltata più in là / ricca saltabeccante                        là // L’oltraggio”.

 

Unico possibile riferimento di questo tu “vuoto”, balbettato da un “io” quasi altrettanto cancellato, sporgentesi sull’abisso dell’innominabilità (questo il senso del riferimento dantesco, al XXXIII del Paradiso), è proprio la beltà. Ossia il nume-entità cui è dedicato il libro introdotto dal componimento: immagine splendente e terribile di una “bellezza” naturale mostruosa e onni-fagocitante, impietrante testa di Medusa e sfinge leopardiana (“forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi”: quella del Dialogo della natura e di un islandese, naturalmente). Nei termini lacaniani famigliari a Zanzotto, insomma, assistiamo qui all’incontro col Reale, il non-simbolizzabile, appunto l’indicibile. Ovvero la Morte. Il non-essere, l’anti-materia folgorante e orrorosa davanti alla quale tremante si fronteggia, in clima da catastrofe sub-atomica, l’“inconsutile nonnulla” che dice “io”, la docile fibra di “questa / lingua che passerà” (come aveva capito, Zanzotto, già nel pre-lacaniano Vocativo del ’57).

 

All’amico Zanzotto, Giosetta Fioroni ha dedicato ritratti memorabili. Sono tenerissimi quelli della sua testa-vulcano, cervice che sprizza lapilli di pura intelligenza, ben riposta sotto cappucci salvifici (salvifici per lui, ma anche per noi). Ma i più inquietanti-penetranti sono quelli che ritraggono le sue mani, mani pelose e ungulate da animale, da uomo-talpa che continua imperterrito a scavare nel paesaggio (come una sorta di sonda, trascendentale trivella conoscitiva destinata a sprofondare sino al centro della terra – scrisse di lui, una volta, Goffredo Parise); e fa poi capolino ogni tanto, nella sua poesia, l’immagine delle dita, dei polpastrelli che sfiorano la superficie del mondo e si protendono, quasi da Adamo michelangiolesco, a cercare il contatto con qualcosa di inconoscibile. Ecco, la poesia di Zanzotto dà sempre l’impressione di tentare il contatto con quello che non si può toccare, l’epitelio incandescente di quella che un suo fratello segreto, Emilio Villa, gnosticamente chiamava “la pelle del drago”: si spinge e ci sospinge sempre “più in là”, nel “friggere” d’ozono di una catastrofe imminente, nell’esaltazione “saltabeccante” di un’avventura che non ha precedenti e non prevede secondi tentativi.

 

 

Tanto si è discusso del balbettio di Zanzotto. Delle intermittenze, degli schiocchi e degli scoppiettii che di continuo frammentano e infinitamente segmentano un dettato, per altri versi, retoricamente strapotente (e a rischio di onnipotenza). È proprio con “l’interruzione”, ha scritto Jacqueline Risset sul “manifesto” il 9 ottobre, che Zanzotto “si avvicina ancora di più alla sorgente stessa del poetare”. Creaturale petèl (la pre-lingua puramente fàtica del linguaggio infantile, cui Zanzotto guarda con Piaget ma, ovviamente, già con Pascoli) o piuttosto lesione psichica, disturbo post-linguistico, arabesco brut, sgorbio informale paradossalmente estetizzante o sintomo angoscioso di paralisi, di un’incapacità altrettanto paradossalmente fondante (incapacità di dire, così moderna dopo Auschwitz e così postmoderna, ha aggiunto con intelligenza Stefano Colangelo sempre sul “manifesto”, “dopo l’oblio diffuso di Auschwitz”).

 

Allignando infestanti alla base del monumento innalzatogli in vita, monumento da parte nostra certo doveroso ma anche, per lui, così stremante (alla radio la voce di Zanzotto, che una volta deliziava come quella di un senex puer ironico e, sì, “saltabeccante”, risuonava ormai strascicata, rotta, catacombale), negli ultimi anni si sono infittiti i distinguo, le impazienze, i frettolosi ridimensionamenti di una generazione di autori sedicenti postnovecenteschi: che non a torto identificano nella sua opera l’emblema più caratteristico di un secolo in cui la poesia ha osato sfidare – lo si diceva – la propria anti-materia: sondando i territori rischiosi del disturbo, del rumore, persino del silenzio. È proprio questa, negativa, la “sorgente stessa del poetare” cui allude il crepitìo del fuoco zanzottiano. È di fronte a questo lutto del tutto che sorge ogni volta, ogni volta scandalosa, l’oltranza della lingua: col “piacere del principio” che solo è in grado di interrompere il silenzio e superare il rumore, e che sempre le è connaturato (diceva Zanzotto con le sue formule più folgoranti): principio speranza, anti-entropico “principio resistenza” che ostinato si oppone al dilagare del nulla nelle cose, nel tempo.

 

Con animo opposto, si capisce, a quello dei rottamatori del tempo di dopo non si può non condividere con loro il sentimento che con Andrea Zanzotto muoia il secolo troppo breve in cui la poesia ha voluto e saputo osare, precisamente, questo inosabile. All’opera di Zanzotto, che per tanto tempo ci calzava sulla pelle della mente come una guaina perfetta, da qualche tempo abbiamo cominciato a guardare da una certa distanza. Ma in questo modo non ci appare affatto diminuita. Al contrario ci sembra ora come il segno più straordinario, forse, del coraggio che ha saputo esprimere un secolo oggi impopolare (e il perché si capisce: nel tempo del nessun coraggio, della nessuna sfida). Perciò balbetta, questa poesia: perché non esiste coraggio senza aver vinto una paura – e proprio la paura è il sentimento in cui ogni volta ci immerge Zanzotto, e da cui ogni volta ci tira fuori. La “serachiusascura” del lato notturno dell’io, di un male oscuro di cui tutti, almeno una volta, abbiamo fatto esperienza, è la tinta profonda, l’aere perso che fa da fondale continuo, lo schermo-paesaggio in cui – quando meno te lo aspetti – balugina a salvazione la “lanternina cieca” di Pasque.

 

Nel terzo millennio, nella béance “outré” in cui siamo costretti a inoltrarci senza di lui, ci illumineranno ancora a lungo i suoi barlumi, i suoi fosfeni. Quando saremo dominati dalla paura, e certo lo saremo ancora come oggi lo siamo, non potremo che tornare a guardare a lui, al “dolcissimo padre” che (dice Stazio di Virgilio, nel XXI del Purgatorio) è stato come il servo lampadoforo, colui che avanzando nel buio rischiarava la strada a quanti venivano dopo di lui: “quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova”. Sempre nella Beltà, con ironia sferzante Zanzotto si rivolge Al mondo e lo incita a tirarsi “su”, a salvarsi da “questo super-cadere super-morire” impugnando il proprio stesso codino come il barone di “münchhausen”. Ma è esattamente quanto ha fatto lui, Zanzotto, con tutti noi. E noi, piccoli münchhausen, di questo oggi gli rendiamo grazie.

 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita oggi su “il manifesto”

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