Il manicomio sulla collina
Qualche giorno fa Umberto, naturalista e entomologo, mi racconta questa storia. È una calda estate di luglio, corre l’anno 1990, mancano pochi minuti alla mezzanotte e il mio amico è seduto su una panchina del parco del manicomio del Santa Maria della Pietà, c’è un lampione di fronte a lui e a un tratto, sfarfallante nel cono di luce, appare un raro esemplare di cervo volante. Lesto, si alza e raggiunge la macchina parcheggiata poco lontano, apre il portabagagli, tira fuori l’immancabile retino e torna sotto il fascio luminoso per tentare di acchiappare l’insetto. Mentre è lì che saltella, intento nella difficile impresa, si avvicina il guardiano del parco, che lo approccia con delicatezza: non era forse l’ora di fare rientro? Segue qualche secondo di assoluto silenzio, disturbato solo da un lieve ronzio. I due sono lì, si scrutano immobili nella luce del lampione, poi, a un tratto, la fragorosa risata di Umberto rompe il reciproco imbarazzo.
Gli anni Novanta costituiscono un’epoca liminare per il Santa Maria della Pietà, una fase cruciale di passaggio in cui lentamente l’ospedale psichiatrico si svuota, si apre alla città, lascia spazio a nuove attività e prospettive. Il dentro esce fuori e il fuori penetra dentro. È un vecchio complesso ospedaliero sorto nel 1909, quaranta padiglioni costruiti su centocinquanta ettari di florido terreno nel quartiere Monte Mario, un manicomio progettato con l’idea del villaggio, un’istituzione dotata di ogni servizio, capace di funzionare in autonomia. Una volta varcato il pesante cancello, ogni contatto con l’esterno è superfluo, è negato. Gli orti, il pascolo, le cucine, le falegnamerie, le botteghe, le lavanderie del complesso lavorano notte e giorno, centinaia di persone brulicano tra i padiglioni e i sentieri del parco, una cittadella nella città che ben presto conquista il titolo di manicomio più grande d’Europa, un ospedale dotato di più di mille posti letto, una macchina oliata e intoccabile, sino all’evento spartiacque della storia della salute mentale italiana: l’approvazione della legge 180 voluta da Franco Basaglia, che nel 1978 sancisce definitivamente la chiusura dei manicomi.
Dopo il riconoscimento legislativo, la rivoluzione basagliana travalica i confini triestini e raggiunge anche i solidi muri del manicomio romano. Lo fa lentamente e con un certo ritardo, scontrandosi con lo scetticismo dei medici, la ritrosia dei politici, lo sconcerto e il terrore delle famiglie e della cittadinanza tutta. I primi refoli del vento basagliano soffiano nel 1980, è l’anno in cui lo psichiatra romano Tommaso Losavio, dopo un’intensa esperienza a Trieste, torna nella sua città, vincitore di un concorso come primario. L’Unità sanitaria che è chiamato a dirigere comprende anche due padiglioni dell’ospedale psichiatrico di Monte Mario, il 16 e il 19, destinati alle persone dimesse dal manicomio in attesa di essere collocate all’esterno. Ad attenderlo a Roma c’è tutto un altro clima rispetto a quello respirato nel capoluogo friulano: il personale è scarso e mal preparato, i politici sono respingenti, le amministrazioni sono bloccate in attesa di una contro riforma della legge 180, che ancora non convince nessuno. Losavio e la sua squadra si rimboccano rapidamente le maniche: i servizi inizieranno a funzionare dodici ore al giorno, via i camici bianchi, ci si apre al volontariato e al sostegno di operatori e animatori. Le energie messe in campo sono giovani e tenaci, il primario ha quarant’anni ed è il più anziano del servizio. Il lavoro è duro e incessante, ma dopo alcuni mesi di incomprensioni, alterchi e scontri si raccoglieranno i primi frutti, si ammorbidiranno le rigidità, si stringeranno inaspettate alleanze e prenderanno vita nuovi rapporti di fiducia.
Il 7 aprile 1983 Tommaso Losavio, nei panni di un ingegnere comunale, è in attesa di fronte all’ingresso di un condominio di via Baccina, una nobile seppur malconcia palazzina al centro di Roma. È in perfetto orario e attende i suoi complici: un infermiere, un animatore e un volontario che avrebbero dovuto raggiungerlo a bordo di una 1100 blu. L’automobile arriva in ritardo, spinta a mano, sotto lo sguardo sgomento dello psichiatra. Banalmente, è finita la benzina. Nonostante i primi disguidi, i quattro entrano nel palazzo dotati di mazze e picconi e si dirigono sicuri verso un muro, iniziano a battere e a battere fino a che non emerge una porta, è l’ingresso di un appartamento abbandonato da anni, un immobile di proprietà del Comune di Roma di oltre duecento metri quadri, cinque stanze affacciate su Colosseo e Fori imperiali che un’energica rispolverata renderà pronte all’uso sin da subito.
L’operazione era stata architettata nei minimi dettagli nelle settimane precedenti, alcune collaboratrici di Losavio erano riuscite ad accedere ai tabulati che mappavano gli appartamenti di proprietà comunale disabitati e dopo una serie di sopralluoghi avevano selezionato il locale di via Baccina. Lo scopo era quello di trasferire nelle stanze della casa cinque signore, scelte tra gli ospiti ancora internati nel Santa Maria della Pietà. L’azione, sovversiva e rocambolesca, dà vita alla prima esperienza di casa famiglia per la deospedalizzazione nella capitale. A poco serviranno le deboli proteste delle istituzioni, il progetto andrà avanti con successo e ancora oggi la destinazione dell’appartamento è la stessa, sebbene sia sotto il controllo di un altro dipartimento sanitario, perché l’innovazione, come scriverà lo stesso Losavio in un breve saggio che ripercorre la vicenda “nasce spesso su terreni che non sono normati, che sono liberi o che vengono liberati”.
Agli inizi degli anni Novanta, nello stesso periodo in cui il mio amico è a caccia di cervi volanti per il parco del manicomio, i padiglioni aperti sono ancora una dozzina, nonostante la legge Basaglia sia entrata in vigore da più di un decennio. Nel ‘93 Tommaso Losavio è nominato direttore del Santa Maria della Pietà, o meglio, come puntualizza sin da subito, direttore per la chiusura del Santa Maria della Pietà. In quell’anno, ricorda oggi, il manicomio ospita ancora centinaia di persone, il cosiddetto “residuo manicomiale”, termine odioso che comprende tutti coloro che sono rimasti dentro, gli ultimi internati, i restanti, quelli che non sono stati dimessi perché per loro non si è trovata collocazione. Dopo la nomina, Losavio e i suoi collaboratori affrontano una doppia sfida: chiudere definitivamente il manicomio trovando alternative per gli ospiti che ancora non sono stati inseriti in percorsi di autonomia, e restituire quel luogo alle persone, inglobando nel tessuto urbano i centocinquanta ettari sottratti alla città. Quell’anno il parco del Santa Maria della Pietà sarà la sede dell’Estate Romana, con concerti, eventi, proiezioni, spettacoli, perché chiudere il manicomio, ripete sempre Tommaso Losavio, significa preparare le persone e il personale a vivere fuori: non è solo un’opera di deospedalizzazione, ma di deistituzionalizzazione. Chiudere significa smantellare totalmente l’istituzione che per secoli ha governato la follia.
Il 14 gennaio del 2000 il manicomio smette definitivamente di funzionare, rimangono un rigoglioso parco e una solida struttura architettonica. Oggi uno dei padiglioni ospita il Museo laboratorio della mente, nel periodo del Covid ha interrotto le visite ma sta riaprendo timidamente le porte in queste settimane. È un luogo fondamentale, che custodisce memoria e guida il visitatore alla scoperta di quelle pratiche terribili e disumane a cui per secoli sono stati sottoposti uomini e donne: cinghie di contenzione, catene, sedativi pesanti, elettroshock. Nonostante le molte difficoltà e il poco coordinamento, nell’ultimo ventennio molte altre attività e iniziative hanno preso vita nel dedalo di stradine del parco: laboratori, corsi, officine, spettacoli, feste. Proprio lì, in una delle prime fredde domeniche di questo autunno, ho assistito a un incontro con il drammaturgo Renato Sarti e l’attrice Daria Deflorian, che ha messo in voce una parte del testo Muri – prima e dopo Basaglia. Nel 1972 Renato Sarti aveva cominciato da poco a fare l’attore in un piccolo gruppo teatrale di Trieste, la direzione dell’ospedale psichiatrico provinciale gli aveva concesso l’uso del teatrino situato nel comprensorio manicomiale, a condizione che alle prove e agli spettacoli potessero avere libero accesso gli utenti. Tra le pazienti che si affacciarono alle prove ci fu Brunetta, una ragazza lobotomizzata, che aveva marchiata sul volto tutta la violenza di cui le istituzioni sono capaci: pochi denti, occhi infossati, cicatrici sulla testa, insieme a una parte del cervello le avevano tolto anche la capacità di camminare diritta e l’uso della parola. Brunetta, i suoi sguardi e la sua storia, hanno condotto Sarti nella stesura di un testo drammaturgico sul manicomio prima dell’arrivo di Franco Basaglia: camicie di forza, sporcizia, docce fredde, psicofarmaci, pestaggi, elettroshock, lobotomia. Dopo cinquant’anni Sarti è ancora lì, a portare teatro, memoria, conoscenza e cultura in luoghi impregnati di follia, sofferenza, terrore.
Alla fine dell’incontro sono uscita dal padiglione in fretta e furia per non perdere il trenino, la luna era già in alto, nel parco un signore con un cane passeggiava parlando al telefono, una donna in tuta e scarpe da ginnastica camminava veloce, un anziano riposava seduto su una panchina, un gatto sonnecchiava su una distesa di foglie gialle. Un autunnale ritratto di quotidiana deistituzionalizzazione.
È online una mappa sonora del Santa Maria della Pietà, con le voci di chi lo ha vissuto e attraversato. Si può ascoltare da qui.