Lettere dal braccio della morte

10 Ottobre 2024

Questo articolo poteva iniziare con un numero. 1596. L'esecuzione di Marcellus Williams, in Missouri, lo scorso 25 settembre 2024, è la 1.596esima da quando la pena di morte è stata riattivata negli Stati Uniti, il 2 luglio 1976. Tuttavia, nel corso di questa mia ricerca, ho presto smesso di interessarmi ai numeri, piuttosto ho realizzato, con una certa vertigine, che dietro a ogni numero esiste una inestricabile matassa di vicende di strada, storie familiari, violenze, congiunture politiche, coincidenze, imprevisti, tragedie. Ho tuffato la testa in alcune di queste matasse per molti mesi, mi sono trovata a parlare al telefono con persone finite nel braccio della morte per errori giudiziari, ho letto lettere d’amore di donne ormai sepolte, impiccate o fritte su una sedia elettrica, ho ascoltato le analisi di professori e avvocati, ho corrisposto con un uomo scampato alla pena di morte che oggi sta scontando l’ergastolo. Poi sono riemersa, dopo una lunga apnea.

Tutto è iniziato in una pizzeria romana, ai piedi dell’acquedotto. Bianca Cerri, amica, giornalista, instancabile attivista, ormai era già da tempo costretta su una sedia a rotelle. Ero andata a prenderla a casa, sembrava la cosa più sensata, eppure appena ho spinto in avanti mi sono accorta che era molto più difficile del previsto. Io ero goffa, Bianca terrorizzata e divertita. Non correre, vai piano, lì c’è una buca, cazzo così cado, vai piano ho detto, ma ci riesci? Fingevo maldestramente di non avere problemi e di avere la cosa sotto controllo ma a ogni minimo dissesto si inclinava tutto troppo a sinistra, e così mettevo in atto una manovra maldestra il cui rischio, corso decine di volte, era quello di staccare il tubo della bombola dell’ossigeno, infilato in uno zaino appeso ai manici della sedia. Infine siamo arrivate in pizzeria, sudate, spossate, divertite.

Durante quella insolita cena Bianca mi aveva parlato di un suo nuovo progetto, un libro che avrebbe voluto intitolare “Attica”, una biografia di una giovane afroamericana nata durante i giorni delle rivolte del 1971 nel carcere di New York. E poi mi aveva parlato dei suoi appunti, delle sue ricerche, delle centinaia di missive raccolte negli anni durante il suo lungo carteggio con i detenuti nel braccio della morte statunitense. Mi aveva fatto intendere che quelle lettere costituivano un bene prezioso, che non doveva andare perso e che anzi avrei dovuto aiutarla a archiviare e divulgare. Dopo pochi mesi Bianca ha contratto il Covid. Le è stato fatale.

Nelle settimane successive alla morte di Bianca Cerri, uno dei suoi fratelli mi ha consegnato due ingombranti buste della spesa cariche di faldoni, erano pieni di missive scritte a mano, decine e decine di fogli in buste con i mittenti più disparati, provenienti da ogni carcere degli Stati Uniti: Atmore, Mansfield, Walls, Polunsky Unit, Menard… Così, sfogliando quelle lettere e un libro di Bianca edito per Derive Approdi nel 2002 con il titolo America letale, per mesi mi sono dedicata a ricostruire le vite di decine di uomini e donne.

Bianca aveva iniziato la sua corrispondenza nell’estate del 1996, dopo avere letto un annuncio uscito su un quotidiano, poche righe in cui Rodney Rachal si presentava e chiedeva se ci fossero persone interessate a stringere con lui un’amicizia di penna. Classe 1970, Rodney è l’unico corrispondente di Bianca ancora in vita, la sua sentenza di pena di morte è stata annullata nel 2012, la condanna commutata in quattro ergastoli. Cresciuto nell’area più povera di Houston, nato negli anni della presidenza Nixon, Rodney è diventato uomo quando alla Casa Bianca c’era Reagan. Nell’ottobre del 1990, a venti anni, con un gruppo di amici elabora un piano, l’obiettivo è una rapina a danno di alcuni residenti di un quartiere ricco della città, tuttavia lo schema degenera e si conclude con un duplice omicidio. Dopo anni di lettere scambiate, Bianca lo ha descritto “come un ragazzo poco incline all’autocommiserazione e al rimpianto”, in un suo appunto nota come nonostante la lunga permanenza nel braccio, Rodney sia sempre stato in grado di mantenere un gioioso senso dell’umorismo, sforzandosi di non essere mai un peso per le persone che si occupano di lui, nonostante la malattia, l’aids, e una quasi completa cecità dovuta a un virus collaterale. Dopo anni di battaglia Bianca aveva ottenuto per lui degli occhiali speciali con cui poteva vedere qualcosa e muoversi in autonomia tra le mura del carcere. La sua sentenza di pena di morte è stata annullata nel 2012, la condanna commutata in quattro ergastoli. Dalla “pena di morte” alla “pena fino alla morte”, come ha notato il giornalista Riccardo Rosa, da anni impegnato sui temi carcerari, dopo avere ascoltato la storia di Rodney. Io e Alessandro, il fratello di Bianca, abbiamo rintracciato il carcere dove adesso si trova e gli abbiamo scritto una lettera, per comunicargli la morte della sua amica di penna, ci ha risposto con grande affetto.

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Bianca considerava Rodney un grandissimo amico, a lui era forse affezionata più che a molti altri, in cima alla lista c’erano lui e Emerson Rudd, quello che non esitava a definire suo figlio adottivo. Da Houston a Dallas, stesso anni di nascita: 1970. Emerson cresce senza appoggi né punti di riferimento, in un ambiente caratterizzato da violenza e privazioni, prostituzione e droga. Suo padre picchia e violenta la madre quotidianamente. I suoi riferimenti ben presto diventano altri ragazzi di strada ed è con tre di loro che nel settembre del 1988 entra in un ristorante della città, Captain’s Seafood. I quattro sono armati e minacciano di sparare se non viene loro immediatamente dato tutto il denaro nelle casse. Il direttore del locale, Steve Morgan, un ragazzo di 23 anni, assicura che non ci sono grandi somme disponibili. I rapinatori fanno partire un colpo, Morgan è colpito all’addome, i quattro scappano dopo aver racimolato ottocento dollari in contanti. Morgan, il giovane direttore, morirà in ospedale la mattina dopo, i rapinatori saranno rintracciati dalla polizia 48 ore dopo. Durante il processo, un avventore del ristorante riconoscerà in Rudd l’assassino di Morgan, ed è così che Emerson diventa il più giovane condannato a morte di Dallas. Sia nei suoi scritti privati sia durante le lunghe corrispondenze scambiate con Bianca, emerge con evidenza che Emerson, in una cella di pochi metri, aveva maturato una grande cultura, che lo ha portato a scrivere saggi politici, piccoli trattati di storia, acute osservazioni sul femminismo. Quando lo hanno giustiziato, il 15 novembre del 2001, era una persona completamente diversa da quella che aveva varcato la soglia del carcere tredici anni prima. Quel giorno Bianca cadde in una disperazione da cui seppe uscire solo grazie alla sua inesauribile voglia di vivere e al suo fervido attivismo.

Cara amica,

piuttosto che accettare di vivere come un abusivo, uno che non ha nessuna autorità a cui rivolgersi per poter esporre le crudeltà quotidiane cui viene sottoposto, ho scelto di lottare per questo: sono condannato a morte e non ho nulla da perdere, la mia vita è stata già espropriata da altri. 

Lo era già prima che arrivassi qui, forse: i poveri, gli oppressi, gli appartenenti alle masse in America non possono contare sulla giustizia, non possono sperare. Come tutti coloro che si trovano qui dentro, sono nato povero, come tutti i poveri non ho potere, non conto nulla: non ho quindi nessuna speranza di essere trattato da essere umano. In fondo, Frederick Glass ha detto che senza lotta non può esistere il progresso. Non può esserci il fulmine senza che in lontananza si senta il rumore del tuono. 

Forse dovrò lottare in senso morale, ma so già che dovrò battermi anche fisicamente: non mi preoccupa, ma si deve lottare. Il potere non concede nulla senza lotta.

Lo ha detto anche Nelson Mandela: «Un governo che insegna agli oppressi la repressione li incita a lottare con la forza anche contro le stesse regole che ha imposto. 

Non capisco chi predica la libertà ma depreca la lotta: è come volere un raccolto senza arare»... 

Non sai quanto ti voglio bene..

Emerson Rudd, «TheYoung Lion» – braccio della morte – Texas – giugno 1999

Nel periodo in cui ho messo mano all’archivio di Bianca, mi domandavo come potevo fare uscire dalla carta queste lettere, come dare voce a questi uomini e queste donne che per la maggior parte erano ormai morte, uccise nelle stanze del braccio. Così ho deciso di chiedere a chi un’esperienza di detenzione la sta vivendo oggi. Nell’autunno del 2023, ogni mercoledì, all’alba, io e Ludovica Andò, regista teatrale che lavora all’interno degli istituti penitenziari, abbiamo preso un treno per raggiungere il carcere di Orvieto. Qui un gruppo di detenuti per settimane ha letto, studiato, interpretato e registrato alcune delle lettere che Bianca ha ricevuto nel corso della sua vita, missive scritte dal braccio della morte degli istituti penitenziari più disparati. Le lettere di Muenda, per esempio, uno dei più prolifici amici di penna di Bianca, sono state studiate da Gianluca, un ragazzo giovane, entusiasta, brillante, tenace, un grande lettore e un navigato viaggiatore, capace di parlare perfettamente quattro lingue. Ha scelto lui questa lettera, perché, ha detto, spiega perfettamente quello che accade anche all’interno delle carceri italiane.

La domanda che mi rivolgono spesso, o almeno quella che mi sono sentito rivolgere un numero infinito di volte sino a oggi, è: “Ma come si vive nel braccio della morte?”. 

Non so bene cosa rispondere. Credo che non esistano neanche le parole sufficienti per interpretare il vastissimo spettro di emozioni che esistono qui. Ecco, direi che vivere nel braccio della morte è prima di tutto un’esperienza emotiva. E non so se spetti a me dire che cos’è il braccio della morte. Un compagno di prigionia mi ha detto: “Tu sei un nero e i neri non li sta a sentire mai nessuno”. 

Fra l’altro, so benissimo che l’opinione pubblica non ha nessuna simpatia per i prigionieri del braccio della morte. Questo è il mio primo dilemma emotivo. Devo costringermi a mettere una maschera d’indifferenza mentre dentro di me sento risuonare mille emozioni che si alzano e si abbassano come in una marea incessante. 

Sono in una bolla di sapone che copre le emozioni, che annulla le illusioni. Il braccio della morte ti costringe a tagliare di netto con il mondo. A volte mi capita di temere di rivedere le persone che hanno fatto parte del mio mondo di prima ma, allo stesso tempo, desidero vederli ardentemente.

Per motivi di sicurezza c’è un vetro divisorio rinforzato tra noi e chi amiamo. Mi è venuto in mente di chiedere a parecchi altri prigionieri se anche loro provano la mia stessa rabbia e frustrazione nel non poter abbracciare le persone che amano. Molti hanno detto che per loro è la stessa cosa. Fra quelli che si trovano qui da lungo tempo è subentrata l’abitudine. Per qualcuno le questioni giuridiche sono le uniche che contano, la vicinanza umana è un lusso che non li interessa. Solo pochi hanno espresso la loro rabbia. 

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A me manca molto il contatto con l’altro sesso. Non solo dal lato sessuale, ma anche nel senso dell’intimità. Mi sono sforzato di recidere i miei nervi emotivi, altrimenti non avrei resistito. Oltretutto, qui non è consentito mostrare debolezze. Chi si fa scoprire debole perde ogni credibilità. Quello che bisogna fare è soffocare il proprio io interiore e, al tempo stesso, crearsi un’immagine esterna senza cedimenti. Bisogna rimanere freddi e distanti per sopravvivere qui. Solo che non è semplice. Chi tradisce le proprie emozioni, chi non sopporta la pressione viene deriso, ma non si può sempre negare tutto quello che si prova. Un debole qui non ha altra scelta che rintanarsi in un angolo e non uscirne mai più. Sarebbe veramente utopico pensare di trovare qui una spalla su cui piangere. Allora, non c’è altra scelta che rassegnarsi al dolore, alla frustrazione, anche se spesso questo porta a scelte drammatiche.

Tutti i giorni vedo gente che combatte per cose stupide, come una scommessa da pochi centesimi. Eppure, quella è solo una scusa: la rabbia viene da livelli molto più profondi. È una rabbia che proviene dalle emozioni negate dentro. Del resto, qui entrano solo i derelitti, che vengono da ambienti in cui non esiste la sensibilità, e spesso è proprio questo il motivo per cui si finisce dentro: un’esistenza marginale, una povertà estrema, una famiglia disagiata, un problema mentale. È stato provato che chi arriva al crimine non ha mai conosciuto la normalità, l’affetto, il benessere, almeno per la maggior parte. 

Qui la pazzia si fa vedere ovunque: in alcune celle ci sono uomini che non fanno che dormire, annegando nel sonno la loro frustrazione. Giù in fondo c’è un uomo che fa finta di essere ubriaco perché soltanto così riesce a far finta di sopportare questo ambiente. Altri non hanno mai detto neanche una parola da quando sono arrivato qui. E c’è il tizio che invece sente musica tutto il giorno e si mette a ballare da solo. La musica è un’ancora di salvezza per lui. La musica è la sola amica che ha. Altri camminano barcollando, come mummie. E per ultimi ci sono quelli che si svegliano una notte e scoprono che l’unico modo di far tacere il dolore che provano è attaccarsi a una striscia di stoffa e lasciarsi cadere. A volte sento il desiderio di mettermi a scrivere poesie, cerco disperatamente un modo di esprimere le mie sensazioni. È che non riesco a dare forma ai miei pensieri. Non credo sia possibile far capire che cosa è il braccio della morte. Giro intorno alle parole ma non ci riesco. L’unica persona alla quale ho saputo dire tutto è mia madre, perché con lei le parole non servono. Lei vive in me.

Muenda – Braccio della morte Texas – Inverno l997.

A distanza di alcuni mesi da quelle mattinate nel carcere di Orvieto, siamo tornate per riascoltare insieme le registrazioni. Quel giorno c’erano anche molti detenuti che pur non avendo partecipato al laboratorio, si erano interessati a quelle lettere. Il rotolino di fogli stampati con alcune delle missive ricevute da Bianca aveva fatto il giro della casa di reclusione. “Ci ha dato speranza” ha detto qualcuno “a noi che abbiamo due o tre anni da scontare”. Questo materiale, le lettere e la loro interpretazione da parte dei detenuti italiani, ora trovano ospitalità in diversi contesti: il 2 novembre prossimo ci sarà occasione di parlarne a Napoli, all’ex Opg, nel corso di una rassegna dedicata all’arte contro le pene capitali. A giugno scorso la Casa della Memoria e della Storia di Trastevere, a Roma, sede del Circolo Gianni Bosio, ha organizzato un incontro per condividere il contenuto delle lettere e ampliarle con le informazioni conservate dal prezioso archivio del Bosio, lì ho scoperto una meravigliosa intervista realizzata da Alessandro Portelli a un investigatore privato di San Francisco, Joe Barthel. Su ingaggio di avvocati della difesa, Barthel da anni ricostruisce le storie di vita dei detenuti nel braccio della morte grazie a certosine ricerche. In questo lunghissimo e appassionato colloquio racconta: “è bello che i giurati possano sentire le storie degli imputati in modo da pensare criticamente a ciò che condiziona i comportamenti e che questa comprensione possa aiutarli a controllare la propria ira e a pensare più generosamente alle proprie comunità. I racconti ci possono aiutare anche a salvare e riformare quelle comunità, se ne riconosciamo il significato” e conclude “il racconto crea un senso di condivisione, la condivisone genera un senso di storia comune, e un senso di storia comune – sia pure una storia contestata – crea la possibilità di una comunità”.

In un articolo uscito per la rivista Napoli Monitor, Riccardo Rosa ha sottolineato “la necessità di immaginare una nuova relazione tra il dentro e il fuori, che oggi non può essere quella di quaranta o cinquant’anni fa. Stringere rapporti, ascoltare le voci, supportare le persone, sforzarsi di entrare dentro i corpi di chi è recluso è forse l’unico modo per far comunicare e contaminare tra loro lotte che, in maniera diversa, sia dentro che fuori, si dipanano affannosamente per l’eliminazione di questa inumana e antistorica istituzione”.

Oggi le lettere originali si trovano all’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, che si sta occupando di digitalizzarle e renderle pubbliche. Le immagini sono realizzate dall’Archivio stesso.

Le registrazioni sono confluite in un audio documentario in quattro puntate dal titolo Cara Bianca, prodotto da Next New Media. Si trova su tutte le principali piattaforme di podcasting.

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