Sopra una vicenda dei giorni nostri / Il parere di Dante

16 Aprile 2017

“A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano [cioè apprezzano e lodano] lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni”: comincia così l’undicesimo capitolo del primo trattato del “Convivio” di Dante, opera incompiuta che, nei secoli, ha inoltre avuto una fortuna molto ineguale. A Dante si possono attribuire tante qualità. Difficilmente si può però dire fosse un uomo accomodante o di buon carattere. O ancora che – così si dice al giorno d’oggi – le mandasse a dire. In proposito, quel capitolo è esemplare. Due rapide parole per inquadrarlo grossolanamente dalla prospettiva qui pertinente. E resa pertinente da recenti vicende di cronaca nazionale che hanno visto l’italiano fare da involontario protagonista.

 

Dante era un dotto ma, fatte poche eccezioni, i dotti del suo tempo gli piacevano poco. Del resto, dire “noi”, in funzione di una congrega qualsiasi, non fu da lui. Egli procurò di far sancire questo suo tratto umano da Cacciaguida. Succede nel diciassettesimo del “Paradiso”, quindi con ogni crisma. Decisivo pretesto, al riguardo, la politica: “sì ch’a te fia bello | averti fatta parte per te stesso”, il poeta si fa dire appunto da quel suo antenato.

Per venire ai dotti, gli universitari in particolare, Dante li aveva proprio in uggia. Intratteneva con essi un rapporto controverso quanto a non pochi temi e, certamente, quanto alle faccende di lingua. Allora e, del resto, sempre tali faccende sono alla base di ogni tema culturale o di civiltà. Dire qualcosa in una lingua è prospettarla secondo quella lingua, è darle esistenza in dipendenza specifica da quella espressione e non da un’altra.

 

Ebbene, per dibattere tra loro, i dotti universitari non mettevano giù un rigo, all’epoca, che non fosse in latino. Non in latino ma in volgare Dante si sarebbe messo a scrivere un trattato filosofico (della filosofia di allora, s’intende, capace di sussumere ogni specializzazione del sapere). Fino a quel momento, Dante aveva scritto in volgare rime e cose (giovanili) correlate. Nei suoi progetti di una maturità dolorosamente raggiunta, con il “Convivio” si sarebbe impegnato per procurare, di tale volgare, una variante nuova e ancora non sperimentata. Con essa si proponeva di dare forma a temi diversi dai suoi giovanili. Temi meno intuitivi e più razionali di quelli fin lì messi da lui per iscritto. Per tali temi egli sentiva peraltro pertinente una lingua netta, meno sonora e meglio stagliata di quella della poesia. Ma di ciò, più nel dettaglio, capiterà magari di dire un’altra volta. Si tratta infatti di faccenda appassionante e che, quanto alla storia linguistica nazionale, rovescia parecchie idee ricevute e luoghi comuni.

 

L’operazione che Dante immaginava domandava un pubblico. Gli era chiaro che era anche un’operazione politica. Di politica culturale, si direbbe oggi. Quale fosse, idealmente, quel pubblico, lo enunciò pertanto nel trattato d’apertura: chi, d’animo nobile, avesse curiosità e amore per il sapere, senza ricerca di un profitto materiale e (nota che oggi non può che piacere) senza preclusione di genere. Donne e uomini insomma cui la padronanza del latino dei dotti non era richiesta. A costoro, egli si rivolge e li invita a un allegorico “Convivio”, per nutrirsi insieme con lui della saggezza di una scienza.

L’invito, lo sapeva, era sbardellato ed era ragionevole prevedere che a quei dotti avrebbe dato noia: non solo non se lo nascondeva, ma a un esito del genere si può dire mirasse. Sapeva che si sarebbero anzitutto attaccati alla sua scelta espressiva. Prima ancora di cominciare a discutere eventualmente del merito delle sue idee, avrebbero ritenuta indegna la prima di quelle idee: che si potesse scrivere di filosofia in volgare. Nella sua opera, il volgare era infatti anch’esso una questione affatto di merito e per nulla esteriore. Dante dotò in proposito la premessa dell’opera che cominciava a scrivere di un’ulteriore faccetta: un elogio bello e appassionato dell’idioma che più avanti si sarebbe detto italiano. Ecco allora che allo spirito di Dante, con l’elogio del volgare ch’egli sentiva suo e della comunità cui voleva rivolgersi, si presentano per contrasto “li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”: appunto le sue parole d’esordio, nell’undicesimo capitolo del primo trattato del “Convivio”.

 

 

All’epoca di Dante, molto in voga era quel volgare che si sarebbe poi sviluppato come lingua comune della nazione francese. E, in Italia, gente che, a confronto, spregiava il suo volgare ce n’era anche a quei tempi. La nazione qualificata dal volgare del sì non ne ha mai difettato, a dire il vero. Mutate le cose che vanno mutate, capita si sia qui, per certi versi, a farsi ispirare dallo stesso tema sette secoli dopo.

Agli spregiatori italiani del volgare del sì Dante dedica allora una violenta invettiva. Nei nemici del suo volgare, del resto, egli vedeva suoi nemici personali: visto come sono andate le cose, gli si può dare torto? Non voleva intavolare con essi una discussione alla ricerca di un compromesso. Voleva annichilirli moralmente. O lui e il suo volgare o loro e il loro spregio per quell’espressione. Alternativa secca.

Per spirito e cultura, a Dante classificare era molto congeniale: c’è lì il suo poema a testimoniarlo, se ce ne fosse bisogno. L’invettiva è dunque anzitutto sistematica e classificatoria e muove alla determinazione delle ragioni che animano la malvagità. A ispirare la condotta degli spregiatori italiani del volgare del sì che si fanno al tempo stesso lodatori dei volgari altrui sono appunto “cinque abominevoli cagioni” e ciascuna è propria di una “setta” e pertinente per identificarla.

 

“La prima [cagione] è cechitade di discrezione”. Sul volgare del sì circola voce, scrive Dante, che sia linguetta da nulla. Oggi si potrebbe dire, buona solo a far canzonette, a discettare di calcio o di cucina. A sapere discernere (è il verbo che si correla con “discrezione”), a sapere distinguere, a capire se ciò che circola sia un’opinione errata o no, sono sempre in pochi. Agli altri, alla maggioranza, la facoltà di discernere fa difetto: per traslato facile e tradizionale, sono ciechi. Tra i ciechi non mancano naturalmente gli intraprendenti. A essi si accodano i ciechi in massa, come pecore: “E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava”. Spregiare il proprio volgare, lodando l’altrui, solo perché si sente altri farlo, è per gli italiani gettarsi alla cieca, come pecore, in un pozzo.

 

“La seconda [cagione è] maliziata escusazione”: una scusa escogitata in modo capzioso. C’è gente, osserva Dante, che, quanto a ciò che fa, tiene ad avere fama di maestria più di quanta ce ne sia che, un’autentica maestria, la possegga. Colta in fallo, per coprire la propria mancanza e non ammetterla, gente siffatta accusa del proprio fallimento la materia sulla quale opera o lo strumento di cui si serve: “Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio”.

 

“La terza [cagione è] cupidità di vanagloria”. Qui, parafrasi e riassunto sono superflui: “Sono molti che per ritrarre cose poste in lingua altrui e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto”.

 

“La quarta [cagione è] argomento d’invidia”: non c’è attitudine umana più umana dell’invidia. Dove c’è eguaglianza, dice Dante, c’è invidia. Nella comunità animata da una lingua, c’è in linea di principio eguaglianza tra i parlanti. Nei fatti, però, c’è chi si serve meglio e chi peggio di quella lingua. Ed ecco apparire l’invidioso. Celando anche a se medesimo la sua ignobile attitudine, il peggiore fa mostra di spregiare la lingua in cui il migliore s’esprime: sarebbe capace chiunque di farlo, sostiene.

 

“La quinta e ultima [cagione è] viltà d’animo, cioè pusillanimità”: per Dante, il fondo dell’abiezione. Per il magnanimo, tutto ciò che gli pertiene – e certo il suo volgare gli pertiene – è grande: forse più grande di ciò che in realtà esso sia, ma poco importa. Importa osservare che, al contrario, per il pusillanime tutto ciò che gli pertiene è piccolo e misero. È quindi sterminata la setta degli spregiatori del proprio volgare, proprio perché i magnanimi sono pochi e moltissimi invece i pusillanimi: “sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto [cioè al séguito dei quali] vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione”. E così il circolo è chiuso e il capitolo finisce. Un’ultima osservazione sul suo dichiarato intento.

 

Per Dante, come si sa, tutto soggiace a un’alternativa: o per sempre o da nulla. Non si dice l’effimero, ma persino il (modicamente) durevole non merita che vi si costruisca sopra un’argomentazione, con la connessa fiducia. Una prospettiva più che lontana, in aperto conflitto con quelle oggi ovvie e praticate. Una prospettiva straniante che, a ben vedere, si fa fatica a liquidare pensando che siano cose d’altri tempi, perché ciò che una prospettiva del genere mette in discussione è esattamente che altri tempi ci siano. Un punto di vista da matto? Sarà, ma un punto di vista umano, come tutti gli altri. Il capitolo rapidamente riassunto è allora concepito per procurare agli spregiatori del volgare del sì un discredito “perpetuale”: così suona la prima parola grave e piena del capitolo. Per dirla con un’espressione d’oggidì, la confezione dell’invettiva non porta una data di scadenza. La sua validità è data come perpetua. E così si è al punto.

 

Sul fondamento della sua concreta esperienza, chi legge giudichi allora liberamente se le implacabili parole di Dante e il quadro che esse disegnano con rigorosa sistematicità dicano qualcosa su quanto sta (di nuovo) succedendo. Giudichi se da tali parole venga un aiuto a capire anche l’oggi, al di là dei suoi indubitabili aspetti transeunti.

Il “Convivio” è un classico, d’altra parte, e, a parere di un noto intenditore, un classico è un’opera che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. Anche quando, come nel caso specifico, si tratta di ragionate contumelie.

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